SPINOLA, Cornelio
– Figlio di Antonia Lomellini (quondam) Nicolò Antonietto e di Ascanio, tassato nell’avaria del 1593 per un patrimonio abbastanza consistente (34.166 lire) e del quale risulta già nel 1597 un’obbligazione per 4747 ducati all’8% su Angri, fu ascritto al Liber Nobilitatis – insieme ai fratelli Giovanni Battista e Giovanni Agostino – precedentemente al 1605: nacque dunque, presumibilmente, a Genova intorno al 1590.
Nel 1607, per l’incoronazione di Girolamo Assereto, scrisse tre sonetti: di scarso valore stilistico, attestarono comunque una precoce e attiva partecipazione alla vita politica della Repubblica di Genova. Tuttavia, a differenza del fratello Agostino (imbussolato nei Collegi nel 1629 e nel 1634 e procuratore dal 1632 al 1634, con il quale continuò a intrattenere rapporti finanziari e commerciali ‘in fresca’), tutta la sua attività si svolse nel viceregno di Napoli. Risulta, comunque, tassato per 70.000 lire nella capitazione genovese del 1624 e anche in quella del 1636 con un imponibile diventato molto alto (335.898 lire, laddove l’aliquota minima era stata fissata a 25.000); è assente, invece, in quella del 1630. La sua presenza a Napoli fu comunque testimoniata già nell’aprile del 1609 quando pagò 25 ducati al pittore Tommaso de Rosa per un ritratto; nell’ottobre del 1613, come procuratore del cardinal Giannettino Doria e nel 1614, quando il marchese di Santa Croce lo ringraziò per le consistenti elemosine raccolte nella comunità genovese per riedificare la chiesa di S. Giorgio.
Nel 1615 il cugino Giovanni Battista Spinola comprò il feudo di San Pietro in Galatina dando così origine al ramo di San Pietro del quale, nel tempo, Cornelio seguì gli interessi insieme a quelli dei Doria di Tursi; un pagamento del 17 giugno 1616 di «ducati 219, e per lui [Spinola] a Notar Benedetto de Vivo [...] se li pagano per una securtà sopra ogli da Gallipoli a Rapallo de ducati 2700 alla ragione dell’8% su vascello Padron Giovan Antonio Gamborino» (Archivio storico del Banco di Napoli, Giornali copiapolizze, XXXX) ne confermò comunque, sin dall’inizio, la tendenza all’eterogeneità delle funzioni e degli affari. In quegli stessi anni, peraltro, la quiebra ‘politica’ del 1607 colpì gli hombres de negocios a Madrid ma permise anche un’imponente riacquisizione di numerario da parte delle famiglie genovesi che ne approfittarono per diversificare gli investimenti sia sul piano merceologico sia su quello geografico rendendo sempre più interrelato il ‘sistema’.
La stima crescente, i proficui negotij nel Regno nonché una sempre più raffinata competenza finanziaria e sulla politica monetaria lo condussero – il 21 agosto 1617 – alla prima nomina a console della nazione a Napoli: rimase in carica, con brevi interruzioni, fino al 17 luglio 1649. La colonia non fu, tuttavia, subito concorde con l’assegnazione dell’incarico: negli anni successivi, infatti, acceso fu il dibattito interno, speculare peraltro agli interessi finanziari ed economici locali e al gioco fazionario nella madrepatria.
Il nuovo console si presentò con un programma ben definito: «reformare li banchi, li tribunali, li arrendamenti e le precettorie facendo che per tutto vi fosse pontualità et giustitia ma veramente non saria senza speranza che s’arrivasse di batter moneta bona conforme l’antica, e si mettessero alcuni delli boni ordini», scrisse nella lettera di accettazione del 10 agosto 1621 (Archivio di Stato di Genova, Lettere Consoli Napoli, 2636-3). E il 24 agosto, facendo riferimento all’imminente riordinamento che stava destando grande preoccupazione nella natione: «intorno alla moneta [...] si va pensando [...] il modo di rimediare alle monete di falso conio [...] et se troppo s’induggia à prohibirle renderanno impossibile il rimedio» (ibid.). A ciò si aggiunsero un decreto vicereale volto a proibire la circolazione delle ‘zannette’ obbligando a un nuovo conio e la convocazione da parte del viceré Antonio Zapata y Cisneros di una giunta: ma, sostenne Spinola – che ne fece parte – nel luglio 1622 «tante volte in scritto e a voce [si è] protestato che se l’argento e l’oro non staranno in regno per via di commercio essere impossibile tenerselo per via di pramatica» (ibid.). Riprendendo il dibattito coevo di alcuni arbitristas e le tesi di Antonio Serra, egli sottolineò la necessità di rapportare il valore della moneta al cambio anche per sollecitare la produzione e il commercio, difendendo la funzione e l’importanza degli uomini d’affari non regnicoli.
