CORSI, Cosimo Barnaba
Di famiglia marchionale, nacque a Firenze il 10 giugno 1798 da Giuseppe Antonio e da Maddalena dei conti della Gherardesca.
Ammesso tra i paggi di Elisa Bonaparte Baciocchi, granduchessa di Toscana (3 marzo 1809-1° febbr. 1814), alla caduta del regime francese decise di abbracciare lo stato ecclesiastico, e nel 1815 ricevette gli ordini minori. Due anni dopo si recò a Roma, dove compì una carriera eccezionalmente rapida. Nel 1819, a ventun anni per dispensa di Pio VII dall'età prescritta, non ancora sacerdote, era uditore di Rota. Ordinato sacerdote nel 1821, nominato nel 1825 segretario della commissione dei sussidi, nel 1835 era promosso decano della Rota. L'attività, anche se limitata a casi di ordinaria amministrazione, è attestata dai cinque volumi delle 705 sentenze stese dal Corsi. Nel gennaio del 1842 egli era nominato cardinale dei SS. Giovanni e Paolo, e tre anni più tardi trasferito a Iesi come vescovo. Eletto papa Pio IX nel 1846, anch'egli fu travolto dall'entusiasmo suscitato dall'amnistia del 16 luglio. Forse anche per non esser da meno del vescovo di Gubbio, Giuseppe Pecci, che aveva esaltato in termini escatologici l'atto del papa come l'inizio di una nuova era, il 23 agosto il C. paragonava Pio IX al padre del figliol prodigo. Cadute poi le illusioni e dissipati gli equivoci, nel gennaio 1849 non esitò a pubblicare la scomunica contro i fautori della Repubblica romana. Come pastore, dette prova di sincero zelo e seppe accattivarsi la simpatia della popolazione, pur mostrandosi incline all'uso di mezzi coercitivi, e fortemente preoccupato di trovare sempre nuove risorse economiche.
Due anni dopo la morte dell'arcivescovo di Pisa mons. G. B. Parretti, il granduca Leopoldo II propose il C. per la cattedra pisana, alla quale fu traslato il 19 dicembre del 1853.
La designazione, subito accettata dal papa, aveva incontrato resistenze da parte del C. per due motivi. Nel 1841 il governo toscano, secondo un uso piuttosto diffuso nell'ancien régime, aveva assegnato al decano della Rota, vita natural durante e senza condizioni, una pensione annua di 20.000 lire; al momento della nomina a Pisa, esso annunziò al neoeletto che, date le cospicue rendite della mensa arcivescovile, la pensione sarebbe cessata. Il C., per una questione di principio, difese ad oltranza il diritto alla pensione, mostrandosi tutt'al più disposto a "restituire" al granduca 12.000 lire annue. Davanti all'irrevocabile decisione del presidente del governo toscano G. Baldasseroni, il C. rispose che si piegava al fatto senza intendere rinunziare ai suoi diritti.
Più fortunata fu la decisione di non chiedere al governo l'exequatur, ritenuto lesivo della sua dignità ed indipendenza. Dopo lunghe resistenze da parte toscana, e dopo vari contatti diretti fra Pio IX e Leopoldo II, il governo accettò alla fine una semplice comunicazione fatta dal vicario generale della diocesi, in termini accuratamente pesati.
Deciso avversario del giurisdizionalismo, il C. iniziò subito una lotta a fondo contro gli interventi del governo toscano negli affari ecclesiastici. Le controversie, che si susseguirono dal 1855 alla fine del regime lorenese nel 1859, ebbero copie oggetto soprattutto il regime dei conservatori, gli istituti cioè sorti dalla trasformazione di antichi monasteri contemplativi e destinati all'educazione femminile e all'assistenza ospedaliera, con vita comune, abito e regola religiosa, ma di natura giuridica non del tutto chiara in un periodo di evoluzione della stessa legislazione canonica sugli istituti religiosi.
