COPTI
Il termine C. indica gli Egiziani di religione cristiana, gli unici tra gli abitanti dell'od. Egitto che possono essere considerati a buon diritto i discendenti degli antichi Egizi. Tale denominazione risale al tempo della dominazione araba e deriva da qibṭ-qibṭi (dal gr. Aigýptioi), con cui venne designata la popolazione autoctona (Graf, 1944-1953, I, p. 72ss.; Du Bourguet, 1967), dalla quale si distingueva il ceto elevato di stirpe greca (arabo rūm-rūmī) che si considerava Rhomáios, ovvero di tradizione culturale bizantina, ed era legato anche politicamente all'impero d'Oriente. Da parte araba si diede importanza a questa distinzione (Butler, 1902, p. 324) sin dalla pace stipulata nel 641 ad Alessandria tra Ciro, patriarca e governatore bizantino, e il condottiero arabo 'Amr ibn al-'Āṣ (Butler, 1902, p. 320ss.).Il copto, corrispondente all'antica lingua dei faraoni nell'ultima fase del suo sviluppo (Till, 1955), nella forma scritta entrò in uso essenzialmente nel sec. 4°, avvalendosi dell'alfabeto greco e di sette lettere di quello demotico, e sviluppò nei secc. 5°-6° una letteratura autonoma; la lingua copta, ormai quasi sconosciuta già nel sec. 10°, rimase in uso negli ambienti ecclesiastici sino al 17° (Spuler, 1961, p. 291ss.).Provincia romana con a capo, in qualità di rappresentante dell'imperatore, un praefectus Alexandreae et Aegypti, l'Egitto venne suddiviso da Diocleziano nelle singole province di Aegyptus Iovia, Aegyptus Herculia e Thebais, sotto la soprintendenza del prefetto di Alessandria e del vicarius della diocesi d'Oriente, con sede ad Antiochia.Contrariamente a quanto avvenne nella maggioranza delle altre province dell'Impero romano, il cristianesimo in Egitto si affermò relativamente tardi e dapprima solo tra la popolazione di Alessandria. Con ogni probabilità fu nella grande comunità giudaica di questa città che si ebbero i primi adepti (Harnack, 1924, p. 706ss.), mentre nel complesso della regione la nuova fede incontrò una decisa opposizione nel pensiero filosofico greco-egiziano e nei culti misterici (Meyer, 1900, p. 143); inoltre, insieme al paganesimo, tollerato ancora a lungo, anche lo gnosticismo e i culti magici primitivi ne ostacolarono in seguito lo sviluppo. Il cristianesimo si affermò definitivamente solo nella prima metà del sec. 5° sotto il patriarca Cirillo (412-444) e al tempo di Scenute (m. nel 451), abate nel convento presso Sōhāg (che da lui prese il nome di Dayr Ānbā Shinūda; Leipoldt, 1903, p. 47ss.), il quale, secondo la tradizione, distrusse numerosi templi del culto pagano ancora officiati.L'apparato organizzativo della Chiesa si ampliò altrettanto lentamente. Fino all'epoca di s. Demetrio (188/189-231) solo Alessandria ebbe un vescovo, mentre le piccole comunità cristiane della Chóra (la regione egiziana esclusa Alessandria) erano assistite da presbiteri e diaconi (Harnack, 1924, p. 711). Altri tre vescovi furono consacrati da Demetrio di Alessandria; il suo successore, s. Eracla (231-247), poté già nominarne venti e nel 339, al tempo del Padre della Chiesa s. Atanasio di Alessandria (326-373), nelle province di Tebaide, Egitto e Libia a lui sottoposte e nella Pentapoli se ne contavano un centinaio (Atanasio, Apologia contra Arianos, 1; PG, XXV, col. 248).Importante per l'evoluzione religiosa del paese fu la diffusione dell'eresia monofisita avvenuta all'epoca del patriarca Dioscoro (444-451), in seguito alla disputa sulla natura di Cristo del concilio di Calcedonia (451). Dopo un'alterna fase iniziale, con Giustino I (518-527) l'impero bizantino prese una decisa posizione avversa ai monofisiti, a cui si uniformò la popolazione di stirpe greca che viveva in Egitto; di conseguenza, più per spirito d'opposizione che per convinzione teologica, la popolazione autoctona si schierò a fianco del partito avverso (Frend, 1972). In seguito tutti i tentativi di unificazione condotti da parte imperiale e dalla Chiesa di Stato fallirono, fino a diventare inutili con la conquista araba del paese (639-642), quando la Chiesa monofisita restò padrona del campo e ottenne il pieno riconoscimento da parte dei dominatori islamici. Moltissimi Greci, tra cui numerosi esponenti del ceto dominante anche dal punto di vista culturale (Ibn 'Abd al-Ḥakam, Futūḥ Miṣr 'La conquista dell'Egitto'; Toussoun, 1921-1924, p. 231), abbandonarono quindi il paese dopo la pace stipulata con 'Amr ibn al-'Āṣ nel 641 (Butler, 1902, p. 319ss.; Atiya, 1968, p. 85).Il grande contributo della popolazione autoctona egiziana alla vita cristiana fu il monachesimo, sorto in Egitto in forma anacoretica già a cavallo dei secc. 3° e 4°, dopo premesse di ambito non cristiano costituite da gruppi di asceti sia greci (cinici, pitagorici) sia anche giudaici (esseni, terapeuti). Il più noto e forse anche il più antico esponente del monachesimo fu s. Antonio Abate (251-356), che la tradizione considera il fondatore dell'eremitismo (Atanasio, Vita Antonii; PG, XXVI, coll. 835-976). Pochi decenni più tardi con Pacomio (m. nel 346) si diffusero i primi cenobiti che, all'interno di gruppi rigidamente organizzati, vivevano secondo norme vincolanti; il sistema di vita elaborato da Pacomio influì in maniera duratura anche sul monachesimo occidentale.
Bibl.: P.M. Meyer, Das Heerwesen der Ptolemäer und Römer in Ägypten, Leipzig 1900 (Aalen 19662); A.J. Butler, The Arab Conquest of Egypt and the Last Thirty Years of the Roman Dominion, Oxford 1902; J. Leipoldt, Schenute von Atripe und die Entstehung des nationalägyptischen Christentums, Leipzig 1903; O. Toussoun, La conquête de l'Egypte par Ibn Abd-El-Hakam, BSAA, n.s., 5, 1921-1924, pp. 213-238; J. Maspero, Histoire des patriarches d'Alexandrie depuis la mort de l'empereur Anastase jusqu'à la réconciliation des églises jacobites (518-616), Paris 1923; A. Harnack, Die Mission und Ausbreitung des Christentums in den ersten drei Jahrhunderten, Leipzig 1924; W.C. Till, Koptische Heiligen- und Märtyrerlegenden (Orientalia christiana Analecta, 102, 108), 2 voll., Roma 1935-1936; G. Graf, Geschichte der christlichen arabischen Literatur (Studi e testi, 118, 133, 146-147, 172), 5 voll., Città del Vaticano 1944-1953; W.C. Till, Koptische Grammatik (Saidischer Dialekt), Leipzig 1955 (19663); B. Spuler, Die Koptische Kirche, in Handbuch der Orientalistik, I, 8, Religionsgeschichte des Orients in der Zeit der Weltreligionen, Köln-Leiden 1961, pp. 269-308; P. Du Bourguet, L'art copte, Baden-Baden 1967; A.S. Atiya, A History of Eastern Christianity, London 1968; C. Detlef, G. Müller, Grundzüge des christlich-islamischen Ägypten, Darmstadt 1969; E. Visser, H. Volkmann, Orientalische Geschichte von Kyros bis Mohammed, in Handbuch der Orientalistik, I, 2, Keilschriftforschung und alte Geschichte Vorderasiens, Köln-Leiden 1971; W.H.C. Frend, The Rise of the Monophysite Movement. Chapters in the History of the Church in the Fifth and Sixth Centuries, Cambridge 1972; S. Timm, Das christlich-koptische Ägypten in arabischer Zeit, 5 voll., Wiesbaden 1984-1991; C. Cannuye, Les coptes, Turnhout 1990; The Coptic Encyclopedia, a cura di A.S. Atiya, 8 voll., New York 1991.
