CONVENEVOLE da Prato
Nacque a Prato da Acconcio di Ricovero, probabilmente tra il 1270 e il 1275.
Il nome e la patria di questo notaio e professore di retorica, primo maestro del Petrarca per il trivio, non risultano da dichiarazione esplicita del grande discepolo; il quale rievocò nel 1374 (Sen.., XVI, i, a Luca da Penna, segretario del papa) il carattere o le qualità del suo antico precettore ("seniculus simplicissimus", "vir famosus", "grammaticus optimus", "professor ac pracceptor") e neprecisò l'origine toscana ("in Tusciam ivit, unde sibi erat origo"), aggiungendo altri curiosi particolari su cui occorrerà ritornare, proprio perché è questa la fonte principale per ricostruire la fisionomia del personaggio, integrando gli scarsi dati via via emersi dalla ricerca archivistica. Spetta però a Filippo Villani il merito di avergli dato nome e patria, nella sua biografia petrarchesca inclusa nel De Florentinis illustribus viris ("cum patre Petracco exulare compulsus est, et apud Avenionem civitatem Provinciae famosam pueritiae annos et adolescentiae initia sub spectabili indole in scholis liberalium artium mirabili docifitate consumpsit, depositisque rudimentis poeticae artis pracceptore Convennole Pratensi, qui ibidein scholas publice tenuit, viro mediocris poeseos perito, poeticum coepit degustare melos, cui adiumentis coeli laurea deberetur"); e a Lorenzo Mehus (1759) di aver fatto conoscere questa antica testimonianza, ricollegandola esplicitamente alla Senile petrarchesca. Vero è che le incertezze cominciarono già col nome del pratese, che il Villani riferiva nella forma "Convennole", la quale godette di una certa fortuna finché venne dimostrata illegittima dalle pazienti esplorazioni del Giani.
Qualche difficoltà è insorta circa la data di nascita di C., segnatamente in rapporto alla notizia petrarchesca (Sen.) sulla straordinaria longevità del suo magistero ("sexaginta totos, ut fama erat, annos scholas rexit"), se la si prende alla lettera, e non come un bilancio volutamente favoloso, atto a colorire un ritratto e non tanto a definire in termini esatti una biografia.
Stando alle successive precisazioni del Petrarca ("quot scholares tanto in tempore vir famosus habuerit cogitari facilius quam dici potest. In quibus magni viri multi, ut scientia et statu, et legum scilicet professores et sacrarum magistri litterarum et praeterea episcopi et abbates, ad ultimum cardinalis unus cui ego puer patris intuitu charus fui, vir nonstatu maior ac fortuna, cum esset hostiensis episcopus, quam prudentia et litteris"), è meglio ritenere che Niccolò da Prato, coetaneo di C., se ne sia giovato come di consigliere letterario ormai in età avanzata ("ad ultimum"), piuttosto che immaginare che l'Ostiense l'abbia avuto giovanissimo maestro prima di farsi domenicano (in S. Maria Novella a Firenze verso il 1266), per collocare così la nascita di C. poco prima della metà dei XIII secolo (come fa il Giani, seguito dal Redigonda e dal Billanovich).
Di fatto alcuni documenti pratesi inducono a situare la nascita di C. fra il 1270 e il '75. Nell'agosto del '90 egli è infatti denunciato, col padre, dalla cugina Tobia, nel cui orto erano penetrati "causa conservandi ius suum" (dunque, un litigio patrimoniale fra parenti); il 19 sett. 1293 consegue gli ordini minori e l'iscrizione al ceto clericale; mentre nel settembre del 1305 (col titolo di notaio e insieme col fratello) viene incriminato, per minacce, da un certo Tano, nunzio del Comune.