Il C. ne difendeva la natura religiosa e si arrogava il diritto di nominarne le superiore e di controllarne l'andamento; il governo riteneva questi enti come laici, e se ne attribuiva la sorveglianza sul piano economico e morale. La questione si trascinava dalla stipulazione del concordato del 1851, ma si fece più acuta col suo arrivo a Pisa. Per reagire alla circolare governativa del 7 febbr. 1856, con cui il governo si attribuiva la nomina del direttore spirituale e il nulla osta all'ammissione delle candidate, il C. sospese ogni vestizione. L'anno seguente, quando il commissario governativo nominò unilateralmente la superiora di un conservatorio addetto allo ospedale, il C. intervenne sanando in radice la nomina da lui ritenuta illegittima, procedendo alla vestizione di nuove oblate senza alcuna autorizzazione e minacciando di scomunica il commissario. Davanti alle proteste del governo replicò con una franca lettera al granduca, e tirò dritto, senza seguire i consigli dell'internunzio A. Franchi, che suggeriva la consueta via, dichiarare cioè di cedere alla forza maggiore rivendicando contemporaneamente i propri diritti come imprescrittibili. Si rivolse anche a Pio IX, ricevendo il 6 maggio 1858 una piena approvazione per la lotta contro le leggi leopoldine "che pugnano direttamente e vergognosamente contro l'autorità della Chiesa". La questione si trascinava ancora al momento della rivoluzione del 27 apr. 1859.
Nel 1856 aveva iniziato la visita pastorale, accuratamente preparata con un apposito questionario inviato in precedenza a tutti i parroci. Il formulario domandava esplicitamente se i medici osservassero fedelmente lo ordine, emanato nella seconda metà del Cinquecento da Pio V, di non continuare la cura degli ammalati che ricusassero di confessarsi. L'insistenza su questa prassi, tipica di un regime di "cristianità" da tempo superato, e praticamente non osservata a Pisa (le risposte dei parroci sono in proposito interessantissime), rivela il carattere della sua pastoralità. Negli stessi anni si preoccupò del proselitismo protestante, in realtà limitato e sporadico, e non esitò a ricorrere con insistenza al granduca per ottenere l'appoggio del braccio secolare.
Dopo la deposizione del granduca Leopoldo II, mentre altri vescovi, come quello di Firenze mons. G. Limberti, seguivano una linea piuttosto elastica e possibilistica, il C. continuò a mostrare la sua consueta intransigenza.
Si tenne lontano da ogni rivendicazione legittimista, ma protestò più volte in modo energico presso il ministro degli Affari Ecclesiastici V. Salvagnoli per la diffusione di libri e spettacoli contrari alla morale cristiana, per la propaganda contro il potere temporale, e perfino per la ristampa delle opere del Machiavelli. Gradualmente l'atteggiamento del C. fu imitato da quasi tutto l'episcopato toscano che si associò alle lettere collettive contro l'abolizione del concordato del 1851.
L'intransigenza del C. (ben diversa però dalla linea di altri vescovi, come mons. G. Arrigoni di Lucca, mons. Limberti di Firenze, il card. G. Pecci di Perugia), portò presto ad una rottura. L'occasione fu offerta dal divieto fatto agli ecclesiastici di celebrare in cattedrale il Te Deum per la festa nazionale e dalla sospensione a divinis comminata ai trasgressori. Arrestato il 19 maggio 1860, venne trattenuto a Torino in prigionia presso l'economo dei benefici vacanti fino al 6 luglio, e, più fortunato di altri presuli, poté tornare nella sua diocesi il 1° agosto.