Architettura
Sebbene il cristianesimo avesse iniziato a diffondersi in Egitto prima dell'età costantiniana, sono scarse le testimonianze precoci di architettura religiosa; i pochi edifici che possono essere datati in maniera attendibile al sec. 4° sono inoltre conosciuti in modo impreciso e discussi.Le chiese ritenute del sec. 4° sono tutte caratterizzate da uno schema basilicale a tre navate (Antinoe nord, Marīna) o anche a cinque (Antinoe sud, Fāw Qiblī), in cui di norma è dato scarso rilievo alla navata mediana. Una navatella lungo il lato ovest (c.d. return aisle), poi divenuta parte della tipologia comune, ricorre nel sec. 4° esclusivamente nelle chiese a cinque navate, dove appare collegata alle navatelle esterne così da formare una sorta di deambulatorio lungo tre lati della basilica e in alcuni esempi anche lungo il quarto, proseguendo sul lato orientale davanti al presbiterio. Gli edifici di culto a tre navate, prive di tale navata-deambulatorio, possono considerarsi versioni in scala ridotta del modello a cinque, del quale conservano la sola parte centrale. Il presbiterio delle chiese del sec. 4° era costituito, per quanto è possibile stabilire, da più vani, di cui quello centrale, che ospitava l'altare, era absidato o a pianta quadrangolare. Le chiese dei secc. 5° e 6°, fatta eccezione per alcuni esempi provinciali come Makhūra-al qiblī (Grossmann, Jaritz, 1980, p. 225ss., fig. 9) e Madīnat Mādī (Grossmann, 1988, p. 13ss.), abbandonarono lo schema a cinque navate, fondendo le tre centrali in un unico ampio spazio ma conservando il deambulatorio occidentale.Gli esempi più significativi di architettura chiesastica paleocristiana dei secc. 5° e 6° in Egitto sorgono in ambito urbano. Il più importante, oggi purtroppo in rovina, è la chiesa episcopale di Ermopoli (Wace, Megaw, Skeat, 1959, tav. 2; Grossmann, 1981, p. 153ss., fig. 2): un'ampia basilica a tre navate - con transetto a terminazioni semicircolari, deambulatorio occidentale, nartece e ricco protiro sull'entrata principale a N - inserita in un vasto complesso edilizio comprendente corti, portici colonnati e due grandi propilei. Costruzioni di questo genere presuppongono un'ininterrotta tradizione edilizia urbana riallacciabile all'architettura romana dei secc. 2° e 3°; tuttavia non si sono conservate, o quanto meno non sono state finora identificate, costruzioni che poterono costituire il tramite tra le due fasi.Esempi ispirati al medesimo modello, ma più recenti, sono la grande basilica di Abū Mīnā (Grossmann, 1989a, tavv. 3, 7), il cui transetto a navata unica venne ampliato al principio del sec. 6° in un corpo a tre navi (Schläger, 1965, fig. 1), e la chiesa presso il porto di Hawariyya-Marea, che probabilmente risale al sec. 6° (Grossmann, 1989b, fig. 1). Questi edifici, situati nei pressi della costa mediterranea, erano sprovvisti dell'altrimenti usuale deambulatorio occidentale, elemento che attesta una maggiore vicinanza alla tradizione architettonica imperiale romana.La grande maggioranza delle chiese egiziane presentava invece il classico impianto basilicale a tre navate, quasi sempre con deambulatorio occidentale anche negli edifici più piccoli. Le pareti laterali, con murature di enorme spessore, erano frequentemente articolate da nicchie disposte con regolarità. La posizione degli accessi poteva variare; l'esistenza di un nartece è testimoniata solo nelle chiese di maggiori dimensioni; talvolta esso è collegato anche a una serie di altri ambienti posti contro il lato d'ingresso della chiesa, come per es. nella chiesa di Dandarā (Grossmann, 1981, p. 170ss., fig. 9).Nel corso del sec. 5° il presbiterio assunse un'articolazione spaziale regolare costituita da un'abside centrale fiancheggiata da due ambienti quadrangolari. Solo in alcuni casi la simmetria venne interrotta su un lato per la presenza di una scala. Le absidi erano articolate da nicchie e abbastanza di frequente la parete interna semicircolare era decorata da colonnati ciechi, come per es. a Sōhāg e a Dandarā. Sovente anche l'arco absidale era fiancheggiato da colonne, come nella basilica nord di Abū Mīnā (Grossmann, Jaritz, 1980, p. 216ss., fig. 5) o a Madīnat Mādī (Grossmann, 1988, p. 13ss., fig. 6). In alcuni casi l'abside prevedeva un impianto triconco che conferiva al presbiterio una particolare ricchezza di forme; tuttavia tale impianto è testimoniato finora esclusivamente nella regione della Tebaide, dove esso sembra essersi diffuso per influsso della chiesa del convento fondato da Scenute, presso Sōhāg (Dayr Anbā Shinūda). Una variante semplificata di questa tipologia è costituita da chiese con absidi provviste di una precampata, presente in molti esempi inediti ad Antinoe e a Madīnat Mādī (Grossmann, 1988, p. 13ss., fig. 4ss.). Probabilmente questa tipologia si riallaccia alla tradizione del sec. 4° delle basiliche a cinque navate con la navata-deambulatorio corrente lungo tutti i lati. La posizione dell'arco trionfale avanzato rappresentava tuttavia una novità assoluta; tale soluzione architettonica venne adottata in seguito anche in chiese con semplici absidi semicircolari, come a Luxor (Grossmann, Withcomb, in corso di stampa).La fase giustinianea del martýrion di Abū Mīnā rappresenta un esempio di edificio fortemente influenzato dall'architettura romana di età imperiale. Esso fu realizzato alla metà del sec. 6° con un impianto tetraconco a doppio involucro (Grossmann, 1989a); tale tipologia, particolarmente diffusa nell'edilizia religiosa dell'Asia Minore e della Siria nel tardo sec. 5° e nel 6° (Kleinbauer, 1987), potrebbe essere giunta fino in Egitto proprio da quella regione, analogamente allo schema della chiesa circolare di Pelusio.L'architettura delle chiese monastiche in Egitto ebbe in sostanza le stesse caratteristiche di quelle urbane, benché perdurasse a lungo il legame con le tradizioni precedenti e l'esecuzione tecnica fosse decisamente più modesta. Nelle chiese monastiche infatti non vi è traccia, se non in rari esempi, della ricca decorazione plastica, presente invece negli edifici religiosi urbani. Dopo la metà del sec. 5° la grande chiesa, consacrata nel 459, del convento di Pbow (od. Fāw Qiblī) - centro principale del monachesimo di s. Pacomio - venne ricostruita ancora secondo lo schema a tre navate con deambulatorio su tutti e quattro i lati (Grossmann, 1981, p. 159, fig. 1A); il nartece era costituito da un semplice atrio colonnato, del tutto assente nel precedente edificio del sec. 4° (Grossmann, 1981, p. 151, fig. 1B). Un'estrema semplicità formale caratterizza le chiese, dei secc. 5° e 6°, nel grande insediamento anacoretico dei Kellia. Gli edifici degli inizi del sec. 5° presentavano un impianto a tre navate, con minima evidenziazione spaziale di quella centrale (Daumas, 1969, pp. 500-505, fig. 12); durante il sec. 6°, anche quando si costruirono chiese di maggiori dimensioni, le proporzioni dello spazio interno restarono inizialmente invariate. Una più ampia navata centrale con deambulatorio occidentale venne introdotta solo con la ristrutturazione della chiesa est di Qaṣr Wa·hāyda ai Kellia (Andreu, Castel, Coquin, 1980, p. 353ss., fig. 1). Di norma in queste chiese anacoretiche il presbiterio era costituito da un vano d'altare quadrangolare fiancheggiato da altri due ambienti; le nicchie parietali, necessarie ai fini cultuali, non presentavano alcun tipo di decorazione e assai di frequente mancava anche il nartece.Un'eccezione è rappresentata dalla grande chiesa di Dayr Anbā Shinūda (Grossmann, 1984-1985, fig. 1), che - in palese contraddizione con la volontà del fondatore Scenute, il più attivo tra i padri del monachesimo egiziano, fautore di una edilizia volta a esprimere la semplicità della vita monastica - risulta una delle più grandi basiliche a tre navate di tutto l'Egitto, dotata di nartece, deambulatorio occidentale e terminazione orientale triconca con numerosi ambienti attigui, uno dei quali ospitava un battistero a pianta ottagona. All'altezza della seconda coppia di colonne da E si innalzavano inoltre un secondo arco trionfale e altri ambienti. Questi ultimi, tra i quali anche una lunga sala absidata di destinazione sconosciuta, erano annessi alla chiesa lungo il lato meridionale, dando luogo a un articolato complesso edilizio compreso in un perimetro tetrangolare. L'articolazione interna mostra in tutti gli ambienti un'alternanza di nicchie, desunta dagli schemi dell'architettura romana della piena età imperiale, mentre il triconco presenta lungo le pareti due ordini sovrapposti di colonne (Monneret de Villard, 1925-1926, I, p. 47ss.). Colonne rivestono anche il triconco della chiesa di Dayr Anbā Bishūy (Monneret de Villard, 1925-1926, II; Grossmann, 1989b, p. 1883ss., fig. 18), che presenta un complesso di ambienti lungo il lato meridionale, analogo a quello della chiesa del convento di Scenute; vi mancava invece il nartece, come in quasi tutti i monasteri.Una chiesa con vano antistante l'abside si trova nell'insediamento anacoretico di Kūm Namrūd presso Samalūt, scoperto di recente (al-Syriāny, Habib, 1990, p. 132ss.). Si tratta probabilmente di un esempio analogo a quello di Dayr alNaqlūn nel Fayyūm (Grossmann, 1989b, p. 1862ss., fig. 8). Dal punto di vista tipologico, un momento intermedio tra gli esempi sopra citati e la tipologia a triconco è costituito dal presbiterio della chiesa superiore di Dayr Abū Fana, dove l'ambiente antistante l'abside è ampliato lateralmente da due vani rettangolari (Grossmann, 1982, p. 78ss., fig. 25).Un caso particolare tra le chiese monastiche dell'Egitto è rappresentato infine dalla più recente fra le chiese di Abū Mīnā, situata al centro di un insediamento anacoretico di cui doveva senza dubbio costituire il punto di riferimento religioso. La pianta seguiva uno schema tetraconco, simile a quelli dell'edilizia religiosa siriaca; è assai probabile che questo edificio sia stato ispirato dal martýrion di epoca giustinianea, anch'esso tetraconco, nel santuario principale di Abū Mīnā (Grossmann, Jaritz, 1980, p. 222ss., fig. 7).Nel corso del sec. 7° lo sviluppo del paese e conseguentemente dell'edilizia religiosa fu ostacolato dagli eventi politici e dalla conquista islamica. Benché non venisse impedita, se non temporaneamente, l'erezione di nuove chiese, vi furono una notevole semplificazione dei modi costruttivi e una reciproca assimilazione tra l'edilizia religiosa urbana e quella monastica. Le chiese costruite tra il sec. 7° e l'8° - S. Sergio (Grossmann, 1989b, p. 1859, fig. 6B) e S. Barbara (Patricolo, Monneret de Villard, 1922) nella Città Vecchia del Cairo, situate entro le mura della fortezza romana (Babylon), divenuta il quartiere copto della nuova capitale al-Fusṭāṭ - erano prive di nartece e utilizzavano esclusivamente colonne di reimpiego. Nel convento di S. Geremia, nella zona della necropoli di Menfi presso Ṣaqqāra, vennero invece reimpiegati materiali provenienti dai numerosi mausolei, spesso riccamente decorati, che gli antichi proprietari - soprattutto ricche famiglie di latifondisti di stirpe greca o greco-egiziana - avevano abbandonato. La chiesa principale di questo convento, riedificata subito dopo la pace con gli Arabi (641) secondo la tipologia con nartece, per gli elementi architettonici reimpiegati è una delle più ricche di tutto l'Egitto; per es. l'apparato decorativo a colonne dell'interno proviene da almeno quattro edifici diversi (Grossmann, Severin, 1982, pp. 159ss., 184ss.).Una delle novità nell'architettura di quest'epoca era costituita inoltre dall'introduzione dello hūruṣ, quasi un arco trionfale poggiante su alte colonne, che nelle chiese triconche precedeva, già nel sec. 5°, il presbiterio, delimitando otticamente il naós e mettendo in risalto l'area sacra (Grossmann, 1982, p. 112ss.). Nella chiesa antistante la porta settentrionale di Madīnat Hābū le colonne sono sostituite da una parete ad arco poggiante su due robusti piedritti (Grossmann, 1982, p. 126, fig. 52). La realizzazione di una parete trasversale lungo l'intera larghezza del naós sembra essere preannunciata dalle chiese conventuali. L'esempio più antico è rappresentato dalla chiesa principale del convento di S. Geremia, dove lo hūruṣ, databile alla fine del sec. 7°, era interrotto in corrispondenza della navata centrale da una fila di colonne, i cui intercolumni erano chiusi da transenne; un altro esempio è costituito dal S. Mercurio nella Città Vecchia del Cairo (Grossmann, 1982, p. 45ss., figg. 15 A-C). La piccola chiesa di Dayr al-Balāyza, al contrario, costruita nel tardo sec. 7°, segue lo schema tradizionale senza hūruṣ (Grossmann, 1989b, p. 1879ss., fig. 16).Anche dopo la cristianizzazione in Egitto lo sviluppo dell'architettura funeraria rimase fondamentalmente legato alla tradizione precedente. Con il passaggio alla nuova religione vennero abolite solo alcune delle usanze pagane, come per es. tutte quelle legate al culto di Osiride, ma molti tratti essenziali perdurarono per secoli: l'imbalsamazione delle salme (Hermann, 1959, col. 810) o i banchetti per i defunti.Ad al-Bagawāt, la necropoli di Ibis nell'oasi di al-Kharga, dove coesistono nella stessa area sepolture pagane e cristiane (Fakhry, 1951, p. 1ss.), le tombe sono situate in piccole camere sepolcrali sotterranee, per lo più ordinate in coppia, cui si accedeva attraverso un passaggio scavato in verticale. In superficie questo passaggio era collegato a un piccolo edificio, aperto o chiuso, coperto a cupola, di regola a pianta quadrata (Fakhry, 1951, p. 20, nr. 4), derivante dal tetrapilo; tali soluzioni vennero impiegate anche nell'ambito dell'architettura islamica (Creswell, 1952-1959, II, p. 107ss.). Gli edifici funerari coperti da volte a botte, benché di facile realizzazione, sono invece molto rari. Nella necropoli meridionale di Antinoe vennero costruite camere sepolcrali doppie coperte a cupola; i defunti erano sepolti in camere sotterranee, ma in seguito anche gli ambienti superiori furono utilizzati per accogliere sepolture (Antinoe, 1974, pp. 141ss., 148-155). Spesso alle tombe erano annesse piccole cappelle destinate a celebrazioni liturgiche di ambito familiare, come mostrano gli esempi rinvenuti ad al-Bagawāt (Fakhry, 1951, nrr. 9, 24, 66, 90, 130, 206), Ossirinco (od. Baḥnasa; Flinders Petrie, 1925, p. 16, tav. 41) e Abū Mīnā (Abdel Aziz Negm, 1991). Negli esempi più modesti la stessa funzione poteva essere svolta da una piccola nicchia ricavata nella parete orientale del mausoleo.Grandi sepolcri familiari sotterranei a più ambienti - di frequente persino collegati a cortili a lucernario sotterranei - fino a oggi sono attestati solo nella regione di Alessandria e sembra proseguissero una tradizione già diffusa in epoca ellenistica. I defunti venivano collocati in profondi loculi (ebraico koqim) aperti sul lato corto, spesso ordinati su file sovrapposte, derivanti dal tipo di sepoltura di tradizione giudaica, di cui compaiono tuttavia esempi anche in area siriaca (Schmidt-Colinet, 1989). Le sale sotterranee, talvolta absidate, situate all'interno di questi ipogei potevano essere utilizzate per celebrare i banchetti in onore dei defunti o per fini liturgici, mentre non è possibile stabilire se nei pressi esistessero anche costruzioni in superficie e quale forma avessero. Nell'area del monastero di S. Geremia si trova, tra le poche costruzioni conservate di epoca precedente, una struttura a peristilio, in corrispondenza del passaggio di accesso alla sepoltura scavato in verticale.La nascita e la diffusione del monachesimo in Egitto comportarono necessariamente lo sviluppo di nuove tipologie edilizie adeguate alle esigenze della vita in comunità. Benché i primi anacoreti, come s. Antonio Abate, si accontentassero anche di vecchie sepolture o di semplici spelonche nella terra o nella roccia, si sviluppò precocemente una tipologia di abitazione a più ambienti adatta alle esigenze degli eremiti. Su come dovesse essere costruita tale abitazione (kellíon) dà notizia Macario d'Egitto (ca. 300-391) negli Apophthegmata Patrum (33; PG, LXV, coll. 257-281). Al tipo più semplice appartengono gli alloggi dell'insediamento anacoretico presso la chiesa orientale di Abū Mīnā; i più antichi, risalenti al sec. 5°, erano composti da due vani di dimensioni diverse: quello d'entrata, di regola a pianta quadrata, poteva essere utilizzato come camera da lavoro e ambiente di soggiorno; il secondo, grande circa la metà del primo e accessibile solo attraverso quello, era adibito alla preghiera e al riposo (Müller-Wiener, 1967, p. 463ss.). Di tipo più complesso erano le abitazioni degli eremiti nel sito dei Kellia, risalenti per lo più al 6° e al 7° secolo. Ciascuna era destinata ad accogliere due monaci, un padre anziano e il suo discepolo, ai quali erano assegnati vani distinti per dormire e per riporre gli oggetti negli armadi, mentre erano in comune l'oratorio, la cucina e un ambiente di ricevimento dove si consumavano i pasti. Dalla disposizione degli ambienti si ricava inoltre che il monaco più giovane era addetto alla preparazione dei pasti. Della struttura facevano anche parte una piccola corte con l'orto, un lavatoio e una latrina (Weidmann, 1983, p. 401ss.). L'esempio più antico di abitazione di questo genere attestato ai Kellia risale agli inizi del 5° secolo. Per proteggere gli eremiti venivano erette piccole torri rifugio (ǧawsaq), con un piano superiore cui si accedeva attraverso una struttura scalare e un ponte levatoio (Weidmann, 1983, p. 412ss.).Non si conoscono testimonianze di alloggi delle comunità cenobitiche risalenti al primo periodo, quando i monaci vivevano ancora in celle singole che vennero successivamente trasformate in dormitori comuni a uno o più piani, con letti collocati lungo le pareti; caratteristici sono gli alloggi di Dayr al-Balāyza a S di Asyūṭ, datati tra la fine del sec. 7° e l'8° (Grossmann, 1989b, p. 1879, fig. 16).Generalmente questi conventi di cenobiti erano complessi di grandi dimensioni cinti da mura con vari edifici, adibiti per es. ad alloggi, refettori, magazzini, officine, necessari a comunità composte spesso da centinaia di uomini o donne. L'accesso era costituito da una porta principale e da numerose altre secondarie; accanto alla più importante era sempre previsto un ambiente per il guardiano e, esternamente rispetto alla cinta muraria, una foresteria.La maggioranza delle chiese egiziane fu costruita in mattoni crudi, fattore che rese necessari frequenti interventi di restauro; solo gli edifici di un certo pregio venivano eretti in laterizio o addirittura in pietra squadrata. Il vasto impiego del mattone crudo costringeva inoltre a eseguire murature molto spesse, alleggerite da numerose nicchie; tali caratteristiche furono riprese in seguito anche dall'architettura in conci di pietra dell'Alto Egitto.Per le coperture, costituite normalmente da una struttura di travi lignee, si utilizzava talora negli edifici più semplici anche il legno di palma locale; per le navate centrali, spesso di una certa ampiezza, si usavano travi di cedro del Libano d'importazione. Molto probabilmente con esse venivano realizzate capriate e il tetto assumeva una forma a spioventi, di pendenza piuttosto accentuata, analoga a quella che caratterizza la chiesa del monastero di S. Caterina sul monte Sinai e, ancora oggi, molti edifici della Città Vecchia del Cairo. Le navatelle dovevano essere al contrario sempre a copertura piana, di solito praticabile, come attesta il largo impiego di scale; lungo il bordo del tetto venivano costruiti bassi parapetti, al fine di garantire la sicurezza di chi vi accedeva.La decorazione architettonica si attenne quasi esclusivamente, fatta eccezione per alcuni casi, agli ordini di quella sviluppatasi in epoca tardoromana nell'area mediterranea e in seguito principalmente a Costantinopoli; sono le varianti del capitello corinzio, ispirate a modelli importati dalla capitale bizantina, a essere impiegate più di frequente (Severin, 1977, p. 246ss.). Le officine alessandrine utilizzarono soprattutto marmo proconneso di importazione o calcare nummulitico proveniente da Minya nel Medio Egitto, mentre in molte botteghe dell'Alto Egitto vennero usati il calcare o l'arenaria locali e nell'area dell'antica Syene (od. Assuan) anche il granito. Per le basi delle colonne, accanto all'uso relativamente scarso di basi piatte dal profilo attico, le tipologie più diffuse furono sia quella a blocco dell'Alto Egitto, con parte inferiore cubica e semplice toro nella parte iniziale del fusto, sia i piedistalli di forma più elaborata, costituiti da una sorta di pedana inserita a media altezza e base attica. Le riprese dal repertorio decorativo dell'architettura del periodo dei faraoni si limitarono a elementi come gli stipiti dei portali o i coronamenti delle murature. Fino a oggi solo nelle due chiese del convento di Sōhāg si è riscontrata la muratura a scarpa tipica dei templi dei faraoni. Al di là dell'interesse per modelli propri di altre province dell'impero, la preferenza per le forme dell'architettura greco-romana è spiegabile con il loro largo impiego nei secc. 2° e 3° nell'edilizia pubblica, a differenza di quelle dell'architettura dell'età dei faraoni, rappresentate quasi esclusivamente da templi e dunque considerate di carattere pagano.