Quanto al casato, le ricerche del Giani e del Piattoli hanno accertato che, fra i tanti omonimi pratesi, C. appartenne alla consorteria abitante in Porta Curtis o Adcurtis (Accorte), figlio del notaio Acconcio di Ricovero e nipote (per parte materna) di Convenevole di Gualfreduccio, colto giurista e avvocato, uomo politico aperto a interessi letterari. Una famiglia della piccola borghesia, in cui era tradizionale il mestiere di notaio, di fede tendenzialmente ghibellina e quindi invisa nella guelfissima Prato. Notaio fu anche il fratello Filippo o Lippo (lo stesso coinvolto nel procedimento penale del 1305), alquanto più anziano di C. e più di lui compromesso politicamente. Nel 1306, infatti, Lippo venne condannato a morte in contumacia per un complotto contro il podestà Masseo da Montefalco, al tempo del trionfo di parte nera e dell'accordo di Prato con Firenze contro "Gibelinos et albos". Costretto all'esilio, si rifugiò in Pisa ghibellina, dove rogava atti nel 1312 e 1316 e dove entrò nella cerchia dell'imperatore Arrigo VII, poiché in un atto della sua Cancelleria (30 maggio-VI giugno 1313) compare "Philippus Acconcii de Prato publicus imperiali auctoritate notarius".
Fra il giugno e l'ottobre 1306, C. venne sostituito come notaio della Camera; solo per pochi mesi ottenne che gli venissero affidati i protocolli del padre, del fratello e dell'avo giudice e professor iuris. Della primavera è infatti il documento (studiato dal Piattoli e dal Petrucci) dove C. trascriveva dalle imbreviature di Acconcio un atto di dote stilato il 30 luglio 1290.
Vergato in un'armoniosa minuscola cancelleresca o notarile, l'unico autografo di C. dimostra un equilibrio calligrafico ormai lontano dai modelli duecenteschi. Fu questa la scrittura da lui insegnata al figlio dell'amico Petracco; il quale ne trarrà poi uno dei suoi due tipi di grafia, non la minuscola più artificiosa ed elegante (elaborata anche sotto le influenze della Cancelleria avignonese), ma quella sua personalissima corsiva, adoperata usualmente negli abbozzi e nelle minute.
A presumibile che verso il novembre del 1306 anche C. sì ritirasse a Pisa; e là poté benissimo insegnare "primas literas" al piccolo Francesco Petrarca. che vi risiedette con la famiglia in esilio fra il 1311 e il '12. Dopo Pisa, si perdono le tracce di C., che ritroviamo solo nel 1317 ad Avignone, dove uno stuolo di bianchi esuli, intellettuali e professionisti, si era raccolto sotto la protezione di alti prelati italiani. Il 25 maggio vi rogò un mandato di procura, quando Adimaro di Roberto, pievano di S. Pietro in Campo nella diocesi di Lucca, cedette la chiesa al cardinale Niccolò da Prato e il pontefice Giovanni XXII confermò la donazione, ingiungendo all'arcivescovo di Pisa di consegnare quel possesso ai rappresentanti dell'Ostiense. Intorno al '18 anche il fratello raggiunse Avignone, come tanti, in cerca di miglior fortuna; e per l'operosità a favore della Curia ottenne l'annullamento di ogni bando dal territorio di Prato. A differenza di Lippo, tuttavia, l'attività prevalente di C. non fu neppure allora il notariato, come lascia intuire la testimonianza dell'allievo: "sub hoc postea grammaticam. et rethoricam audivi, utriusque enirn professor ac praeceptor fuit, cui parem ego non novi, quoad theoricam loquor, quae ad practicam attinet, non ita prorsus horatianae cotis in morem, quae ferrum novit acuere, non secare" (Sen., cit.). Occasionale, dunque, la professione notarile; costante invece la vocazione all'insegnamento, anzi divenuta attività escluSiva (o quasi) durante l'esilio.
