COLLEZIONISMO
A partire dalla formazione dei regni barbarici sui territori dell'Impero romano e per gran parte dell'epoca medievale le uniche collezioni di cui si abbia testimonianza sono costituite dai tesori appartenenti a principi o a istituzioni ecclesiastiche; in essi erano raccolti principalmente oggetti in oro e argento, pietre preziose, avori, sete e ricami intessuti d'oro, nonché reliquie di santi. Spesso si trattava di oggetti prodotti su ordinazione, come nel caso del grande piatto in oro e pietre preziose del peso di cinquanta libbre commissionato dal re Chilperico o dell'enorme scudo rivestito d'oro e di pietre preziose eseguito per volontà della regina Brunechilde, entrambi testimoniati da Gregorio di Tours (Hist. Fr., VI, 2; VII, 4; IX, 23). In altri casi ad alimentare le collezioni erano i bottini di guerra - soprattutto se con la morte dell'avversario il vincitore si appropriava del suo tesoro - oppure gli oggetti preziosi confiscati o donati, particolarmente frequenti questi ultimi nei tesori ecclesiastici. Per quanto riguarda invece le reliquie, a parte quelle dei santi locali di cui si conservava il corpo, esse furono oggetto di specifiche ricerche soprattutto a Roma e in Oriente.Il tesoro di un principe dipendeva solo in misura assai relativa dal gusto del proprietario: esso era innanzitutto una espressione visibile del suo potere e la ricchezza di una raccolta era direttamente proporzionale alla posizione sociale del possessore. In maniera analoga anche il tesoro di una chiesa non rifletteva il gusto del clero che la amministrava, quanto piuttosto la fama del santo cui era dedicata, che determinava di fatto la misura delle donazioni. In questo senso il tesoro ricopriva una funzione rappresentativa: in un'epoca che vedeva in ogni forma di successo un intervento diretto di Dio, esso sottolineava, testimoniando la prosperità del possessore, innanzitutto la protezione divina di cui godeva.La seconda funzione di un tesoro era legata alla sua capacità di poter essere convertito in caso di necessità in mezzo di pagamento: lungo tutto l'arco del Medioevo non mancano esempi di opere, anche di alto livello, che furono fuse o distrutte per recuperarne le parti in oro e le pietre preziose, scambiate con terreni o vendute per ricavarne denaro (Guiffrey, 1894-1896, II, pp. 340-341; van Werveke, 1932, pp. 456, 460-461); nonostante gli espressi divieti, la pratica della vendita e del pegno riguardò spesso anche le reliquie (Silvestre, 1952). Una terza funzione di un tesoro consisteva nell'offrire un luogo per la conservazione degli oggetti di culto, presi in prestito dal tesoro per cerimonie particolarmente importanti, nel corso delle quali venivano esposti agli sguardi dei partecipanti. Una componente essenziale dei tesori, tanto delle chiese quanto dei principi, era costituita dalle reliquie dei santi, dalle quali ci si aspettava la guarigione, la difesa contro i nemici e la prosperità.I tesori dei principi e delle chiese entravano a far parte di molteplici circuiti di scambio, primo fra tutti quello che collegava l'invisibile al visibile, l'aldilà con la realtà quotidiana. Era proprio il far parte di questo circuito che conferiva ad alcuni oggetti i poteri loro attribuiti, li rendeva di fatto degni di essere tesaurizzati e protetti e al tempo stesso di essere guardati e ammirati. Un secondo circuito di scambio era attivo tra il diritto di vedere gli oggetti e l'ammirazione che essi suscitavano, che si proiettava sul loro proprietario aumentandone il prestigio e, attraverso le offerte, la ricchezza. Un terzo circuito di scambio si stabiliva tra il possesso degli oggetti e cose che avevano valore d'uso, direttamente o per mezzo della moneta.I tesori medievali si distinguono per diversi aspetti dalle collezioni private note, da un lato, nella Roma antica e, dall'altro, nell'Europa a partire dal sec. 14°: si tratta infatti di collezioni senza collezionisti, non opera di singoli individui ma prodotto delle istituzioni. È pur tuttavia legittimo includere i tesori dei principi e delle chiese in una storia del c., poiché si tratta di insiemi di oggetti tolti temporaneamente o definitivamente dal circuito delle attività