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La scultura copta, di carattere essenzialmente architettonico e decorativo, si qualifica per la sostanziale assenza di opere plastiche a tutto tondo e dunque per l'impiego costante del rilievo. Le più antiche opere in pietra sono state rinvenute nella regione del Fayyūm in due città di origine romana, Ossirinco ed Eracleopoli (od. Ahnās): si tratta però di frammenti erratici di cui non è stato possibile stabilire con certezza la provenienza da edifici pagani oppure da chiese o cappelle funerarie cristiane.La grande maggioranza delle prime sculture copte, salvo alcune eccezioni, presenta un'iconografia antichizzante per quanto riguarda sia i motivi vegetali e geometrici sia le scene figurate, tratte dal repertorio mitologico greco o romano. Un catino di nicchia a frontone centinato proveniente da Ahnās (Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.), ornato da una cornice a ovoli, presenta una conchiglia nella quale su uno sfondo di pampini risalta la figura stante di Dioniso appoggiato a una colonna. Le accentuate deformazioni anatomiche (gambe corte, vita sottile, bacino e torso voluminosi, testa grossa) si spiegano con la collocazione elevata di questi catini. Il frontone poteva essere anche spezzato, reminiscenza di edifici dei centri greco-romani orientali (Mileto, Efeso, Baalbek, Petra). L'immagine di Dioniso, spesso accompagnata da tralci di vite (Parigi, Louvre), ricorre con frequenza anche in avori, tessuti, sculture dell'epoca compresa tra il sec. 4° e la metà del successivo, provenienti da altri siti.Strutture che in origine erano state adottate con finalità funzionali, come il coronamento su colonne delle porte, vennero riprese come motivi puramente decorativi, cosicché le loro superfici furono rivestite da una ricchissima ornamentazione in pietra, mentre acroteri e catino erano popolati da animali fantastici e da scene figurate, come quelle con Pan e la baccante, Orfeo e una figura ritenuta la Melodia, Gea con un velo ricolmo di frutti e di fiori (Cairo, Coptic Mus.). Ai soggetti iconografici più comuni apparteneva Afrodite Anadiomene, raffigurata con un velo gonfiato dal vento in mano o mentre strizza la chioma (Cairo, Coptic Mus.), con un corteo di nereidi e putti che cavalcano animali acquatici e recano strumenti musicali. Esempio significativo in proposito è il catino di nicchia, scolpito in stile morbido e sommario (Trieste, Mus. Civ. di Storia e Arte), con al centro della centinatura una maschera di gorgone inquadrata da ovoli e in basso due nereidi - dai corpi nudi e dai volti con grandi occhi cerchiati - che sollevano in alto un velo e un putto che, cavalcando un delfino, scandisce con i crotali il ritmo della processione. Anche la ninfa Dafne veniva raffigurata frequentemente - quasi sempre senza Apollo - nel momento in cui si trasforma in lauro (da Ahnās: Cairo, Coptic Mus.; da Antinoe: Parigi, Louvre), con i rami che spuntano nelle mani e le gambe già divenute tronco. Possono essere considerate eccezioni un avorio del sec. 5° (Ravenna, Mus. Naz.) e il c.d. scialle di Sabina, del sec. 6° (Parigi, Louvre). Tre pannelli (Alessandria d'Egitto, Greek-Roman Mus.; Cairo, Coptic Mus.) narrano il mito di Leda e il cigno. Le fatiche di Ercole venivano illustrate da due scene: il combattimento con il leone nemeo e il riposo dopo la vittoria (Cairo, Coptic Mus.). Forse è da ritenersi Orfeo - figura precocemente cristianizzata, come testimoniano per es. le rappresentazioni delle catacombe romane di Callisto, di Domitilla e dei Ss. Pietro e Marcellino - il personaggio che, in un rilievo al Cairo (Coptic Mus.), incanta gli animali con il suono della lira, seduto su una piccola panca. Il corpo nudo, il drappo che ricopre una gamba e il viso triangolare scolpito sommariamente testimoniano l'abbandono dei dettagli realistici in favore di un trattamento per masse; gli immensi occhi aperti con le pupille segnate dal trapano e l'acconciatura a doppio giro di perle, lavorate anch'esse con l'intervento del trapano, esprimono una concezione puramente intellettualizzata dell'immagine. Lo stesso tipo iconografico e la medesima trattazione stilistica caratterizzano la raffigurazione, del sec. 5°, di un personaggio, forse Davide, con ricchi abiti, intento a suonare seduto su un seggio con alto schienale (San Pietroburgo, Ermitage).Benché legata all'Egitto, la personificazione del Nilo ebbe tratti iconografici decisamente greco-romani e orientali; su due rilievi (New York, Brooklyn Mus.; Cairo, Coptic Mus.) il fiume è infatti raffigurato come un vegliardo con grandi occhi, tratti somatici rigidi - vicini alle sculture funerarie palmirene -, lunga barba inanellata, capelli e baffi, costituiti da perle e fiori.I temi cristiani cominciarono ad apparire timidamente nei centri di Ossirinco e Ahnās: sono da menzionare due capitelli, uno dei quali (proveniente da Ahnās) è in marmo con incisa una croce, e un frammento di nicchia (anch'esso di Ahnās) con un angelo che tiene un clipeo nel quale è racchiuso il chrismón (Cairo, Coptic Mus.). Su una stele funeraria proveniente dal Fayyūm (Berlino, Mus. für spätantike und byzantinische Kunst) è raffigurata una donna intenta ad allattare il suo bambino, inquadrata da due colonne, seduta su un seggio tra due croci a braccia patenti; il rilievo, in origine interamente policromo, conserva ancora tracce di colore verde. Un'iscrizione dipinta qualifica l'immagine - frequente sulle stele del periodo copto e caratteristica della rappresentazione di dee-madri, in particolare di Iside che allatta Arpocrate - come ritratto della defunta; quest'immagine può essere considerata una delle fonti dell'iconografia della Madonna che allatta il Bambino, così come del resto la rappresentazione della defunta in preghiera prefigura la Vergine orante.La scultura lignea non fu condizionata dalla scarsità né dalla modesta qualità del materiale locale: durante il periodo copto infatti, benché le importazioni di legname, specie dal Medio Oriente, divenissero per ragioni economiche sempre meno frequenti, gli artisti egiziani continuarono a godere di un'altissima reputazione fino alla piena epoca araba, grazie all'alto livello dei loro prodotti. Lo dimostrano alcune opere risalenti a questa prima fase, come per es. una mensola proveniente da al-Ashmūnain (Berlino, Mus. für spätantike und byzantinische Kunst), scolpita ad altorilievo con la rappresentazione della conquista di una città, in cui cavalieri e truppe prendono d'assalto una fortezza circondata da mura turrite in pietre squadrate, comparabili a quelle presenti nella decorazione di alcuni sarcofagi romani del sec. 4° (sarcofago Borghese; Parigi, Louvre).Sull'architrave ligneo (Cairo, Coptic Mus.) proveniente dal portale della chiesa di al-Mu'allaqa ('la Sospesa') nella Città Vecchia del Cairo, lo stesso tipo di architettura fa da sfondo agli abitanti di Gerusalemme che acclamano Cristo sul dorso di un asino. L'architrave presenta su un solo registro le scene dell'Entrata a Gerusalemme e dell'Ascensione, sovrastate da un'iscrizione greca su quattro righe che fornisce i nomi dei donatori: l'apa Teodoro e il diacono Giorgio. Lo stile, di spiccata impronta classicizzante, non permette una datazione precisa, ma l'utilizzazione del termine Theométor invece dell'usuale Theotókos per definire la Vergine madre di Dio indurrebbe a collocarlo cronologicamente prima del concilio di Efeso (431), che proclamò la maternità divina di Maria.In uno stile vicino a quello dell'architrave di al-Mu'allaqa è intagliato su entrambe le facce un pettine in avorio a doppia fila di denti proveniente da Antinoe (Cairo, Coptic Mus.): su una faccia sono raffigurati due miracoli di Cristo (Risurrezione di Lazzaro, Guarigione del cieco) secondo un'iconografia attestata nelle pitture delle catacombe e diffusa su oggetti contemporanei; sull'altra faccia compare un santo cavaliere orante, forse Cristo stesso, racchiuso in un clipeo sostenuto da due angeli.Il periodo compreso tra la metà del sec. 5° e l'8° fu segnato dal crescente impiego di temi cristiani nella scultura copta e dalla cristianizzazione di quelli pagani ancora ampiamente diffusi. È caratterizzato da una maniera incisiva, quasi metallica nei dettagli decorativi, un rilievo in pietra, del sec. 6°, con la figura stante di Afrodite Anadiomene che strizza i capelli con le mani in una conchiglia sostenuta da un tritone e da una nereide (Parigi, Louvre). A proposito di questo rilievo va ricordato che negli scritti gnostici il tema della dea nata da una perla era stato associato a Cristo per simbolizzarne la nascita virginale. Una composizione tripartita appare su alcuni rilievi decorati da due putti alati che sostengono un clipeo con il busto della dea Gea che con una mano tiene la cornucopia e con l'altra solleva il proprio velo (Parigi, Louvre; Cairo, Coptic Mus.); evidenti sono le analogie stilistiche e iconografiche con avori del sec. 6°, come mostra un frammento di dittico oggi a Milano (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Applicata). A questo gruppo di opere possono essere ricondotti alcuni fregi decorati con angeli che sorreggono una mandorla con Cristo in trono provenienti da Bāwīt (Cairo, Coptic Mus.), un sito che ha restituito molto materiale scultoreo databile a questo periodo, come per es. un pilastro con le due facce in vista a sezione quadrata che fungeva da stipite di una porta (Parigi, Louvre). Un lato è decorato con un repertorio geometrizzante costituito da esagoni a bordo perlato racchiudenti croci o fioroni alternati a stelle a quattro punte, eseguiti con un rilievo piatto, segnato da profonde incisioni che fanno risaltare i motivi decorativi, come nella lavorazione del legno e in particolare nei cassettoni dei soffitti; l'altra faccia è ornata, in modo del tutto contrastante per iconografia e stile, da un tralcio carico di fiori e di frutta, intrecciato con una ghirlanda e popolato da uccelli che beccano. Un rilievo dal modellato vigoroso caratterizza questo fregio e anche la zona superiore del pilastro, dove sono raffigurati un arcangelo che tiene una corona appoggiato a una lunga lancia e forse un apostolo con un libro. Malgrado la pesantezza del drappeggio, le figure mostrano nei movimenti e negli atteggiamenti una scioltezza e un naturalismo ereditati dall'arte del 4° secolo. Questa stessa tendenza appare anche su alcune stele dove un arcangelo accompagna un defunto (per es. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek) e su una valva di dittico eburneo eseguito a Costantinopoli agli inizi del sec. 6° (Londra, British Mus.).Su fregi di grande interesse, forse appartenuti alla chiesa sud di Bāwīt (Cairo, Coptic Mus.), sono raffigurate due serie di episodi tratti dall'Antico Testamento: la distruzione di un idolo davanti al re, forse a opera di Daniele, e un ciclo davidico (Davide consacrato da Samuele, Davide inviato da Iesse verso Saul con un capretto e un asino carico di pane e vino, Davide che suona la lira davanti a Saul e Davide che combatte contro Golia). Questo tipo di narrazione a fregio continuo è confrontabile con le pitture del Dayr Abū Ḥennes (sec. 6°).La produzione di capitelli mostra un'inventiva e una maestria tecnica non inferiori a quelle della capitale bizantina. Continuò a essere utilizzato il tipo corinzio, di cui venne accentuato l'aspetto decorativo a discapito della resa naturalistica dell'acanto: le volute si arricchirono di perle, di fiori e anche di teste umane (Parigi, Louvre; Cairo, Coptic Mus.), le colonne si coprirono di girali, di scaglie, di meandri e di palmette che rivestirono le forme in origine austere, conferendo loro un aspetto singolare. Particolarmente suggestivi sono i capitelli a cesto, realizzati in innumerevoli varianti, tra cui quelle con foglie d'acanto mosse dal vento (da Ṣaqqāra; Cairo, Coptic Mus.), con acanto o vite eseguiti a traforo (Parigi, Louvre; Cairo, Coptic Mus.), con intrecci viminei (Cairo, Coptic Mus.).Per quanto riguarda la scultura lignea di questo periodo, va ricordata una piccola Annunciazione con tracce di policromia (Parigi, Louvre), forse parte di un arredo decorato con episodi della Vita della Vergine e dell'Infanzia di Cristo; la Vergine è rappresentata seduta su un alto sgabello (aderente al quale rimane un frammento della gamba dell'arcangelo Gabriele), intenta a filare la porpora per il velum del Tempio - secondo la tradizione apocrifa del Protovangelo di Giacomo (XI, 1-3) -, nel momento in cui, sospeso il lavoro, si rivolge verso lo spettatore in un gesto di meraviglia, seguendo un'iconografia presente anche su un tessuto di lino stampato, del sec. 5°-6° (Londra, Vict. and Alb. Mus.), e su un pendente in oro ritrovato ad Antinoe, probabilmente di fabbricazione bizantina (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz). La vicinanza iconografica e stilistica con queste opere, caratterizzate da un irrigidimento delle forme, che tuttavia rivelano ancora reminiscenze dell'arte antica nel modellato e nel panneggio, permette di proporre per il rilievo ligneo una datazione alla fine del sec. 5° o agli inizi del successivo.Due battenti della porta lignea proveniente dalla chiesa di S. Barbara nella Città Vecchia del Cairo, del sec. 6° (Cairo, Coptic Mus.), presentano una serie di pannelli intagliati con le figure di Cristo, della Vergine, di S. Marco e degli apostoli e, sul rovescio, con girali che fuoriescono da un vaso, analoghi a quelli che decorano la cattedra eburnea di Massimiano, del sec. 6° (Ravenna, Mus. Arcivescovile).Decorazioni scolpite geometriche, floreali o figurate ornavano in genere anche mensole, come quella, del sec. 6°, raffigurante Daniele tra i leoni sotto un'arcata sostenuta da due colonne (Berlino, Mus. für spätantike und byzantinische Kunst), che, per il tipo di rilievo accentuato, ricorda la citata mensola di al-Ashmūnain. Gli architravi, senza dubbio meno elaborati di quello di al-Mu'allaqa, erano assai di frequente caratterizzati dalla presenza, al centro, di una croce inscritta in un clipeo posta sotto un'arcata o eretta su un basamento, affiancata da iscrizioni, altre croci o da un reticolato di motivi geometrici e floreali che completavano la decorazione. Un esemplare proveniente da Bāwīt conservato a Parigi (Louvre) presenta la particolarità di essere ornato con figure: un personaggio seduto, forse Cristo, davanti a due figure stanti, S. Menna orante tra due cammelli e, forse, Mosè che riceve le tavole della Legge; benché il rilievo sia molto danneggiato, si possono ancora intuire i profili delle figure e le pieghe dei panneggi, che permettono di ricondurlo alla produzione del 6° secolo.La rarità dell'avorio induce a credere che la maggior parte delle opere in questo materiale sia stata eseguita nei grandi centri urbani e in particolare ad Alessandria, famosa per le botteghe specializzate nella produzione di generi di lusso. Nell'arte dell'avorio, caratterizzata da un forte accento antichizzante, si amalgamano reminiscenze greco-romane, cristiane e orientali. Le pissidi offrono esempi di uno stile d'intaglio, presente anche nella cattedra di Massimiano a Ravenna, che, benché fortemente legato alla tradizione antica, mostra panneggi appesantiti, teste rotonde con grandi occhi fissi e capelli in corti riccioli. Vanno menzionati al riguardo una pisside (Londra, British Mus.) con il giudizio di s. Menna, il suo martirio e il culto reso al santo raffigurato in piedi fra due cammelli, e un frammento (Parigi, Louvre) con le figure di un apostolo con libro e di Lazzaro avvolto nelle bende sotto un'edicola che rappresenta la tomba.I dittici e i frammenti di cofanetti mostrano iconografie cristiane e pagane: su un avorio (Trieste, Mus. Civ. di Storia e Arte) sono raffigurati i Dioscuri e Pasifae in compagnia del toro, su uno di Parigi (BN, Cab. Méd.) una processione dionisiaca e su un altro pezzo di notevole qualità (Ravenna, Mus. Naz.) scene dell'Antico e del Nuovo Testamento, eseguite con grande cura benché in forme schematizzate.Un gruppo a sé è costituito da pannelli (fine sec. 6°-inizi 7°) come quelli inseriti nell'ambone dell'imperatore Enrico II nella cattedrale di Aquisgrana (1002-1014), con varie raffigurazioni: Dioniso appoggiato con il gomito a una colonna tra pampini, la personificazione di Alessandria o Iside, una nereide che cavalca un mostro marino in un paesaggio nilotico, un guerriero, un cavaliere. Il rovescio poteva essere talvolta decorato con pampini di vite, identici a quelli della porta lignea della chiesa di S. Barbara nella Città Vecchia del Cairo.Al tempo della dominazione musulmana (secc. 9°-12°) artisti e artigiani copti furono chiamati a lavorare nei cantieri islamici di tutto il Vicino Oriente, a Gerusalemme, Damasco, La Mecca, Medina. Senza dubbio la forma del minbar fu ripresa da quella della cattedra utilizzata nelle chiese dell'Oriente cristiano e in particolare da quelle dell'Egitto copto, di cui va ricordato un esempio del sec. 6° proveniente da Ṣaqqāra (Cairo, Coptic Mus.); le fonti arabe riferiscono tra l'altro che la cattedra della moschea di 'Amr ibn al-'Āṣ (m. nel 664), conquistatore dell'Egitto, proveniva da una chiesa di al-Fusṭāṭ.Nella ricchissima decorazione scolpita che riveste interamente la facciata del palazzo omayyade di Mshattá (Transgiordania), svolge un ruolo preponderante un motivo a girali di vite, con elementi decorativi (gruppi di tre perle al centro di foglie a cinque lobi, piccole rosette nel punto di intersezione degli ovali formati dai girali) che compaiono anche in epoca preislamica su avori e rivestimenti di pareti in legno copti. Si può dunque ritenere che alcune parti della decorazione di Mshattá siano state eseguite da scultori copti.Le stele copte di età islamica si caratterizzano sia per un appiattimento sistematico delle forme, sia per il dilatarsi degli elementi ornamentali, sia per l'assenza pressoché totale della figura umana. La composizione più frequente è costituita da un'edicola, forse alludente a un edificio sacro, con un frontone, poggiante su colonne, triangolare o semicircolare, che ospitava il chrismón, la croce, il segno ankh cristianizzato, l'aquila con la croce nel becco o sormontata da un clipeo con la croce, animali affrontati ai lati di un bacino. Una stele del sec. 8°-9° (Parigi, Louvre) illustra, forse in modo poco conforme al mito, la storia di Dafne; altre, per es. la stele di Esna, del 1084 (Parigi, Louvre), sono costituite da semplici lastre rettangolari con la croce, intorno alla quale si dispone un'iscrizione.Su un frammento di fregio del sec. 8°-9° proveniente da Sōhāg (Londra, British