Quanto al Petrarca, il magistero di C. si colloca indubbiamente fra il 1312 e il '16: quando Petracco, dopo una breve sosta ad Avignone, si trasferì con la famiglia a Carpentras. È il quadriennio cui si accenna nella Sen., X, 2 a Guido Sette e più distesamente nella Posteritati: "Ibi igitur [ad Avignone], ventosissimi amnis ad ripam, pueritiam sub parentibus, ac deinde sub vanitatibus meis adolescentiam totam egi. Non tamen sine magnis digressionibus: nanique hoc tempore Carpentoras, civitas parva et illi ad orientem proxima, quadriennio integro me habuit; inque his duabus aliquantulum gramatice dyaletice ac rethorice, quantum etas potuit, didici; quantum scilicet in scolis disci solet, quod quantuluin sii, carissime lector, intelligis". Su questo noviziato letterario egli si sofferma anche nella Famil., XXIV, 1 a Filippo da Cabassole, dove l'allusione al vecchio maestro pratese è sempre affettuosamente velata (non se ne fa mai il nome, pur denunciandosene certi limiti): "Hec et his similia legebam, non, ut mos etatis est illius, soli inhians grammatice et verborum artificio, sed nescio quid aliud illic abditum intelligens, quod non modo condiscipuli sed nec magister attenderet, primitiarum licet artium doctus vir".
Certo, in Provenza C. non doveva trarre lauti guadagni dall'insegnamento, né tanto meno dai saltuari incarichi a lui affidati come notaio. La sua era la condizione di un esule sradicato, incapace di astuzie o di compromissioni: bravo professore, ma inetto alla vita pratica.
Tentò forse di accedere ai vantaggi della corte avignonese appoggiandosi a un personaggio di grosso calibro, come il concittadino Niccolò da Prato, il quale - già cardinale - si prestò a diventare allievo dei vecchio docente. L'Ostiense, anzi, sembra essere stato il solo potente ad averlo ufficialmente favorito, almeno a giudicare da quell'unico documento del '17;e in ogni caso C. trovò presso di lui un ambiente ricco di stimoli culturali, dove si stava formando il giovanissimo Petrarca, alla cui famiglia C. restò sempre, legato, fin dai tempi pisani; protetto anzi da ser Petracco ("pater meus dum vixit liberaliter satis adiuvit") e, dopo la morte di costui (1326), dal Petrarca stesso ("omnem in me spern posuerat"), che egli ripagava di totale e disarmante gratitudine (nella Sen., XVI, I, si ricorda la battuta rivoltagli dal cardinale Giovanni Colonna: "Dic, magister, tot inter discipulos tuos magnos, quos ut scio diligis, estne aliquis Francisco nostro locus ?"). Tale affetto del Petrarca verso il suo vecchio, scombinato e patetico maestro ("comites importunac ac difficiles pauperies et senectus") si spingeva ad ogni forma di aiuto: garanzie di vario genere, oggetti e perfino libri in prestito da impegnare ("Millies in hunc: usuin libros et res alias asportavit et retulit, donec fidem expulit paupertas"). Si colloca qui l'episodio assai noto dei De gloria ciceroniano, dono prezioso di Raimondo Soranzo, smarritosi per colpa di C., che diceva di averne bisogno per un suo lavoro ("praetendens sibi necessarios in opere suo quodam"). Così il Petrarca gli aveva passato i "duo Ciceronis volumina", libri una volta tanto "concessi non egestati sed studio". Il povero vecchio, "graviore pressus inopia", finì per impegnarli tradendo la fiducia dell'allievo, che si era subito offerto di riscattarli a sue spese, con mortificazione di C. ("pudoris plenus et lachrimarum") che per orgoglio volle invece riservare a sé quel dovere. Ma non ne ebbe la possibilità materiale; e fu perdita dolorosissima al Petrarca, che non se ne dette mai pace, pur alimentando fievoli speranze di ritrovare il De gloria (cfr. Famil., XXIV, 4).