utilitarie, sottomessi a un particolare controllo ed esposti agli sguardi in opportuni luoghi protetti e all'origine, di fatto, sia delle collezioni private sia di quelle pubbliche dell'Europa moderna.A partire soprattutto dall'epoca carolingia in tutte le regioni europee i tesori si moltiplicarono, si arricchirono quantitativamente e si diversificarono sempre più: crebbe di conseguenza la domanda di oggetti che potevano prestarsi a essere tesaurizzati e di artigiani capaci di realizzarli, soprattutto gli orafi, che si riteneva esercitassero la prima delle arti manuali, in quanto trattavano materie preziose cariche di significati, che lo stesso Creatore aveva impregnato di luminosità (Gregorio di Tours, Hist. Fr., VI, 29; VII, 1; Panofsky, 1970, p. 33ss.). Nel Medioevo la materia era in realtà considerata più importante dell'arte con cui le opere venivano eseguite (Tommaso d'Aquino, In Metaph., V, 5, 10; VII, 2, 8; VIII, 3, 17) e gli stessi manufatti venivano sovente rifusi, a volte già poco tempo dopo la loro realizzazione, senza assegnare alcun valore al lavoro necessario per modellarli.In maniera analoga cresceva la richiesta di reliquie, particolarmente di quelle collegate alla vita terrena di Gesù o ai santi dei primi secoli del cristianesimo, e per far fronte a tale domanda, già a partire dall'epoca carolingia, si organizzò un vero e proprio traffico di corpi santi, che finì per portare alla proliferazione delle reliquie più singolari e di falsi, denunciati fin dal 12° secolo.L'interesse per le vestigia dell'Antichità non scomparve mai del tutto nel corso dell'Alto Medioevo ed esse sembrano essere state presenti nei tesori fin dall'età merovingia; all'epoca di Carlo Magno e dei suoi successori, e ancora nel periodo ottoniano, gli artisti poterono ispirarsi a opere antiche contenute nei tesori e si intensificarono i rapporti con Bisanzio e con l'Oriente, tradizionali riserve di manufatti artistici di epoca classica, avviando un processo che sarebbe culminato nei secc. 12° e 13°, con le crociate e con una generale rinascita di interesse per l'Antico. Sintomatico può essere considerato il caso di un vescovo inglese che fece trasportare da Roma nel suo paese alcune statue antiche (Adhémar, 1939; Panofsky, 1960), un episodio che a N delle Alpi appare isolato, mentre in Italia l'interesse per l'arte antica crebbe in maniera costante a partire dal 12° secolo.In questo fenomeno deve essere inquadrato anche il saccheggio di Costantinopoli operato dai crociati nel 1204; in quell'occasione vennero portati in Occidente il tesoro imperiale - parzialmente risalente al periodo romano, consisteva in pietre scolpite, cammei e intagli, vasi in pietre dure, avori, smalti, rilegature in metalli preziosi decorate con gemme, corone votive, reliquiari, sculture, icone, tessuti - e quelli di numerose chiese, prima fra tutte Santa Sofia.Il sacco del 1204 segnò una svolta importante nella storia dei tesori europei; a partire da quella data, infatti, cominciarono ad affluirvi oggetti di produzione bizantina o comunque passati per Bisanzio, innanzitutto le reliquie con i loro reliquiari, sottratte come bottino di guerra o rubate, inviate in dono dall'imperatore latino d'Oriente o dal clero latino, oppure acquistate malgrado i divieti.La conquista di Costantinopoli provocò inoltre un improvviso aumento della circolazione di cammei e pietre incise, in gran parte di produzione antica. La loro sporadica presenza nei tesori - in particolare come elemento decorativo di reliquiari o legature - sembra certa anche per l'epoca anteriore agli inizi del sec. 13°, ma gli esemplari sottratti al tesoro imperiale bizantino superavano per numero e qualità qualsiasi raccolta precedente, come testimoniano i grandi cammei di Saint-Sernin a Tolosa (Vienna, Kunsthistorisches Mus.), della Sainte-Chapelle a Parigi (Parigi, BN, Cab. Méd.) o le numerose pietre intagliate passate nelle collezioni medicee (Firenze, Mus. degli Argenti), alcune delle quali di sicura provenienza costantinopolitana (Dacos, Giuliano, Panuti, 1973). Per quanto riguarda la consistenza numerica, erano ca. cinquecentocinquanta le pietre intagliate del tesoro degli Svevi messo all'asta a Genova nel 1253 (Byrne, 