Mus.) sono raffigurati due santi cavalieri, estremamente stilizzati nel trattamento dei corpi e dei panneggi a larghe bande, ai lati di una croce clipeata. Gli stessi caratteri stilistici si ritrovano in un rilievo schiacciato del sec. 9°, sempre proveniente da Sōhāg (Berlino, Mus. für spätantike und byzantinische Kunst), raffigurante Cristo su di un asino, accompagnato da due angeli, con probabile riferimento all'Entrata a Gerusalemme. Un archivolto datato al sec. 8°-9° (Parigi, Louvre) è interamente ornato da girali a rilievo schiacciato, su cui spiccano ad altorilievo un cesto di frutta e due angeli musicanti. Per la composizione, il contrasto dei piani e lo stile, questa scultura, in cui è ravvisabile l'inizio della fase di piena maturità dell'arte copta, si avvicina ad alcune opere preromaniche dell'Occidente.Una tendenza diversa appare negli stucchi a palmette e fogliami su un graticcio 'a nido d'ape' del presbiterio della chiesa al-Adra nel Dayr al-Suryān e della moschea di Ibn Ṭūlū'n al Cairo (879), che si ritrova anche nella capitale abbaside di Samarra, fondata nell'836. L'adozione di motivi tipicamente islamici si manifestò nella plastica architettonica in modo sempre più evidente, a testimonianza della progressiva fusione delle due culture.Alcune opere in avorio, databili tra i secc. 8° e 10°, di forte accento arcaizzante, possono forse essere riconosciute come produzione copta: immagini della Vergine con il Bambino (Baltimora, Walters Art Gall.; Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Applicata) e un'Ascensione (New York, Metropolitan Mus. of Art). La lavorazione del legno conobbe durante il periodo arabo una rinascita, dovuta a un più facile approvvigionamento del materiale e alle numerose richieste da parte di chiese e monasteri. Le transenne in legno sistemate come iconostasi dinanzi al presbiterio delle chiese consentivano di realizzare vaste composizioni a intaglio. Le più antiche tra quelle conservate non sembra che possano essere datate oltre il sec. 9° e sono costituite dall'inserimento di piccoli pannelli tra bacchette scanalate, secondo una tecnica, nota come Kassettenstil, impiegata dagli artigiani dell'epoca araba per fabbricare pulpiti, porte e decorazioni per mobili.Nella recinzione presbiterale della chiesa di S. Sergio nella Città Vecchia del Cairo (sec. 12°-13°) sono inseriti pannelli del sec. 10°-11° raffiguranti la Natività, l'Ultima Cena e tre santi cavalieri, in cui l'iconografia bizantina si associa a elementi decorativi del repertorio islamico come palmette stilizzate e arabeschi. Un altro pannello coevo (New York, Kevorkian Foundation), in origine rivestito di foglia d'oro, forse proveniente da una struttura analoga, mostra una raffigurazione del Sacrificio di Isacco, in cui Abramo è vestito con una tunica e un copricapo di foggia islamizzante e le fronde dell'albero sullo sfondo hanno forma di palmette islamiche.All'epoca fatimide devono risalire le recinzioni presbiterali di S. Barbara e del monastero di Abū Sayfayn nella Città Vecchia del Cairo (Cairo, Coptic Mus.). Le transenne della chiesa di S. Barbara, composte da quarantacinque pannelli decorati da girali racchiudenti scene di caccia e di guerra, cavalieri, musici e vari animali (leoni, sciacalli, cammelli, grifoni, cerbiatti, uccelli), mostrano un carattere antichizzante nei girali e un realismo nelle figure, che permettono di datarle alla fine del sec. 10°, un periodo in cui fu possibile realizzare, grazie alla tolleranza dei primi Fatimidi, opere di grande qualità.La recinzione di Abū Sayfayn, costituita da sessantasei pannelli, ornati da girali popolati di uccelli, animali e croci, e da altri sedici più piccoli, con figure di monaci, santi cavalieri e angeli, presenta invece uno stile più astratto, in cui si rivelano una tendenza a eliminare le figure e una resa più secca degli elementi ornamentali che ne pongono l'esecuzione tra la fine dell'11° e il 12° secolo. Da menzionare sono anche le porte della chiesa al-Adra al Dayr al-Suryān, incrostate d'avorio e ornate da un'iscrizione siriaca con il committente e la data di esecuzione dell'opera (913-914), dove le figure di Cristo, della Vergine e di alcuni santi sono inserite in un complesso apparato ornamentale geometrizzante.Nonostante la preponderanza dell'influenza islamica, l'arte copta riuscì a mantenere il legame con le proprie radici fino al sec. 13°, quando cedette alla tradizione bizantina. Quest'ultima fase della scultura copta è ben rappresentata dai pannelli in cedro della porta della chiesa al-Mu'allaqa, ornati da arabeschi di stile ayyubide e da scene della Vita di Cristo (Londra, British Mus.).
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Presso i cristiani d'Egitto la tecnica pittorica ebbe larga applicazione e interessò, oltre alla pittura vera e propria, anche la scultura e l'architettura. Sulla scia della tradizione ellenistica e romana, nella decorazione parietale furono largamente impiegate rifiniture policrome, che potevano simulare pietra, marmo, mosaici e lussuosi tendaggi o mettere in particolare evidenza determinati elementi strutturali. Questa sorta di sintesi tra le arti è ben evidente, per es., sia nel convento di S. Geremia a Ṣaqqāra, dove sono stati rinvenuti colonne e capitelli in laterizio intonacato e dipinto che sostengono catini di absidiole o archivolti in pietra, sia nel convento di apa Apollo a Bāwīt, nelle cui costruzioni fregi scolpiti si alternano a elementi in legno policromi. Là dove era difficoltoso il reperimento della pietra si fece ricorso alla pittura per l'intera decorazione architettonica: attraverso un gioco pittorico di luci e ombre ispirato a quello della scultura si realizzavano colonne scanalate o a spirale, capitelli di tipo ionico, corinzio o a cesto, frontoni o nicchie a conchiglia. Con la stessa tecnica si potevano ottenere finte lastre di marmo, fino a simulare le venature ondulate e le maculazioni dell'onice. Decorazioni parietali a crustae dipinte che imitano sontuosi pannelli in opus sectile o a intarsio sono frequenti su tutto il territorio egiziano, mentre assai più rari sono i pavimenti a finto mosaico, simili a quelli dei Kellia.
Gli albori della pittura figurata copta coincidono, di fatto, con le estreme manifestazioni della tradizione di origine faraonica. I tessuti dipinti, le maschere in gesso o i ritratti di mummie di epoca tolemaica e romana - i c.d. ritratti del Fayyūm - possono infatti essere considerati gli antesignani delle icone e, più in generale, della pittura cristiana. Sugli antichi lini funerari di norma ricorrono scene tratte dall'antico Libro dei morti, sovente abbinate a rappresentazioni formalmente e stilisticamente romane, che comprendono, nella fase più tarda, l'immagine del defunto in veste di togato romano. Per il periodo che va dagli inizi dell'era cristiana fino al sec. 4° sono quasi millecinquecento gli esemplari noti di maschere in stucco, modellate e dipinte, e di tavole in legno con ritratti a encausto o a tempera; nel loro complesso esse costituiscono una straordinaria galleria di tipologie etniche e un campionario assai significativo non solo del mutare della moda, ma del percorso stesso della pittura in Egitto. Mentre le testimonianze dei primi due secoli seguono fedelmente il gusto di tradizione romana, permettendo di fissare riferimenti cronologici piuttosto precisi, intorno al sec. 2° si assiste alla nascita di una corrente più popolare, caratterizzata da una nuova tendenza espressionistica, che subentra gradualmente all'indirizzo realistico precedente. La carica interiore delle figure rappresentate - nelle quali non è possibile riconoscere sempre dei cristiani in assenza di croci, iscrizioni o altri elementi parlanti - traspare dai tratti fisici, in particolare dagli occhi spalancati che caratterizzano, a partire da questo momento, numerosi volti, da quello di Cristo a quello del più umile dei monaci.I precedenti più significativi delle icone cristiane vanno rintracciati nelle tavole lignee con immagini di divinità che in epoca romana erano collocate, in ambiente domestico, entro apposite nicchie o incassate nelle pareti. Opere di questo genere sono state ritrovate per es. a Karanis nel Fayyūm e recano l'effigie di Iside che allatta Horus o Horus-Arpocrate, il dio di origine siriaca Herôn. Pitture mobili dovevano ornare le chiese cristiane già prima che entrassero in uso le pitture murali: ne sono conservati diversi esemplari databili tra il sec. 6° e il 7°, il cui nucleo più consistente si trova presso il monastero di S. Caterina al monte Sinai; si devono peraltro ricordare anche numerose immagini di arcangeli, evangelisti, apostoli, santi e monaci conservate in diversi musei (Parigi, BN; Louvre; Cairo, Coptic Mus.; Berlino, Staatl. Mus.). Nei secoli successivi, a partire dal sec. 10°, la pittura copta di icone si aprì all'influsso di tradizioni esterne: quella bizantina prima, poi quella occidentale, cui subentrò infine l'apporto della cultura islamica.Accanto alle icone va infine menzionata la produzione di cofanetti lignei, che potevano essere decorati da pannelli d'avorio intarsiato e inciso, raffiguranti in genere busti di santi; per le loro ridotte dimensioni questi piccoli oggetti mobili ebbero un'ampia circolazione in tutto il territorio egiziano.