D’altra parte le scelte di politica economica operate nel 1621-22, a Napoli come in Spagna, indicarono il tentativo di risolvere con tecnicismi e artifici contabili quei problemi monetari sintomo, invece, di una ben più grave crisi: la Repubblica, con i suoi finanzieri e mercanti, reagì trasferendo a Novi ligure – dunque sotto diretta giurisdizione – la fiera cambiaria. Per Spinola era necessario riattivare – «nonostante la stravaganza delle monete» – gli scambi commerciali quasi stagnanti e, nel timore di nuove imposizioni che avrebbero danneggiato i forestieri, «li negotianti reppresentano [...] che di fuori non verranno più mercantie, né negotij, onde s’allargarà del tutto il freno del cambio di questa Piazza con quelle di Nove, Piacenza et altre forastiere» (dicembre 1621, ibid.).
L’ufficio consolare assunse, in questa fase, sempre maggiore importanza e una diversa funzione: sul piano internazionale il fondativo gioco fazionario fu metabolizzato, reso ‘sistema’ e rilanciato in una dimensione ora mondiale; e mentre le istituzioni nella madrepatria assunsero vieppiù il ruolo di camera di compensazione di un reticolo di interessi economici, commerciali e finanziari interrelati e interdipendenti, tutto giocato su rapidissimi investimenti e dismissioni dettati dalla logica dell’utile, il console – specularmente – fu mediatore indispensabile nella comunità, in cui non solo divenne titolare della giurisdizione civile e criminale ma ne rappresentò sempre più efficacemente gli affari. La corrispondenza consolare è, dunque, anche commerciale e finanziaria, sostanziando così un ‘territorio informativo’ indispensabile per convogliare verso la Repubblica, ovvero i privati affari, le transazioni e le operazioni speculative: è un unitario e unico consorzio di reciproci, comuni negotij. La sospensione dei pagamenti ai banqueros en Corte e la conseguente quiebra del 1627, lungi dall’essere la fine del ‘secolo dei genovesi’ fu, viceversa, l’inizio del loro dispiegarsi su scala internazionale: in un mercato condizionato da una forte asimmetria informativa, accedere in modo univoco ai processi – coordinandone, per ruolo e funzione, le notizie – permise di giungere a determinarli. Da questo punto di vista la parabola di Spinola – privato operatore e membro di una famiglia di finanzieri e mercanti, console della natione ed esponente politico, operante nel cuore del territorio in cui più imponente fu il drenaggio delle risorse finanziarie con conseguenze decisive per la futura storia del Mezzogiorno – appare esemplare. La sua corrispondenza peraltro – nel periodo che va dall’inizio del viceregno di Fernando Afán de Rivera, duca di Alcalà, alla rivolta antispagnola del 1647, e specialmente quando Napoli divenne centrale supporto finanziario alla politica di Gaspar de Guzmán, conte duca di Olivares – permette una più minuta conoscenza delle vicende sia regnicole, sia internazionali: l’alleanza con la Spagna restava essenziale e Napoli centrale per gli interessi genovesi.
Nel contempo il console non dimenticò gli affari contribuendo ad allargare e rafforzare la sempre più capillare rete affaristica: secondo il fiorentino Muzio Arnolfini, governatore del Ducato di Melfi, Spinola nel giugno del 1627 vantò dai Doria un credito di 16.000 ducati e, forse non casualmente, suo figlio Giovanni Geronimo (nato dal matrimonio con Anna Segherp) sostituì nel 1628 lo stesso Arnolfini. Nell’aprile del 1631 fece acquisire per poco meno di 200.000 ducati a Gian Vincenzio Imperiali il vasto Principato di Sant’Angelo dei Lombardi, cospicua parte del patrimonio di Francesco Maria Carafa duca di Nocera, annotando che, in quegli anni, «per meno di 2000 ducati se ne comperavano ducati 500 di rendita» (Archivio di Stato di Genova, Lettere Consoli Napoli, 2638-5, 8 novembre 1633).