L'arresto, giustificato dal Cavour con la ragion di Stato, aumentò il prestigio del cardinale e approfondì il solco fra Stato e Chiesa. Il C. fu da allora il vero capo della Chiesa in Toscana, in stretti e cordiali rapporti con il papa e seguito da quasi tutto l'episcopato, come appare dalle reiterate proteste contro le varie misure di laicizzazione, redatte dal C. e sottoscritte da quasi tutti i suoi colleghi. Anche in seguito non mancarono misure severe contro i sacerdoti che avevano celebrato funzioni religiose nelle feste nazionali. Contemporaneamente nelle pastorali il cardinale bollava nei toni apocalittici consueti alla polemica intransigente, ma con maggior autorità, il processo di secolarizzazione in realtà allora appena incipiente.
L'intransigenza non impedì al C. di sconsigliare realisticamente la S. Sede nel 1866 di intentare causa al governo contro le leggi eversive come incostituzionali, iniziativa vista con favore dall'episcopato piemontese. E alla fine del 1869, in occasione di una grave malattia di Vittorio Emanuele II, allora dimorante nella tenuta di San Rossore presso Pisa, ne seguì da vicino il decorso, e dietro sue istruzioni il cappellano di corte Giuseppe Renai amministrò i sacramenti al sovrano, ne benedisse le nozze morganatiche con la contessa di Mirafiori, e ricevette dal re la dichiarazione che avrebbe cercato di riconciliarsi con la Chiesa.
Al concilio Vaticano I non svolse un ruolo di particolare rilievo. Fu tuttavia membro della congregazione de postulatis, nominata dal papa per scegliere fra le richieste avanzate dai vescovi, che nel febbraio 1870 decise di mettere all'ordine del giorno dei lavori il dogma dell'infallibilità del papa.
Nell'elezione delle altre deputazioni o commissioni il C. non aderì alla tesi, che poi prevalse, di escludere i membri della minoranza antinfallibilista; appoggiò però l'elezione dei vescovi favorevoli alla proclamazione del nuovo dogma. Nel mese di aprile fece da trait-d'union tra l'episcopato toscano e quello marchigiano a proposito della richiesta, da presentarsi al papa, di non anticipare la discussione sull'infallibilità: sembra però che, all'ultimo momento, intuito il clima generale della Curia e le intenzioni di Pio IX, dietro parere del suo collega F. De Angelis desistesse dall'iniziativa, senza peraltro informare l'episcopato tosco-marchigiano. Il 30 maggio presentò allo stesso De Angelis un voto accompagnato da una lettera; i due documenti rivelano uno stato d'animo oscillante fra i timori per lo sviluppo preso dal concilio, e la fedeltà alle direttive del papa.
Rientrato nella diocesi, il C. andò rapidamente declinando alla fine di settembre, sembra anche per il profondo dolore provato alla notizia della presa di Roma. Morì ad Agnano, frazione di San Giuliano Terme (Pisa), il 7 ott. 1870.
Il C. fu fortemente condizionato, in tutta la sua attività, da una profonda emotività e da una mentalità giuridica che lo portò spesso ad irrigidirsi su principi astratti. Tipico intransigente, non va dimenticato il suo zelo per il miglioramento intellettuale e morale del clero, e la cura per mantenere l'unità degli ecclesiastici pisani, che non conobbero le lacerazioni di altre diocesi.
Del C. sono pubblicate: Epistola pastoralis ad clerum et populum dioecesis Aesinae, Romae 1845; Decisiones S. Rotae Romanae coram Cosmae de Cursiis, eiusdem S. Rotae olim Decano, modo S. R. E. cardinali emeritissimo, a cura di A. Cavallini, I-V, Romae 1855; Lettere pastorali degli anni 1845, 1846, 1851 (Iesi), 1858, 1859, 1860, 1863, 1864, 1865, 1867, 1868, 1869, 1870 (Pisa); Lettera pastorale dell'episcopato toscano al suo clero e al suo popolo, s. d. [ma 1866].