Intorno al 1336 le strade del maestro pratese e del suo grande discepolo si separarono definitivamente. Anche qui il Petrarca funge da unica testimonianza. Nell'aprile del 1337 era tornato ad Avignone, per ritirarsi poi nell'estate in Valchiusa; ma già prima C. era rientrato in Toscana, privo orinai di allievi ("paupertate pulsus") e indebolito dalla vecchiaia ("invaserat eurn senectus"), seguendo anche un più generale riflusso di esuli dalla Francia in Italia. Purtroppo non si era goduto a lungo quel iitorno in patria ("nec prius eurn abiisse quain obiisse cognovi"). E ancora una volta, puntualmente, le fonti documentarie confermano la veridicità del racconto petrarchesco, proprio a partire dal '36. Nell'aprile di quell'anno troviamo una traccia concreta della presenza a Prato del "magister", nominato (dalla magistratura degli Otto) maestro di retorica, accanto al concittadino Duccio di Amadore, prescelto per la grammatica: "elegerunt ... sapientissimos viros in doctores et magistros gramatice, videlicet magistruni Convenevolem condain s. Acchoncii de Prato in magistrum et doctorem in Terra Prati in rectoricha et magistruni Ducciuni condam [Amadoris] de Prato in doctorem magistruin gramatice pro IIIIor annis incipiendis die primo mensis octob. prox. vent.". Dunque, C. diveniva professore ufficiale del Comune di Prato, titolare della cattedra di latino ciceroniano ("pro salario lecture nove Tullii"), con un contratto quadriennale e uno stipendio eccezionalmente elevato. Ma mentre per Duccio il salario risulta pagato fino al dicembre 1343, per C. la registrazione s'interrompe nel dicembre del 1337.
La morte di C. è dunque da collocare ai primi del 1338; vi sono indizi che egli sia stato sepolto nei sotterranei della cattedrale di Prato.
La Sen., XVI, 1 aggiunge il particolare delle onoranze tributate al maestro, con la laurea poetica post mortetn; per la sua tomba, addirittura, i Pratesi sollecitarono un'epigrafe petrarchesca ("oratus a civibus suis, qui ad sepolturam illum sero quidem laureatuin tulerant, ut memoriae eius honorificum aliquod epigramma componerem"). Ma il Petrarca non corrispose a quella richiesta, mentre ribadiva il proprio rammarico per la perdita dei De gloria e del suo seniculus, con parole che suonano epigrammatiche ("Ita simul et libros perdidi et magistrum") e trepide insieme di un'ineffabile dolcezza memoriale ("habes historiam quam petisti, longiusculam fateor, scd dulce milii fuit et veteruin recordari").
Così la pagina del Petrarca suggella, nel segno di un'antica amicizia, la lunga esistenza di C., che sembrerebbe apprezzabile quasi soltanto alla luce riflessa dell'insigne allievo. Una vita, cioè, esauritasi nel magistero a decine e decine di scolari, ma per noi importante per ciò che da essa poté travasarsi nella formazione tecnica e intellettuale del più ricettivo di tutti i suoi allievi: la sua grafia, il suo latino e la sua grammatica, certe idee di fondo (per esempio la tendenza all'anticurialismo), soprattutto l'amore per i libri e il gusto dello studio come vivo colloquio con gli autori, Cicerone in primis. Del resto, Petrarca stesso (nella Sen. cit.) non si limitava a riscoprire attraverso C. la propria vocazione ed educazione poetica, ma lumeggiava anche la indole letteraria di lui, fornendoci una chiave quanto all'assenza di operosità concreta - e cioè tradottasi in opere scritte - per il suo vecchio maestro: "Quotidie enim libros inchoabat, mirabilium inscriptionum, et proemio consumato, quod in libro primum, in inventione ultiimun esse solet, ad opus aliud phantasiam instabilem transferebat". Ne veniva fuori, dunque, uno splendido "carattere" di intellettuale volubile e improduttivo, capace solo di scrivere titoli e proemi di opere che non avrebbe mai completato, per la smania di nuovi progetti; "carattere" per giunta coerente con l'impegno quotidiano di maestro sempre squattrinato e pure ottimista, specie quando i prestiti degli amici lo sollevavano dai bisogni più impellenti. Insomma, un Micawber del Trecento, simpatico e imbarazzante come il personaggio dickensiano. Il che, se non altro, ci permette di escludere che la "guida" dei Trionfi, colui che si presenta a Petrarca-personaggio (in Tr. Cup., I, 40 ss.) in veste di sodale ("vero amico Ti son e teco nacqui in terra tosca"), trasfigurato dai tormenti d'Amore ("l'aspre some De' legami ch'io porto") e reso così irriconoscibile (come Brunetto dal fuoco e Forese dalla magrezza), debba identificarsi con C. (secondo la proposta del Sicardi), e non con Sennuccio del Bene, o con Boccaccio, o forse meglio con Cino da Pistoia; anche se conservano tutta la loro forza certe diffidenze del Calcaterra sulla possibilità di ravvisarvi tanto una "creazione fantastica" quanto una "figura storica". In altre parole, Petrarca, che da ragazzo si era lasciato docilmente guidare da C. nelle agevoli vie della grammatica, non lo avrebbe seguito da adulto in quella onirica "visione di vivi e di morti" (Calcaterra), che sono i Trionfi. Avrà insomma cercato guida più adatta, non così estranea al regno d'Amore: piuttosto quegli amici poeti che il mite seniculus.