Nel corso degli anni Trenta l’aggravarsi della crisi economica e la necessità di un maggiore impegno finanziario per sostenere la guerra dei Trent’anni condussero a un aumento esponenziale della pressione fiscale da ricavarsi da fiscali e arrendamenti: decurtati duramente i profitti dei genovesi le cui sole rendite nel Regno, nel 1634, ammontavano a 4 milioni e mezzo di ducati; lo «stato messo all’asta» venne stigmatizzato ripetutamente da Spinola giacché – scriveva – «si pensa a rimediare solo a li bisogni che hanno per la guerra e non al credito, mostrando particolarmente il discredito per l’Azenda Reale» e, con la ritenzione delle terze, «non v’è ministro che non lo conosca, ma li bisogni, ch’hanno per la guerra li fa pensare di rimediare à questo, e non al credito, tanto più che quanto più è screditata la Corte, tanto più arricchiscono li Ministri, che doveriano procurare d’accreditarla e da questo principio nasce tutto il disordine» (11 gennaio 1630, ibid.).
L’impetuoso successo di Bartolomeo d’Aquino, «il più audace uomo d’affari che ebbe la storia del Mezzogiorno» (R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), Roma-Bari 1973, p. 138), non sorprese Spinola che allertò la Repubblica sin dal dicembre del 1637: la reazione fu la «prohibitione di negotiare con d’Aquino» (8 dicembre 1637, Archivio di Stato di Genova, Lettere Consoli Napoli, 2639-6); troppo tardi, commentò però lo stesso Spinola l’anno successivo sollecitando un inasprimento delle ostilità e tentando di ricomporre la spaccatura nella natione anche per il rilievo che cominciò a rivestire nel governo del nuovo viceré Ramiro Felipe Núñez de Guzmán, duca di Medina de las Torres, di cui divenne in breve tempo uomo di fiducia. «Non s’haverà V.E. mai da restringere in uno, ne in due, ma quando si trattarà qualche assento chiamarli [gli homini di negotio] tutti, e procurare per giusti mezzi, che le gare ed emulationi fra di loro caggionino a Sua Maestà benefitio e larghezza», scriveva nei Pareri (Napoli, Biblioteca nazionale, XI.E.31: Progetto di economie varie...); chiara era la sua sfiducia nelle potenzialità imprenditoriali delle forze locali, bisognose di un’incentivazione sollecitata e avviata dallo Stato e sostenuta dagli stranieri con la partecipazione determinante delle università minacciate, invece, dal convergere della pressione feudale e da una fiscalizzazione esasperata che ne insteriliva le scarne energie produttive.
Il nuovo ruolo di ‘consigliere’ gli conferì l’autorità di continuare a sovraintendere alle pubblicazioni in materia monetaria come quella di Vittorio Lunetti, genovese residente a Napoli; di partecipare a una giunta per le monete, a un’indagine sui forzati delle galere e sugli scrivani ma soprattutto – sin dalla primavera del 1638 e in preparazione del Parlamento del 1642 – di iniziare a raccogliere gli ‘espedienti’ che venivano proposti nel Regno per affrontare in modo non contingente la sempre più grave crisi. D’altra parte, anche gli affari stavano cominciando a risentire della situazione: nello stesso 1638 la Camera della Sommaria dovette annullare un’assegnazione sulle tratte di 376.000 ducati a Spinola «per non havere chi le domandi» (Villari, 2012, p. 205). L’anno successivo, insieme a Paolo e Giorgio Spinola, egli diede alla corte il corrispettivo del donativo straordinario di un milione di ducati, ricevendo la cessione straordinaria sui fuochi del Regno; l’impegno, intanto, diventò sempre più cogente, come attestano i numerosi pagamenti per suo tramite nei giornali dei banchi da cui si evince che stava gestendo finanche la dispensa del viceré, acquistando «varie mercanzie» per il servizio del palazzo, ingaggiando sarti e artigiani per la realizzazione di vestiti, guanti e panni ricamati. Il 17 dicembre 1643 fece un pagamento, come procuratore della moglie del viceré Anna Carafa, «per Notar Giovan Vincenzo di Gennaro [...] a Gaspare de Romer disse in conto delle spese fatte et va facendo per la fabrica del palazzo de Serena di Sua Eccellenza.» (Archivio storico del Banco di Napoli, Banco dello Spirito Santo, Giornale di cassa, matr. 334, 5 gennaio 1644). Intanto, la natione non fu unanime nella scelte politiche e finanziarie sostenute dal console, come il prestito 3.800.000 ducati accordato al governo.