1935) e ca. trenta i cammei in quello di Bonifacio VIII, il cui inventario risale al 1295 (Müntz, 1879). Nel sec. 14° se ne contavano a decine nei tesori dei re di Francia.Oltre che per il valore intrinseco della materia prima, le pietre incise attiravano l'attenzione anche per le immagini che recavano e che suscitavano talvolta la curiosità per i personaggi o le scene rappresentate. In alcuni casi le scene stesse venivano adattate, anche a prezzo di qualche ritocco, alla tradizione cristiana; tuttavia per es. l'autore dell'inventario del tesoro di Bonifacio VIII era consapevole del loro carattere pagano e identificava persino un personaggio con Ercole.Il grande numero di pietre incise presenti nei tesori principeschi dei secc. 13°-15° dimostra come queste fossero particolarmente ambite dai loro possessori e in tale dato è impossibile non cogliere il segno di un nuovo rapporto con gli oggetti, più personale che nel passato; si può interpretare in questo senso il fatto che quasi tutti i sigilli di Carlo V di Francia fossero costituiti da intagli antichi (Labarte, 1879). L'inizio della circolazione delle pietre rifletteva l'evoluzione del gusto dei proprietari di tesori e contribuiva a fare di essi dei collezionisti in senso proprio.A partire dagli inizi del sec. 14° vennero allestite nel Veneto le prime raccolte di monete antiche da artisti che a esse si ispiravano per mettere a punto i ritratti di imperatori romani destinati alle serie degli uomini illustri (Schmitt, 1974). Nel periodo in cui la repubblica veneziana arricchiva il patrimonio artistico della città collocando sulla facciata della basilica di S. Marco la quadriga bronzea sottratta a Costantinopoli e importando sculture, colonne e capitelli antichi, a Venezia circolavano anche opere antiche in bronzo o marmo, destinate molto probabilmente a essere vendute a importanti personaggi: la città lagunare era infatti passaggio obbligato per molti oggetti provenienti da Bisanzio, in particolare per i gioielli, che a Venezia erano venduti o lasciati in pegno, al pari delle reliquie con relativi reliquiari (Bertelè, 1962; Hetherington, 1983).Gli insiemi formati in questo modo non erano vere e proprie collezioni, ma si inserivano piuttosto nel circuito utilitario e commerciale: non stupisce tuttavia che proprio in un tale ambiente, che aveva dimestichezza con antichità di ogni genere, si sia formata la prima collezione privata di cui si abbia conoscenza, quella di Oliviero Forzetta (1300-1373 ca.), ricchissimo notaio di Treviso che pare essersi dedicato soprattutto al commercio di oggetti preziosi. Una sua nota del 1335 (Gargan, 1978) informa che esistevano all'epoca a Venezia collezioni di bronzi, marmi e monete antiche, mentre il suo testamento (1368) dimostra che egli aveva raccolto oggetti per più di trent'anni e che alla sua morte possedeva disegni, quadri e sculture quasi certamente antichi. Lo status sociale ed economico di Oliviero Forzetta lascia pensare che questi oggetti non fossero per lui né una merce né strumenti di lavoro. Egli, che possedeva peraltro una biblioteca sorprendentemente vasta con numerosi testi di autori classici, fu quindi un vero collezionista, il primo noto di tipo moderno. Né principe, né membro della gerarchia ecclesiastica, ma semplice privato che creò una collezione per il proprio interesse, egli restò comunque un caso isolato, il cui esempio non sembra essere stato seguito né in vita, né dopo la morte; pur essendo un uomo importante a Treviso non era infatti conosciuto in altre città e in ogni caso non avrebbe avuto né l'autorità sufficiente per imporre una simile innovazione culturale, né riferimenti letterari che la legittimassero.Il ruolo di vero e proprio iniziatore di collezioni private deve quindi essere probabilmente assegnato a Francesco Petrarca (1304-1374), lettore di Plinio il Vecchio - assente dalla biblioteca di Oliviero Forzetta -, che non solo si interessava alla scultura antica, alle iscrizioni e soprattutto alle monete antiche, che collezionava insieme ai dipinti (possedeva opere di Simone Martini), ma che inoltre era una celebrità in Europa, interlocutore privilegiato di numerosi principi, e quindi nella giusta posizione per