Ma ritorniamo all'attività letteraria di C. autore, quella (secondo il Petrarca) costituita di puri inizi dì opere, titoli e proemi, insomma progetti subito abortiti per l'irrequietudine a lui connaturata. Sembrerebbe scontato che di una produzione simile non restasse traccia; e, di fatto, nulla la tradizione ha conservato sotto il nome del maestro pratese. Eppure ci sono elementi per ritenere che di tante iniziative unga almeno sia stata realizzata e sia giunta fino a noi, sia pure anonima: un libro "figurato" di poesie latine in onore di Roberto d'Angiò ("regia carmina", secondo l'etichetta interna del testo). Ne diede per primo notizia il Melius, proponendo la candidatura di C. sul fondamento di dati non contestabili (seppure non decisivi): nell'opera si accenna a Benedetto XII (successore di Giovanni XXII nel dicembre 1334) come novus pontifex e a Roberto d'Angiò come in senio, mentre l'autore si autodefinisce "professor pratensis" e "vates terrigena Prati".
Si tratta di uno pseudopoema o meglio di un centone costituito di vari pezzi accozzati insieme secondo un ordine abbastanza casuale: circa 3.700 versi, in metri vari e non troppo canonici (specie esametri e leonini), intervallati da tre brani in prosa. Il tutto, in un intrico di figure e di parole, tra il cartiglio e l'emblema, con miniature che sono quasi dei "fumetti": illustrazioni, insomma, che fanno parte integrante del messaggio, indissolubilmente legate al testo (quindi, da riprodurre con assoluta fedeltà in un'eventuale edizione a stampa). Diverse e contrastanti sono le opinioni dei critici su questo singolare manufatto, ma solo due quelle sostenibili ancor oggi: quella del D'Ancona che non proponeva alcun nome, pur non ritenendo probabile - per ragioni cronologiche - che ne fosse autore C., e quella del Giani, il più fervido sostenitore di C., con argomenti di ordine contenutistico e strutturale ("Il Petrarca ci attesta anche che quei libri incominciati e non mai finiti, cioè pezzi, brani, o squarci, quei lavori incompiuti, erano mirabilium inscriptionum fregiati...; comunque si interpreti il mirabilium inscriptionum, io stimo più che sufficienti le altre parole del Petrarca a dimostrare che l'opera ... non è né può chiamarsi un poema e che non può essere di altri che di Convenevole"). Sono queste, in ultima analisi, le due soluzioni avallabili ancor oggi. Verso un ragionato scetticismo si orienta il Frugoni (C., tornato in patria dall'esilio nel '36 e morto nel '38, non avrebbe avuto il tempo di confezionare un'opera che risulta avviata a Prato sotto Giovanni XXII e conclusa sotto Benedetto XII); a favore di C. dopo lo Schlosser (che insistette sull'identità fra il poeta e l'artigiano delle illustrazioni), si è pronunciato il Piattoli, non senza un impietoso giudizio sulla qualità depressa dello "zibaldone".