Le testimonianze pittoriche provenienti da edifici civili sono alquanto scarse. Una casa del quartiere di Kom al-Dikka ad Alessandria, databile ai secc. 6°-8°, presenta decorazioni a graffito e a pennello, sia sacre sia profane: una probabile Madonna con il Bambino e alcune croci, nonché navi e uccelli, soggetti questi ultimi che potevano implicare anche una valenza simbolica cristiana (Rodziewicz, 1984). L'ipotesi che l'edificio in questione possa essere stato una sorta di domus ecclesiae non ha trovato finora alcuna conferma.In linea generale il settore meglio conosciuto è quello delle necropoli, nelle quali potevano essere sepolti, fianco a fianco, anche defunti appartenenti a raggruppamenti religiosi diversi. Sebbene i cimiteri cristiani di Alessandria siano scomparsi per la maggior parte durante il secolo scorso, siti come Karmuz, Antinoe e soprattutto al-Bagawāt, nell'oasi di alKharga, offrono ancora un ampio repertorio di testimonianze pittoriche con temi desunti in parte dall'Antico e dal Nuovo Testamento. È il caso di Karmuz, dove si incontrano le rappresentazioni di Cristo trionfante sul Male, delle Nozze di Cana e della Moltiplicazione dei pani, o quello di Antinoe, dove, tra motivi geometrici e floreali, animali e croci, compaiono le figure di Cristo e di santi accompagnate da oranti in cui è lecito riconoscere i defunti stessi. Ma è la necropoli di al-Bagawāt che annovera il maggior numero di scene vetero e neotestamentarie, in particolare nelle cappelle c.d. della Pace e dell'Esodo: cicli di Mosè, di Giona, di Noè e dell'arca, di Daniele e dei tre fanciulli di Babilonia, di Giobbe, di Isaia. Queste testimonianze, spesso opera di artisti mediocri, costituiscono i resti più antichi della pittura murale propriamente copta, giacché l'uso di queste necropoli risale al più tardi alla metà del 4° secolo.In principio i C. riutilizzarono numerosi templi e tombe d'epoca faraonica con lo scopo di costruirvi all'interno le loro chiese o per adibirli a luoghi di eremitaggio. Tuttavia le iscrizioni e le pitture che ne decoravano le pareti sono in gran parte scomparse, cadute per effetto del tempo o rimosse dagli egittologi per rimettere in luce gli strati di decorazione sottostanti. Costituisce un'eccezione il tempio maggiore di Amon a Karnak, nel quale la sala delle Feste di Tuthmosis III, trasformata in chiesa, conserva ancora sui fusti delle colonne alcune immagini di santi databili al 6° secolo. Lo stesso avviene a Dayr al-Bahārī, dove la terrazza superiore del tempio funerario della regina Hatshepsut ospitò un monastero, del quale sopravvive ancora in parte la decorazione parietale. Sono andate invece perdute le pitture di Filae, Abidos, Danderā, Luxor, di cui restano oggi solo sommarie descrizioni di viaggiatori del Settecento e del primo Ottocento.Ancora diverso è stato il destino cui sono andate incontro le chiese urbane o monastiche, le celle o le sale conventuali. Nella continuità secolare dell'occupazione le loro pitture sono state ripetutamente rifatte e hanno sofferto per i fumi delle torce e degli incensieri e per lo sporco provocato da un uso ininterrotto. È il caso delle chiese di Babylon (Città Vecchia del Cairo), dei monasteri dello Wādī Naṭrūn o di quelli di San Paolo e di Sant'Antonio presso il mar Rosso, di Sōhāg, dei Martiri e dei Figulini a Esna. In altri casi, invece, il precoce abbandono - generalmente avvenuto fra i secc. 8° e 10° - e il successivo insabbiamento delle strutture hanno assicurato la conservazione di un patrimonio ampio, seppure lacunoso, della produzione pittorica dei secoli precedenti. Così è avvenuto, per es., ad Abū Girgis e ad 'Alam Shaltūt nella regione di Alessandria, nel vasto sito dei Kellia, nel convento di S. Geremia a Ṣaqqāra, nel Fayyūm, ad Antinoe, nel convento di apa Apollo a Bāwīt, negli eremi sotterranei di Esna, nel convento di S. Simeone ad Assuan. Tra quanto si è conservato si conosce in percentuale assai poco delle pitture delle chiese, mentre sono molto ben documentate quelle delle celle e delle sale comuni; per ciò che riguarda i siti tuttora in uso, si hanno testimonianze più consistenti delle pitture delle chiese, mentre le abitazioni dei monaci risultano ampiamente intonacate, quando non siano state oggetto di ricostruzioni. A partire dal sec. 6° si diffuse nelle chiese l'uso di decorare le colonne con temi figurati (per es. personaggi stanti) o di carattere ornamentale come tendaggi, talora con motivi zoomorfi. Gli zoccoli posti alla base delle pareti sono in genere rivestiti di lastre in pietra pregiata (Ṣaqqāra) o ricoperti con pitture che ne imitano le caratteristiche (Abū Girgis, Kellia, Bāwīt). Poco si conosce della decorazione delle zone superiori: in origine la parte più alta delle pareti era destinata ad accogliere le icone (Bāwīt), mentre a partire dal sec. 10° venivano eseguite pitture con episodi tratti dall'Antico e dal Nuovo Testamento, figure di santi prevalentemente cavalieri (monastero di Sant'Antonio). Nei catini absidali si trovano solitamente rappresentazioni di Cristo in maestà (per es. nella chiesa di Dayr al-Abyaḍ, il convento Bianco, presso Sōhāg), talora accompagnato dalla Vergine (Esna, monastero dei Martiri), oppure di croci con drappeggio (convento Bianco).Nei pochi refettori conservati, la decorazione pittorica si ispira a soggetti di carattere edificante legati alle letture che si facevano durante i pasti (Ṣaqqāra).Per quanto riguarda le celle, si dispone invece di informazioni più ampie che consentono di ricostruire un panorama più articolato. Nei caratteristici eremi rupestri del jabal di Esna, oppure ad Antinoe o a Dayr al-Naqlūn, nel Fayyūm, si trovano solo decorazioni realizzate con disegni schematici (croci, uccelli, figure di oranti) privi di ogni pretesa artistica. A Ṣaqqāra e a Bāwīt gli oratori privati riservati ai monaci erano oggetto di particolare cura nell'apparato ornamentale e così accadeva anche nei Kellia, dove le pareti dei vestiboli d'ingresso sono rivestite di pitture.A Ṣaqqāra, a Bāwīt e nei Kellia lo zoccolo poteva essere monocromo, con un'alta fascia colorata in rosso scuro, oppure composto da pannelli a imitazione di lastre di marmo o di porfido o ancora con motivi che simulavano l'intarsio. Generalmente un fregio, costituito da una stretta banda a motivi geometrici, trecce o fiori più o meno stilizzati, separa lo zoccolo da una zona superiore, a fondo chiaro, che accoglie croci (per es. nei Kellia e a Ṣaqqāra), o lunghe teorie di santi o episodi testamentari (Ṣaqqāra, Bāwīt). Non di rado si sono conservate rappresentazioni con scene ispirate alla vita quotidiana del monastero, realizzate con ogni probabilità dai monaci stessi. La nicchia che si apriva nella parete orientale degli oratori, punto di riferimento della preghiera dei monaci, ha di norma come soggetto una grande croce gemmata (per es. nei Kellia), la Maestà di Cristo o la Madonna con il Bambino circondata da arcangeli, apostoli e santi fondatori di monasteri (Ṣaqqāra, Bāwīt). Talvolta i due temi si fondono e la Maestà del catino absidale viene accostata alla Madonna nel cilindro della parete sottostante, un abbinamento che compare anche in chiese di epoca più tarda (Sōhāg, Esna, mar Rosso). Ad Abū Girgis, 'Alam Shaltūt, Ṣaqqāra, Bāwīt, Assuan si privilegiò la rappresentazione della figura umana, talvolta ripetuta fino alla monotonia, mentre a Esna e nei Kellia compare prevalentemente il tema della croce, anche fiancheggiata da animali. Motivi vegetali o zoomorfi, reali o fantastici, erano ampiamente diffusi nei Kellia accanto a numerose rappresentazioni, più o meno dettagliate, di imbarcazioni.Sebbene manchi uno studio di tipo stilistico sulla pittura dell'Egitto cristiano, si possono comunque indicare due grandi correnti. L'una risale forse a tradizioni di epoca faraonica ed è caratterizzata da una certa vivacità, che emerge soprattutto nella resa degli animali e degli elementi vegetali; l'altra è contraddistinta invece da forme rigide e solenni, bene espresse dalle convenzionali teorie di santi dai visi scarni e dagli occhi spalancati. Questa seconda corrente richiama, seppure indirettamente, la tipica ieraticità dell'arte aulica faraonica. Prima del sec. 10° la pittura copta e l'arte copta in genere appaiono articolate in scuole locali, di matrice essenzialmente popolare, legate a tradizioni più o meno lontane o comunque permeate da molteplici apporti esterni. Il sec. 10°, epoca di grandi rivolgimenti storici, segna anche nell'arte un momento di cesura; il passaggio di molti monasteri sotto la giurisdizione di comunità siriache, armene ed etiopi portò, in ambito pittorico, sia all'immissione di elementi nuovi sia al rafforzamento di quelli tradizionali, aprendo l'Egitto cristiano alla più ampia koinè bizantina. Uno degli aspetti più innovativi è ravvisabile sul piano compositivo e narrativo: le scene, fino ad allora separate, cominciarono a legarsi più organicamente tra loro attraverso i movimenti dei personaggi, i gesti e il gioco degli sguardi.In occasione degli ultimi scavi, osservazioni in situ e analisi di laboratorio, di cui alcune ancora in corso, hanno consentito un riesame delle tecniche pittoriche. A tale riguardo, le ricerche sul sito dei Kellia hanno apportato interessanti novità, per es. relativamente alle pitture murali - almeno quelle eseguite tra i secc. 6° e 8° - che non possono definirsi propriamente affreschi. I pigmenti ottenuti con la miscela di terre e sabbia risultano infatti mescolati direttamente con il latte di calce o fissati con leganti come la caseina e poi applicati alla superficie intonacata, che veniva rozzamente lisciata con lo strofinaccio o la spazzola, quindi rifinita con il pialletto o con la cazzuola e la spatola. Sull'ultimo strato, di norma secco, raramente riumidificato, venivano passati i colori puri in varie tonalità (ocra, verde, bianco, nero, blu) mescolati o anche in sovrapposizione. Sono rari i casi in cui il colore parrebbe essere stato applicato sull'intonaco ancora fresco, ma il fatto sembra dovuto più all'impazienza del pittore che a un procedimento tecnico codificato. Le analisi eseguite hanno inoltre potuto stabilire che gli artisti facevano uso di un'ampia varietà di pennelli, nonché di punte e compassi per delineare alcuni motivi; resta invece in dubbio se essi impiegassero o meno delle sagome.