conferire a se stesso e ai suoi gusti la dignità di un modello da seguire, che sarebbe stato effettivamente imitato dai collezionisti umanisti.Sempre nella seconda metà del sec. 14° un altro modello di grande collezionista è rappresentato da Carlo V (1338-1380), re di Francia dal 1364, la cui figura segna la trasformazione del tesoro principesco in collezione privata e quella del proprietario del tesoro stesso in collezionista. Attento raccoglitore di preziose opere d'arte fin da giovane, nel 1369 fu costretto a inviare la sua prima collezione, inventariata sei anni prima, alla zecca per ricavarne il denaro necessario a finanziare la guerra contro gli Inglesi. L'inventario della seconda collezione - compilato tra il gennaio 1379 e il maggio 1380 e composto da ca. tremilanovecento numeri, alcuni dei quali rimandano a svariati oggetti - inizia con una classificazione metodica dei pezzi raccolti nel castello di Melun (Labarte, 1879): tali oggetti appaiono suddivisi gerarchicamente per materia e per funzione; più questa è importante, più la materia è preziosa. Questo ordine non viene più rispettato nella seconda parte dell'inventario, che descrive gli oggetti come si presentavano nei differenti luoghi in cui erano conservati. I più numerosi tra questi riguardavano opere di oreficeria: statuette, gruppi di figure, bassorilievi in metallo, reliquiari, scatole, candelieri in oro, argento, con o senza pietre, in avorio, in cristallo o in smalto. A essi si aggiungevano le reliquie - in particolare quelle di santi, menzionate cinquantacinque volte -, nonché gli oggetti appartenuti a s. Luigi e a grandi uomini del passato, tra cui l'imperatore Costantino, Dagoberto, Carlo Magno e Goffredo di Buglione. La collezione comprendeva inoltre varie curiosità: un mappamondo, alcuni astrolabi, bussole, orologi, oggetti in noce di cocco e uova di struzzo, monete esotiche o antiche. Non mancavano infine i quadri, i manoscritti miniati e gli arazzi.Dall'insieme degli oggetti raccolti e in particolare dalle curiosità sparse nei differenti studi del re si evince chiaramente che la collezione non costituiva più una semplice manifestazione del potere, ma era anche espressione degli interessi, dei gusti e della volontà individuali. Ciò risulta ancora più evidente a proposito di un gruppo di oggetti descritti in un altro inventario, redatto direttamente da Carlo V nel gennaio del 1379, in cui sono elencati tutti i preziosi manufatti contenuti nelle casse di cui il re conservava personalmente la chiave e che faceva viaggiare sempre al suo seguito (Labarte, 1879, nrr. 481-774); tali casse costituivano con ogni evidenza la sua collezione personale, composta essenzialmente di anelli con e senza pietre, di sigilli, di cammei antichi e di altri oggetti strettamente legati alla persona del sovrano: acquisti, regali ricevuti, ricordi, talismani, pietre guaritrici e alcune reliquie.Il processo di dissociazione dei concetti di tesoro - inteso come strumento e manifestazione del potere, composto di oggetti liturgici e da cerimonia in materie preziose che possono all'occorrenza essere mandati alla zecca o lasciati in pegno - e di collezione personale - i cui pezzi non hanno altra funzione se non quella di essere esposti agli sguardi - è ancora più sensibile con Jean de Berry (1340-1416; Guiffrey, 1894-1896) e con i duchi di Borgogna, che ammassarono enormi raccolte (Prost, Prost, 1902-1913). Tale processo giunse tuttavia a compimento solo con la promozione al rango di oggetti da collezione per eccellenza delle antichità - pietre intagliate, monete, iscrizioni, statue -, dei quadri e delle sculture contemporanei, delle curiosità naturali ed esotiche. Contrariamente a quelli raccolti fino ad allora nei tesori, questi oggetti non erano realizzati, salvo eccezioni, con materie preziose e non erano quindi direttamente trasformabili in denaro. Il loro valore non risiedeva perciò nella materia prima impiegata, ma nella quantità e qualità del lavoro necessario per conferire loro il proprio aspetto definitivo e non potevano essere scambiati con denaro contante se non quando si fossero trovati amatori disposti ad acquistarli.
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