Riassumiamo nei termini essenziali lo stato della tradizione dei regia carmina. Adespoti ed anepigrafi, ci sono giunti per testimonianza di tre codici della metà circa del XIV secolo: il 6.E.IX della British Library di Londra (L), il Ser. Nov. 2639 dell'Oesterreichische Nationalbibliothek di Vienna (V) e il II.I.27 (già Magliab. VII.17) della Nazionale di Firenze (F), nessuno dei quali descriptus dall'altro (L infatti è derivato direttamente dall'autografò, cui invece rimontano mediante un anello intermedio i collaterali V e F). Stilati da distinti amanuensì in tre varianti di una calligrafia gotico-cancelleresca (non riconducibile alla mano di C. nota attraverso l'unico autografo), vennero tutti e tre adomati da diversi miniatori, risalenti con proprie iniziative a un originale già figurato dall'autore o allestito sotto la sua guida diretta, non senza un calcolo esatto degli spazi da assegnare per ogni pagina ai vari elementi complementari. Si tratta dunque di un Bilderkodex di notevole valore iconologico, se non artistico, per la stretta connessione fra immagini e versi, che comporta un autore unico o almeno una solidarietà d'intenti e un lavoro di conserva fra poeta e miniatore.
Quanto al contenuto, esso si rivela improntato a una cultura genericamente "guelfa", per l'idea di un re "liberatore" protetto dalla Chiesa restaurata (che, diffusa entro la pubblicistica coeva anche in rima - come in Bindo di Cione -, ritornerà nelle canzoni politiche del Petrarca); ma più in particolare "avignonese", nel senso che vi domina il tema polemico dell'abbandono di Roma da parte dei pontefici transalpini (Benedetto XII e i predecessori Clemente V e Giovanni XXII), contrapposti a Pietro e agli apostoli: un tipo di religiosità ben noto in quell'epoca, che all'insofferenza contro gli abusi del clero corrotto e temporalizzato associava anche il richiamo per un rientro nell'unica sede legittima.
All'esordio, che ha movenze addirittura dantesche ("Urbs mea, Christus ait, sacro de sanguine fuso Martiribus sacrata iacct velut orba relicta. Urbs mea Roma caret nunc lumine frontis utroque..."), fanno seguito - dopo la profezia di una salvezza per merito di Roberto d'Angiò - le topiche personificazioni dell'Italia che invoca il Messia, di Roma che si lamenta per la perduta grandezza e di Firenze, figlia di Roma, che prefigura accanto al ritorno del Papato la soluzione di una monarchia italiana; infine, l'esortazione a Roberto ("Expectat Roma tua semper salubria poma ... unica spes gentis Itale, Rex, perge!") chiama in causa la città di Prato, che nel 1313 si era sottomessa alla sovranità del re angioino. Tale, l'esile filo di un discorso politico-profetico, che sembra smarrirsi attraverso prolisse digressioni (lodi di Cristo e di Dio, che chiamano in causa gerarchie angeliche e beati, rappresentazione delle virtù teologali e cardinali, inserti mitologici - con Ercole, Paride e Cassandra, le Grazie e le Muse -, la gloria delle arti liberali ecc.).
Proprio questa discontinuità- strutturale, unita alle ineguaglianze di tono e alla scarsa perizia tecnica, indurrebbe a dare un giusto peso al giudizio del Villani su C. ("vir mediocris poeseos peritus") e alla notizia petrarchesca della laurea poetica, - che in assenza di un'opera in qualche modo compiuta mal sarebbe giustificabile. È vero che l'ideale'guelfo di una sistemazione unitaria della penisola sotto Pegida del Papato rappresenta un tratto troppo generico per unidentificazione che fra l'altro non trova avallo in quanto sappiamo dei temperamento, non molto "politico", di C. attraverso i documenti noti. Tanto meno parlerebbe a favore di C. la datazione della stesura dei i regia carmina s, se però la sì consideri avvenuta in un solo tempo. E questo non è affatto scontato, per ammissione dello stesso Frugoni (e già del D'Ancona). In quel biennio '36-'37 C. avrebbe avuto tutto l'agio di ricomporre i suoi frammenti, scritti in momenti diversi, entro un quadro abbastanza organico, garantito anche dalla simbiosi con la struttura iconologica delle miniature. Sarebbe stata una trovata risolutiva, tale da consentire allo sterile maestro quest'unico approdo ad un libro; e ciò senza bisogno di ricorrere alla "cucitura" di altri, come il ser Duccio di Amadore evocato dal Giani.