Nel gennaio del 1638 Spinola presentò dunque, nuovamente, le proprie dimissioni dalla carica consolare e si dedicò maggiormente alla raccolta di arbitrios delle persone più eminenti del Regno, successivamente chiosati. Il risultato furono i Pareri ossia il Progetto di economie varie sopra impositioni e tributi imposte o da imporsi nel Regno di Napoli: un volume in folio di 849 carte numerate, corredate di due Tavole (delli Autori e delle Materie) dettagliate ma non esaustive, redatto probabilmente tra la primavera del 1641 e l’inverno del 1642-43 inizialmente in funzione dei lavori del Parlamento generale del Regno e «per provedere alli bisogni della Corte».
Certa è l’attribuzione, sia per la firma (che compare anche in c. 764), sia perché specificata nella captatio benevolentiae al viceré Medina che ne fu committente e a cui fu dedicato il lavoro. Pertanto, la datazione non ante 13 novembre 1637 anche per «un viglietto scritto in 14 maggio 1638» (c. 72). Il testo, comunque, fu concluso – a differenza di quanto sostennero Francesco Caracciolo, che propose il 1639, e Raffaele Colapietra, che suggerì la primavera 1642 – dopo il 24 dicembre 1642 (presente in c. 809) ma, soprattutto, dopo il 24 gennaio 1643 (c. 643, a proposito di una Consulta della Regia Camera della Sommaria) ed è stato ampiamente studiato e descritto in sede analitica, anche se non incluso nelle raccolte – coeve e non – sulle questioni monetarie, per evidenziare la situazione economica del Regno alla vigilia della rivolta del 1647. Peraltro lo stesso Spinola il 19 maggio 1645 – inviando una copia dei Pareri alla Repubblica (e da questa, nel giugno del 1645, all’ambasciatore genovese a Madrid) – glossò: «quello che io feci inutilmente quando il Signor Duca di Medina desiderò che io le dicessi il mio pensiero in scritto»; ma – aggiunse – sono «fogli vecchi» (Archivio di Stato di Genova, Lettere Consoli Napoli, 2639-6). Gli espedienti suggeriti negli arbitrios, ma – soprattutto – le proposte del suo consigliere influenzarono Medina: in un memoriale inviato a corte indicò, infatti, nella riduzione dei margini di intervento del potere statale causata dal ristagno del commercio, delle speculazioni affaristiche e dell’oppressione baronale delle università i problemi da risolvere e nell’1% sui contratti, nell’imposta sul commercio della farina, nella carta bollata i provvedimenti da prendere.
Secondo Spinola il processo di destrutturazione dell’economia regnicola e la conseguente atonia dei suoi rapporti mercantili dovevano essere correlati all’assenza di una base stabile e duratura della ricchezza pubblica, nell’ambito della circolazione delle merci sia in termini di movimento dei metalli preziosi sia in funzione di una bilancia commerciale attiva. Il numerario è, dunque, elemento di un sistema universale e ha un ruolo nell’ambito di un’efficienza complessiva della sfera della produzione: «V.E. schivi quanto può il gravare maggiormente il Regno, e che miri per l’abbondanza e per la libertà del comercio, cose di tanta sodisfatione e quiete universale» (c. 79). Riproponendo alcuni aspetti delle riforme del viceré Fernando Ruiz de Castro sesto conte di Lemos e di Antonio Serra, e in coerenza con quanto affermato nel trentennio precedente, Spinola riteneva necessario un intervento sui cambi e sui banchi e, in risposta a Giulio Cesare Eliseo – autore di uno dei ‘papeli’ più organici –, suggerì di «levare le gabelle [...] con che si verria à dar sodisfatione grande, allettando a non sentir le nove gravezze e questo è rimedio in simili casi [...] ma particolarmente lo saria in questa città tanto piena di popolo minuto» (cc. 16 s.), riacquisendo gli arrendamenti venduti (c. 506). Un progetto, il suo, «statalista in funzione antifeudale e contro la nobiltà di seggio napoletana» (A. Musi, Mercanti genovesi nel Regno di Napoli, Napoli 1996, p. 114): ma, anche volto a integrare maggiormente – e senza «gravezze» – il Regno nel ‘sistema’ della Repubblica e dei suoi finanzieri.