Come riferisce Evagrio Pontico (Palladio, Storia Lausiaca, 38, 10), in Egitto i monaci più istruiti si dedicavano alla copiatura di libri. Tuttavia si ritiene che soltanto i monasteri maggiori fossero dotati di biblioteche e di veri e propri scriptoria (Wādī Naṭrūn, S. Macario; al-Fayyūm, S. Michele; Sōhāg, convento Bianco).Alcuni testi scritti su papiro sono ornati lungo il margine con immagini e scene di tradizione pagana - allegorie delle Stagioni e dei Mesi nella Cronaca Alessandrina (Mosca, Gosudarstvennyj muz. izobrazitel'nych iskusstv im. A.S. Puškina, secc. 4°-8°) -, di tematica profana - soggetti di storia antica (ritratti dei re di Roma) o contemporanea (il vescovo Teofilo che ordina la distruzione della biblioteca di Alessandria, sempre nella Cronaca Alessandrina) - o cristiana (Cristo placa le acque in tempesta, Firenze, Mus. Archeologico, PSI 920, sec. 6°; la Vergine che allatta, Firenze, Ist. Papirologico G. Vitelli, sec. 6°-7°).L'uso della pergamena si impose solo a partire dal sec. 7°, mentre dal sec. 13°-14° il materiale di supporto più diffuso fu la carta. Incipit e iniziali di grande formato appaiono percorsi da girali abitati, arabeschi e fioroni; le miniature sono in genere semplici disegni a inchiostro, mentre in alcuni casi si possono assimilare a quadretti dipinti, anche a piena pagina. Per ciò che riguarda l'iconografia, i temi più diffusi sono ritratti di Cristo e della Vergine, arcangeli, santi e cavalieri. Per le prime illustrazioni a carattere propriamente narrativo dotate di una certa vivacità di movimento occorre attendere il 12° secolo. In questo periodo la miniatura copta si avvicinò sul piano dello stile alla koinè bizantina e si aprì al contempo agli influssi dell'arte islamica, percorrendo così vie parallele a quelle seguite dalla pittura murale.
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Si conservano più di trentamila frammenti di tessuti copti di varie misure, anche molto ridotte, distribuiti tra numerosi musei e collezioni private; il fondo di maggior rilevanza è a Parigi (Louvre). Frutto di campagne di scavo disordinate, prive di analisi stratigrafica sul terreno e pertanto di limitata validità scientifica - sebbene realizzate da archeologi famosi fra la fine del sec. 19° e il primo decennio del successivo -, i tessuti copti superstiti, databili tra il sec. 1° e il 12°, provengono per la maggior parte dall'alta valle del Nilo in Egitto e da ritrovamenti di origine sepolcrale in siti ai limiti del deserto, i più importanti dei quali sono Panopoli (od. Akhmīm), Antinoe, Arsinoe, Ṣaqqāra e Qarāra.I tessuti rinvenuti nelle tombe senza tumulo, scavate nel terreno per una profondità di m. 1,5, servivano a vestire il defunto o a riempire le zone vuote del suo corpo imbalsamato; il volto era spesso coperto da un velo, mentre il capo poggiava su una sorta di cuscino costituito da una stoffa piegata. I tessuti copti - semplici ma del tutto originali nell'ambito della storia dell'arte tessile antica - nacquero e si svilupparono copiosamente solo in territorio egiziano ed ebbero una diffusione locale vastissima e un impiego saldamente attestato nella vita quotidiana. Nella produzione spiccano le tuniche ornate da clavi e orbicoli, cioè elementi decorativi realizzati in lana policroma - in forma di bande strette terminanti in medaglioni, che da ognuna delle due spalle si arrestavano all'altezza del petto oppure ornavano l'orlo inferiore e le maniche -, che contrastavano con il fondo in lino o più raramente in cotone, generalmente écru. Non furono tessuti solo abiti con i quali, dopo successivi reimpieghi e sovradecorazioni a ricamo, si vestivano pure i defunti, ma anche per es. tende, come suggerisce l'impostazione ornamentale di alcuni grandi frammenti pervenuti, quale quello degli 'amorini vendemmianti' (Parigi, Louvre). Non mancarono inoltre copricapi a maglia a rete, i c.d. sprangs (sorta di merletti strettamente imparentati nei modi compositivi agli intrecci semplici 'per nodo' preistorici), così come cuscini, tessuti a stampa, bouclés, frange e, soprattutto dopo il sec. 7°, sete; queste ultime, poco numerose, furono con ogni probabilità appannaggio di una clientela d'importazione e di elevato ceto sociale. Ciò va detto specialmente alla luce del fatto che la cultura copta, in cui si riscontra una costante interazione tra le arti, ebbe sempre stretti legami con il poliedrico ambiente culturale egiziano, segnato dal contatto con le civiltà che di volta in volta conquistarono l'Egitto - la tolemaica, la greca, la romana, la sasanide, la bizantina e l'araba -, ma non cessò mai di avere una propria connotazione, diversa da quella dei ceti dominanti. Popolo eminentemente di agricoltori, pescatori e artigiani, anche nell'arte tessile i C. manifestarono un costante attaccamento alle tradizioni non rinnovando il proprio repertorio iconografico, che anzi fu spesso reiterato nel tempo anche quando se ne era ormai persa la nozione simbolica. L'arte tessile assunse le mode via via introdotte in loco da circostanze politiche, culturali e sociali esterne, accogliendone i tratti più congeniali, in una compenetrazione di elementi pagani e cristiani.Sebbene da qualche decennio sia invalsa la tendenza a negare la validità di una metodologia attributiva e di datazione che, in mancanza di scavi scientifici, tenga conto quasi esclusivamente dei condizionamenti storico-artistici esterni - prassi seguita almeno fino agli anni Sessanta a scapito di un'analisi più diretta e interna ai singoli gruppi iconografici e stilistici -, è comunque innegabile che almeno nell'iconografia i tessuti copti abbiano ripercorso in certo qual modo le strade di quelli prodotti dalle civiltà coeve. Così fu anche per lo stile, ove s'innestarono forme sempre più stilizzate, in un progressivo fissarsi del gusto su un colorismo accentuato, ottenuto con l'ausilio di tinture naturali, di rossi e bruni, di verdi e gialli e bianchi stesi a forti contrasti, che già verso il sec. 3° sostituirono una più sobria bicromia. Dall'influenza marcata della compostezza classica dei secc. 1°-3° si giunse a una maggiore fantasia compositiva, che spesso si accompagnò da un lato a un progressivo irrigidimento e a una frontalizzazione delle forme - sembra sconosciuta la figura di profilo - e dall'altro a un modo maggiormente sommario della delineazione, sebbene permanga l'accentuazione dei contorni e delle ombreggiature.L'arte tessile copta - che certamente non fu popolare nel senso spregiativo del termine, come molti hanno voluto sostenere, e neanche un'arte a carattere esclusivamente decorativo - si avvalse di un preciso ordine ornamentale per esprimere il forte spiritualismo religioso e il servizio alla fede, anche se in alcuni periodi non fu scevra da una tendenza all'horror vacui. Le tematiche proprie dei tessitori copti furono numerose; dalla sfera culturale greco-romana provenivano le raffigurazioni mitologiche - quali il mito di Dioniso, quello di Afrodite, le chimere, i cavalieri, i putti e gli amorini, i cavalli alati, le amazzoni, gli eroi e le divinità nilotiche e marine che tanto splendidamente si ritrovano nel c.d. scialle di Sabina (Parigi, Louvre) - e ancora le scene di circo con le lotte fra uomo e belva o i gladiatori, gli animali feroci, isolati o in scene di caccia, le raffigurazioni guerresche. In voga furono anche le rappresentazioni bucoliche, spesso di traslato simbolismo cristiano, come il Buon Pastore o la Sacra Famiglia.Fin dal sec. 1° vi furono tessitori che si dedicarono prevalentemente, non si sa se sulla scorta di libri di modelli o di cartoni, alle scene bibliche, come il Sacrificio di Isacco, e dal sec. 3° a quelle evangeliche, relative soprattutto alla Nascita e all'Infanzia di Cristo; non vennero tuttavia trascurati simboli cristologici, croci, colombe, pavoni, oranti, angeli e santi, resi in uno stile tendente progressivamente alla secchezza e all'impressionismo, probabilmente di ispirazione siriaca; questo stile, dal sec. 4°, conobbe peraltro la sua più alta espressione nella ritrattistica. Vi sono anche stoffe in cui l'iconografia è direttamente ripresa dalla Tarda Antichità (figure poste entro arcate), dalla civiltà sasanide (cavalli addossati e/o affrontati, pegasi, maschere), da quella bizantina (cacce imperiali entro rotae, lotte fra animali, scene cristologiche e di simbologia imperiale e religiosa) e infine da quella araba, che espresse per lungo tempo, nelle infinite soluzioni ornamentali di motivi fitomorfi e nelle rielaborazioni di simboli più antichi (albero della vita, abitato e no, hom o albero del fuoco, cesti e calici votivi, cuori), il gusto per il tessuto leggero di seta, con qualche rara preziosità di fili d'oro, e la tendenza alla frammentazione e alla sobrietà decorativa tipica dei tessuti aniconici di tradizione orientale.Dal punto di vista tecnico i tessuti copti più noti non dovrebbero essere ascritti a pieno titolo nell'ambito degli sciamiti, che pure esistettero numerosi nel periodo tardo, quanto piuttosto in quello degli arazzi, al quale sono molto più affini. Gerspach (1890, p. 67) sostenne perfino di essere riuscito a ricostruire tessuti del genere con il telaio verticale preposto alla confezione degli arazzi Gobelins, ragione per la quale i manufatti copti assunsero per molto tempo in Francia la denominazione di Gobelins coptes. In mancanza di documenti antichi chiarificatori, le analisi tecniche eseguite in questi anni sui reperti hanno stabilito per la maggior parte di essi l'uso del telaio verticale ad alto liccio da arazzeria, ove la trama nasconde completamente l'ordito e le torsioni sono sia a forma di S sia a forma di Z, con una tecnica complessa che compone il tessuto secondo metodologie diverse e spesso miste; nelle fasi progredite, nel sec. 7°, si ebbe l'intervento di navette volanti e trame ausiliarie, quando si vollero ottenere effetti particolari di volume, di ombreggiature e di contorni su un impianto che aveva prediletto le grandi, appiattite masse cromatiche a contrasto.Dopo la conquista musulmana (639) lo sviluppo artistico del popolo copto subì una battuta d'arresto, fissandosi in una tradizione stanca e ripetitiva, che segnò anche la produzione artigianale di cui si ha notizia fino al 12° secolo.
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