Fonti e Bibl.: Iesi, Arch. della Curia vescov., Corsi;Pisa, Arch. della Curia arcivescov., Carteggio per diversi affari, filze M-S; Ibid., Lettere diverse e lettere di parrochi dall'anno1840 all'anno 1860; Ibid., Visita pastorale del card. C. C. Informazioni dall'anno 1856 all'anno 1867; Atti straordinari, dal 1852 al 1872 (12 filze); Ibid., Episcopate toscano, Proteste al re, 1863 (promosse dal C.); Ibid., Lettere di vescovi e cardinali dall'a. 1855 all'a. 1865; Pisa, Arch. cap. della dioc. di Pisa, C. 26: Lettere autogr. del card. C. al can. Del Pino; C. 38: O. Del Pino, Ricordi sulla vita del card. C. (manoscritto); Arch. Segreto Vaticano, Arch. Pio IX, Varia nn. 922, 1088; Segreteria di Stato, rubr. 253: 1853, fasc. 1; 1854, fasc. 1; 1855, fasc. 1; Ibid., Arch. della nunziatura di Firenze, 364, 365, 366, 405, 417; Arch. degli Affari Eccl. Straord., T 64. 4, T 70, T 84 III, T 90 1; Roma, Arch. del Min. degli Affari Est., Leg. Toscana, 108, 6; 116, 56; 117, 36; 119, 7, 12, 13; [G. Arrigoni], Documenti stor. riguardanti la Chiesa e il Papato, Lucca 1860. Molte notizie si possono desumere dalla Civiltà cattol.:cfr. s. 1, VII (1851), p. 64; s. 4, IV (1859), pp. 750 s.; s. 4, V (1860), pp. 260-263; s. 4, VII (1860), pp. 108 s., 113-117, 245, 248 s., 376; s. 5, III (1862), p. 135; C. Abati, Relaz. autent. dell'arresto del card. C. C., Genova 1860; E. Babbini, Il card. C. di Pisa, mons. Breschi e il P. F. Giannini difronte al tribunale della Pubblica opinione coll'aggiunta di una lettera sulla festa nazionale e i preti interdetti, Pistoia 1863; R. Sbragia. A S. E. il card. arcivescovo C. dei marchesi... C., Pisa 1870; N. Bianchi, Storia documentata della diplom. europea in Italia dall'anno 1814 all'anno 1861, Torino 1865-72, VII, pp. 43. 465 s.; B. Ricasoli, Lettere e docum., a cura di N. Tabarrini-A. Gotti, Firenze 1888, p. 81; P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II, III, 2, Roma 1961, pp. 205-224; G. Martina, Pio IX e Leopoldo II, Roma 1967, pp. 472-76, 480-84. 490 s., 493-98, 518, 522 s., 526, 541-44; G. G. Franco, Appunti stor. sopra il concilio Vaticano, a cura di G. Martina, Roma 1972, pp. 62, 89, 91-94, 172, 274 ss., 281 s., 288, 309. Cfr. inoltre P. Billeri, Elogio funebre del card. C. C. Pisa 1870; A. L. Brogialdi, Il Buon pastore, o ilcard. C. C. arciv. di Pisa: parole dette... ne' funerali solenni celebrati da' cattolici pisani, Pisa 1870; L. Guastini, Il card. C. C., discorso funebre, Pisa 1871; N. Zucchelli, Cronotassi dei vescovi e arcivescovi di Pisa, Pisa 1907, pp. 248-264; A. Panella, L'ultima difesa delle leggi di giurisdizione in Toscana, in Rass. stor. del Ris., XV (1928), pp. 42-102 s.; M. Maccarone, Il concilio Vaticano I e il "Giornale" di mons. Arrigoni, Padova 1966, 1, pp. 64-68, 84, 90, 94, 96 s., 106, 118, 136, 144-48, 171-174, 179-186, 356, 361 s., 381, 387 ss., 396 ss., 440, 456, 487, 490, 500; G. Martina, Pio IXe Leopoldo II, Roma 1967, pp. 288-320, 326, 347350, 352 ss., 358; Id., Rilievi circa l'osservanza della bolla di Pio V sui medici nella diocesi di Pisa, in Gregorianum, LVII (1976), pp. 351-64.