La sua lucida analisi, la sua cultura economica, ma – soprattutto – le disponibilità e i legami che poteva attivare su scala internazionale non sfuggirono ai capi della rivolta del 1647: secondo molte cronache e per Ottaviano Sauli, residente della Repubblica, nei primi giorni «fu acclamato il sig. Cornelio Spinola per grassiero della città, che con molta prudenza modestia fu [...] ricusato, allegando d’esser vecchio e forestiero et per quanto replicassero che per le fatiche sue l’averian assegnato 50 ducati il mese e fattolo di Collaterale, non ebbe per bene di accettarlo, benché S. E. istessa ne lo pregasse: et finalmente accettorno le scuse, però [...] li fecero molti honori e applausi» (Copia di lettera del Maestro di campo Ottaviano Sauli all’Ecc.mo Marchese Spinola, in Biblioteca apostolica Vaticana, Archivio Barberini, XI, 7, c. 231); per Alessandro Giraffi la sua casa non fu bruciata, ma sarebbe stata guardata e difesa da popolani in armi. Probabili sembrarono, peraltro, i suoi legami con Vincenzo d’Andrea, fautore della creazione di una «real repubblica» sul modello olandese, come pure quelli con Giulio Genoino (il cui progetto sulla seta era anche nei Pareri). Secondo il cardinal Gian Giacomo Trivulzio quando il viceré diede l’ordine di bombardare la casa del cardinal Ascanio Filomarino, Spinola – dopo aver invano tentato di farlo desistere – si rivolse agli artiglieri e li convinse dietro compenso a distogliere il cannone dall’obiettivo ricapitolando in un appassionato discorso i problemi del Regno ossia – e ancora una volta – l’indebolimento del potere centrale, gli squilibri che la grande espansione demografica della capitale aveva creato, il declino della monarchia, il contrasto di interessi tra i sudditi (T. de Santis, Historia del tumulto di Napoli, II, Napoli 1770, p. 69). Negli stessi giorni però, non essendo certo l’esito della rivolta, inviò ai suoi referenti romani la richiesta di una cospicua somma di denaro per permettere di circoscrivere il movimento rivoluzionario, di cui non mancò di raccontare in una lettera del 13 aprile 1649 la fine di un «sogno di libertà» del quale era stato protagonista.
Dopo aver constatato – il 10 gennaio 1648 – che il nuovo viceré «sembrava essere poco amorevole di tutti quelli che hanno servito il signor Duca di Medina» e che «qui ogni giorno ci sono nuove stravaganze [e] saria necessario che in Corte si facesse con l’autorità di V.E. qualche giusto sforzo per defender l’azende de’ loro cittadini» (28 gennaio 1649, Archivio di Stato di Genova, Lettere Consoli Napoli, 2640-7), malato di gotta – «non posso andar per le scale, solo dove mi porta la seggetta» (15 giugno 1649, ibid.) –, il 27 luglio 1649 espresse il suo compiacimento per l’elezione del nuovo console Gian Geronimo Spinola avendo peraltro – il giorno precedente – sottoscritto il proprio testamento, in cui dichiarava erede la nipote Anna Spinola, figlia di Giovanni Agostino Spinola e moglie di Nicolò Spinola. Oltre ad alcuni lasciti minori, chiese di essere sepolto nella chiesa della nazione genovese, per la quale si era tanto adoperato considerandola un importante simbolo identitario per la natione, fondando una cappellania perpetua con l’assegnazione di 60 ducati annui sulla gabella delle entrate della farina. Si scusò, «a causa [...] le molte disgratie che ho tenuto» e «li presenti mali tempi», di dover «conseguir dalla Regia Corte grosse partite di denari come anco dall’eccellentissimo signor Duca di Tursi» da cui dichiarò di vantare «32000 ducati e assenti per 25 per cento» (Archivo di Stato di Napoli, Carlo Carmine Santorelli, 316, 11, 1652, cc. 202v).
