CLIENTI (lat. clientes)
Sono così chiamate in Roma le persone che, pur godendo dello status libertatis, e non essendo perciò confondibili con gli schiavi, si trovano in rapporto di dipendenza da un patronus che assicura loro la sua protezione. L'istituto, che in epoca repubblicana avanzata aveva già perduto gran parte della sua efficienza e nell'impero è ridotto ad una relazione puramente sociale, ebbe un'importanza di prim'ordine nell'organizzazione primitiva. Suo fondamento è la fides, cioè l'affidamento (in fidem se dedere) che una persona o ente in condizioni d'inferiorità fa di sé medesimo a un cittadino di pieno diritto, e più spesso a una gens. Ciò avviene, secondo la tradizione, in più modi: ad es., affrancazione di schiavi, finché non furono stabilite le forme e gli effetti delle manomissioni; volontaria applicatio del cliente, la quale può avere a sua volta scopi varî. Ma la più larga fonte della clientela, anche individuale, fu sempre la deditio: il territorio tolto ai nemici non veniva rilasciato ai singoli proprietarî, ma si trasformava in ager publicus riservato all'occupazione delle genti; pertanto, al residente che volesse continuare a vivere sul fondo non era dato altro mezzo che di assoggettarsi al patronato della gens che vi s'insediava, ottenendone la concessione del terreno in precarium e riducendosi in condizione di cliente.
Contrapposta al patriziato e da esso dipendente, la clientela è spesso dagli antichi identificata con la plebe: identificazione molto discussa nella scienza moderna, ma perfettamente corretta per chi ritenga che la città del Settimonzio sia stata fondata dagli Etruschi dopo la sottomissione dei primitivi pagi latini stanziati sul Palatino e sull'Esquilino. In tale ipotesi, quei Latini dovettero impetrare la concessione precaria delle terre allo stesso modo che fu poi praticato dagli altri nemici sconfitti. Ma poi l'identificazione fra clientela e plebe venne meno: e infatti il patriziato, asserragliatosi in casta chiusa, non poté coprire con le sue occupazioni le vaste estensioni territoriali che le guerre vittoriose mettevano a disposizione della città, né le terre già occupate furono a lungo sufficienti alle feconde stirpi plebee; onde il nuovo sistema di assegnare in piena proprietà ai plebei stessi, piccoli lotti. Questo nuovo sistema non soppiantò l'antico a un tratto, ma entrambi convissero qualche tempo: perciò accanto alla tradizione che identifica plebei e clienti ve n'è un'altra che li separa e contrappone, come quando si narra di guerre combattute, per renitenza dei plebei (intendi, dei plebei liberi proprietarî), soltanto dai patrizî e dai rispettivi clienti.
In ogni modo, la decadenza del patriziato e la libertà di azione che una parte sempre maggiore della plebe veniva acquistando eliminarono questa forma di servitù della gleba. Non perciò l'istituto scomparve del tutto: a parte le sopravviventi applicazioni agli stranieri e comunità peregrine (ad es. nell'ipotesi di accusa contro magistrati romani per estorsioni commesse in provincia), buona parte delle regole della clientela sopravvive nei rapporti fra liberto e patrono.
Uno spunto di definizione della clientela ci è dato nei primordî dell'impero, da Proculo, Dig., 49, 15, 7, 1: Clientes nostros intellegimus liberos esse, etiamsi neque auctoritate neque dignitate neque viribus nobis pares sunt. La dichiarazione, che pone le differenze piuttosto in una valutazione politico-sociale che non nella capacità giuridica, risente indubbiamente della degenerazione dell'istituto, quando i clienti si erano ridotti a galoppini e parassiti dei patroni: ma tuttavia non è da credere che Proculo abbia trascurato i dati fondamentali della clientela antica. Soprattutto non è accettabile l'opinione secondo la quale i clienti sarebbero stati destituiti, come tali, di ogni capacità di diritto pubblico e privato. Per quanto lontano risalgano le memorie, la capacità giuridica trova la sua base negli status, e principalmente nella civitas libertasque: soltanto quando tali condizioni mancano, come nel caso di patronato su stranieri e su comunità peregrine, il cliente è incapace. Che, ad es., sia vietato il matrimonio tra patroni e clienti, è un'applicazione del divieto generale delle nozze fra patrizî e plebei (v. canuleia, legge), e non toglie che siano valide le nozze fra clienti, o fra clienti e plebei liberi proprietarî; e quanto alla potestas spettante ai patroni, va intesa come un potere di contenuto variabile, connesso alle varie occasioni nelle quali il rapporto si contrae, e limitato a quanto occorre per raggiungere il fine. Lo stesso si dica quanto alla capacità di diritto pubblico: la storia di essa si confonde, in buona parte, con quella delle rivendicazioni plebee; ma di una differenza fra plebei clienti e plebei liberi agricoltori non si ha traccia, e certo in epoca atorica vigeva anche in questa materia il principio romano, per cui il godimento dei diritti politici è del tutto indipendente dalle potestà familiari. D'altronde, il recipere aliquem in fidem importa anche per il patrono degli oneri; in genere, egli ha l'obbligo di garantire al cliente quei vantaggi in vista dei quali ebbe luogo l'applicatio. Una sanzione contro il patrono inadempiente non esisteva in origine; ma nella legge delle XII tavole anche quest'obbligo ebbe la sanzione tipica dei patti conclusi fra i due ordini della cittadinanza, la sacertà: patronus si clienti fraudem fecerit, sacer esto.
Bibl.: B. G. Niebuhr, Römische Geschichte, 2ª ed., Berlino 1827, II, p. 335 segg.; N.-D. Fustel de Coulanges, La cité antique, Parigi 1864, p. 291 segg. e passim; Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, III, Lipsia 1883, passim; id., Römische Forschungen, I, p. 366; H. Genz, Das patricische Rom, Berlino 1878, p. 15 segg.; G. Merlin, Essai sur la clientèle romaine, Nancy 1889; R. Jhering, Geist des röm. Rechts, I, 2ª ed., Lipsia 1866, p. 236 segg.; Em. Sebastian, De patronis coloniarum et municipiorum, Halle 1884; A. v. Premerstein, Clientes, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IV, col. 23 segg.; K. J. Neumann, Die Grundherrschaft der römischen Verfassung, Strasburgo 1900; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, p. 226 segg.; P. Bonfante, Storia del diritto romano, 3ª ed., Milano 1923, I, p. 67 segg.; W. Soltau, Grundherrscahft und Klientel in Rom, in Neue Jahrbücher, XXIX (1921), p. 389 segg.; P. De Francisci, Storia del diritto romano, I, Roma 1926, p. 172 segg.