In ogni caso l'attribuzione a C. del "poema" sembra allo stato dei fatti l'ipotesi più economica e suggestiva, con tutto che Petrarca mostri di ignorame l'esistenza. Se poi a questo merito si potesse aggiungere quello (adombrato dal D'Ancona) che C. abbia fatto conoscere al giovane Francesco certi poeti volgari - specie Dante, che nello zibaldone angioino risulta in qualche misura fruito, a così breve distanza dalla diffusione della Commedia -, la figura del seniculus ne riuscirebbe assai arricchita. Ma per autorizzare simile congettura occorrerebbe almeno una edizione critica dei "regia carmina", con commento il più possibile esaustivo.
Fonti e Bibl: Arch. di Stato di Firenze, pergamene del dono Bardi-Sergelli, cassetta Ia; F Petrarca, Familiares, XXIV, 1 e XXIV, Posteritati; Seniles, X, 2 e XVI, 1; F. Villani De Florentinis illustribus viris;L. Melius, Ambrosii Traversari Latinae' epistolae ... adcedit eiusdem Ambrosii vita, Florentiae 1759; A D'Ancona, C. da P. il maestro del Perrarca, in Id., Studi sulla letteratura italiana de' primi secoli, Milano 1891, pp. 105-147; E. Sicardi, La "guida" de'"Trionfi", in La Nuova Antologia, 16 nov. 1905, pp. 202-221; G. Giani, Ser C. da P. maestro del Petrarca, secondo nuovi documenti, Prato 1913; C. Segrè, IPrimi studi del Petrarca, in La Nuova Antologia, 16 marzo 1921, pp. 115-129; C. Calcaterra, in trod. a F. Petrarca, Trionfi, Torino 1923, p. XLIII; R. Piattoli, Per la biogr. di ser C. da P., in Atti e mem. della R. Accad. Petrarca, n. s., XIV (1933), pp. III ss.; J. von Schlosser, Poesia e arte figurativa nel Trecento, in La Critica d'arte, III (1938), pp. 81-90; G. Billanovich, Dal Livio di Raterio (Laur. 63, 19) al Livio dei Petrarca (B. M. Harl. 2493), in Italia medioevale e umanistica, II (1959), pp. 136, 139; Id., Nella biblioteca del Petrarca, I, Il Petrarca, il Boccaccio e le "Enarraticnes in Psalmos" di s. Agostino, ibid., III (1960), p. 1; Id., Epitafio, libri e amici di Alberico da Rosciate, ibid., p. 260; E. H. Wilkins, Vita del Petrarca, Milano 1964, pp. 15, 17, 31 s., 43, 321; G . Billanovich, Tra Dante e Petrarca, in Italia medioevale e umanistica, VIII (1965), pp. 5, 7, 18, 30, 42 s.; A. Frugoni, C. da P. e un libro figurato in on. di Roberto d'Angià, in Bull. dell'Ist. stor. ital. per il Medioevo e Arch. muratoriano, LXXXI (1969), pp. 1-32; R. Piattoli, Un autografo di ser C.. ibid., pp. 3345; A. Petrucci, L'autografo di C. da P. e l'educ. grafica di Francesco Petrarca, ibid., pp. 47-53; R. Piattoli, Tobia cugina di ser C., ibid., pp. 5582; F. Rico, Petrarca y el "De vera religione", in Italia medioevale e umanistica, XVII (1974), p. 337; R. Zucchi, Ottonello Descalzi e la fortuna del "De viris illustribus", ibid., p. 472; A. L. Redigonda, Albertini, Niccolò (Niccolò da Prato), in Diz. biogr. d. Ital., I, p. 734. Si v. inoltre la bibliografia implicita nei contributi di maggior rilievo, quelli del Giani e del Frugoni. Aggiungiamo in calce la notizia che è ora uscita l'edizione dei Regia carmina, introd., testo critico, traduzione e commento di C. Grassi, saggi di M. Ciatti e A. Peri, Prato 1982.