Morì, si presume a Napoli, il 29 giugno 1652 e i suoi argenti e mobili tornarono a Genova – dopo complesse vicende ereditarie – alla fine del XVIII secolo.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, Antica Finanza, 237; Archivio Segreto, Camera, 2605; Archivio Segreto, Instructiones et relationes, 2707; Archivio Segreto, Lettere Consoli Napoli, 2636-3, 2637-4, 2638-5, 2639-6, 2640-7, 2641-8; Archivio Segreto, Lettere Ministri Napoli, 2637-4; Archivio Segreto, Lettere Ministri Spagna, 2431-22, 2445-36, 2446-37, 2447-38; Archivio Segreto, Lettere Principi, 2788-12; Archivio Segreto, Litterarum, 1878-102, 1881-105, 1882-106, 1883-107, 1887-111, 1888-112, 1891-115, 1893-117, 1894-118, 1895-119, 1896-120, 1897-121, 1898-122, 1899-123, 1900-124, 1901-125, 1902-126, 1903-127, 1905-129, 1906-130, 1907-131, 1908-32, 1909-33, 1983-26, 1984-27, 1985-26, 1986-29, 1987-30, 1988-31; Archivio Segreto, Nobilitatis, 2633-1; Giunta di Marina, Consoli nazionali ed esteri, 3; Senarega, Diversorum Collegii, 20; Tassarolo, Archivio Spinola, Fondi senza titolo e non inventariati; Genova, Biblioteca universitaria, Manoscritti, B.VI.18; Fondo Laura, 1500/1, 1600/5, 1600/6; Archivio di Stato di Napoli, Camera della Sommaria, Consulte, 42, 43, 44, 47; Notamenti del Collaterale, 38, 39, 40, 41, 45; Napoli, Archivio storico del Banco di Napoli, Monte e Banco della Pietà, Giornali copiapolizze, XXXX, c. 55r, 3 aprile 1609 per il ritratto (non si indicano le operazioni finanziarie di Spinola giacché sia le scritture apodissarie che quelle patrimoniali coeve, ivi conservate, lo registrano con continuità); Napoli, Biblioteca nazionale, XI.E.31: Progetto di economie varie sopra impositioni e tributi imposte o da imporsi nel Regno di Napoli; Roma, Archivio Doria Phamphilj, XVIII, 50, 51; Biblioteca apostolica Vaticana, Archivio Barberini, XI, 7; Parigi, Bibliothèque nationale, Fonds français, 16073; Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi. Spagna, a cura di R. Ciasca, II-III, Roma 1953-1955, ad indicem.
V. Vitale, La diplomazia genovese, Milano 1941; L. De Rosa, I cambi esteri del Regno di Napoli dal 1591 al 1707, Napoli 1955, passim; G. Coniglio, La crisi monetaria napoletana del 1622 in una memoria del tempo, in Partenope, II (1961), pp. 25-46 (che riprende, in parte, quanto in Archivio di Stato di Genova, Lettere Consoli Napoli, 2636-3); G. Felloni, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Seicento e la Restaurazione, Milano 1971, passim; R. Colapietra, Problemi monetari negli scrittori napoletani del Seicento, Roma 1973, pp. 64-79 e passim; G. Doria, Conoscenza del mercato e sistema informativo: il know-how dei mercanti finanzieri genovesi nei secoli XVI e XVII, in La repubblica internazionale del denaro tra XV e XVII secolo, a cura di A. De Maddalena - H. Kellenbenz, Bologna 1986, pp. 57-121; C. Bitossi, Il governo dei magnifici. Patriziato e politica a Genova fra Cinque e Seicento, Genova 1990, passim; G. Muto, Saggi sul governo dell’economia nel Mezzogiorno spagnolo, Napoli 1992, pp. 110-114 e passim; G. Brancaccio, Nazione genovese. Consoli e colonia nella Napoli moderna, Napoli 2001, pp. 119-148; A. Musi, Il console genovese a Napoli Cornelio Spinola (1621-1648) e i problemi di economia e di finanze nel Seicento mediterraneo, in Archivio storico per le province napoletane, CXXII (2004), pp. 167-183 (cui si rinvia per una puntuale analisi dei Pareri); R. Villari, Un sogno di libertà. Napoli nel declino di un impero 1585-1648, Milano 2012, ad indicem.