BONDI, Clemente Donnino Luigi
Nacque il 27 giugno 1742 nel villaggio di Mezzano Superiore (e non Mozzano) in provincia di Parma, da Ranuccio e da Lisabetta Gennari: una modesta famiglia che viveva di piccolo commercio e della coltivazione di un piccolo podere. Mortogli il padre, fu accolto sui dodici anni da uno zio economo del seminario di Parma e mantenuto qui agli studi (ebbe come maestro di umanità e retorica il padre Angelo Berlendis), fino a quando entrò nella Compagnia di Gesù, il 16 ott. 1760. Negli anni seguenti continuò gli studi nel Modenese prima, nel collegio di S. Lucia e in quello de' Nobili di S. Francesco Saverio a Bologna poi; nel 1765 sembra fosse incaricato di insegnare grammatica nel collegio della Compagnia di Padova.
Quando nel 1773 fu soppressa la Compagnia, "in uno di quei momenti in cui l'impeto di un giusto dolore previene la riflessione", scrisse la celebre canzone allegorica a Gaspare Gozzi, nella quale trovano eco tutte le invettive dei gesuiti contro Clemente XIV; la canzone circolò manoscritta, fu stampata a insaputa dell'autore, da alcuni attribuita al Bettinelli; qualche anno dopo rispose ad essa il Monti, con una canzone circolata anch'essa manoscritta. Questo episodio non mancò di procurare al B. i malumori dei ministri spagnoli: secondo il Pezzana, egli dovette ritirarsi per un breve periodo nel Tirolo (c'è stato anche chi ha detto nei dintorni di Genova), finché tutto non venne dimenticato.
Son di questi anni anche altre sue prime prove poetiche impegnative: una tragedia, Il Melesindo, scritta "per servire ai passatempi carnevaleschi di uno dei più rinomati collegi d'Italia" e rappresentata con successo a Bologna; e, in una pausa della composizione della tragedia, il poemetto in ottave La Giornatavillereccia (citata anche come Asinata), nel quale racconta con "una cert'aria di lepido non plebeo, misto, e, dirò così, travestito di una nobile serietà" un'allegra scampagnata dei convittori del collegio di S. Francesco Saverio.
Dopo un nuovo brevissimo soggiorno a Padova, dove fu precettore nella famiglia dei conti Da Rio, fu a Parma e a Venezia, e si stabilì infine a Mantova in qualità di bibliotecario presso i nobili Zanardo, che lo accolsero con alta stima e amicizia; là poté anche frequentare un ambiente di persone colte, fra le quali brillavano altri ex gesuiti quali l'Andres, il Bettinellì, il Mari, il Vettori.
Fu questo uno dei periodi più fertili dell'attività poetica del B., il quale, oltre a una varia produzione di sonetti e anacreontiche, si dedicò soprattutto ai poemetti descrittivi e satirici, ricalcando la formula già sperimentata con La Giornata villereccia: nel 1775 scrisse, in due canti di ottave, La felicità (un'ennesima esaltazione del mito del "buon selvaggio", semplificata nella facile contrapposizione dell'età primitiva, quando Felicità regnava sulla terra, all'età moderna, dominata da Errore e Disinganno); nel 1777, gli endecasillabi sciolti La Moda (anche qui una contrapposizione fra i genuini popoli primitivi e le corrotte genti d'Europa, in particolare d'Italia, schiave dei capricci della Moda: un contenuto moralistico, che si svolge in una serie di descrizioni di costume, spesso condotte con minuzia da poeta didascalico); nel 1778, Le Conversazioni, anch'esse in endecasillabi sciolti, palesemente derivate dal Giorno del Parini, ma caratterizzate da una puntigliosità caricaturale ed antimodernista che toglie alla satira il valore morale e sociale del modello maggiore (anche questo poemetto si conclude con una celebrazione della sanità e semplicità della vita campestre); infine, nel 1784, L'incendio, nel quale racconta un incidente occorsogli mentre si trovava per una partita di caccia nella villa di Palidano dei conti Zanardi, in questa stessa villa scrisse anche una anacreontica di contenuto scatologico, che restò però un episodio isolato nella sua carriera poetica (La Cacajuola, pubblicata a Venezia nel 1808). Contemporaneamente veniva pubblicando le prime raccolte di versi, destinate a una non comune fortuna di ristampe e riedizioni: dalla prima del 1776 (Padova), con una breve introduzione che già compendia i principî, rimasti immutati, della sua poetica: "Giudicate i miei versi su la maniera del dire ma non crediate troppo a tutto quello che dicono...", a quella del 1778 (Venezia) comprendente anche i primi tre poemetti e ristampata lo stesso anno a Padova, alle molte riedizioni - più o meno legittimate - immediatamente successive.
Recatosi a Milano con il balì fra Gaetano marchese Valenti Gonzaga (non si sa esattamente in che anno, ma dev'essere intorno al 1790), vi conobbe l'arciduca Ferdinando e la consorte Beatrice, che lo accolsero con tanta simpatia da convincerlo a trasferirsi presso di loro.
Abbandonato ormai il genere satirico (a un certo punto, ma non è chiaro in che anno, scrisse anche dei versi Su la inutilità dellesatire, nei quali sostenne l'opportunità di insistere più che sulla rappresentazione dei vizi del tempo sulla esaltazione delle virtù), egli, pur continuando a comporre sonetti occasionali e di maniera, preferì alternare a brevi liriche di argomento amoroso composizioni varie di contenuto religioso e morale: del 1792 è l'Orazione funebre nelle solenni esequie di Leopoldo II (Mantova); del 1794 l'Orazione accademica sopra Maria Vergine Assunta inCielo (di un'altra Orazione in lode di S. Luigi Gonzaga non si conosce la data esatta), sei Cantate di argomento amoroso, di derivazione metastasiana, e la canzonetta malinconica Il congedo della gioventù; nel 1795 Il Matrimonio. Sonetti XII morali.
Quando nel 1796 l'arciduca riparò a Brunn, non si dimenticò del fine gesuita da lui protetto: l'anno seguente egli lo volle alla sua corte e gli affidò l'incarico a vita di custode della biblioteca di Beatrice; per un certo periodo ebbero residenza a Neustadt, poi si trasferirono lontano dalla capitale durante le guerre del 1805 e del 1809, e infine dal 1810 si stabilirono definitivamente a Vienna, dove il B. rappresentò l'ultima figura di poeta cesareo.
Negli anni viennesi la sua produzione poetica fu piuttosto limitata. Poiché circolava in Italia un'edizione molto scorretta delle sue poesie in sei volumi (Venezia 1798), ne curò egli stesso una raccolta completa, in tre volumi, da considerarsi definitiva per tutto quel che riguarda le sue opere fino a quell'anno (Vienna 1808); e un'altra raccolta d'altro genere curò nel 1814, quando pensò di riunire in un volumetto le sue brevi ed episodiche rime epigrammatiche e moraleggianti, intitolandole Saggio di sentenzee proverbii epigrammied apologhi seriie scherzevoli, tutte ispirate da un ovvio buon senso e da una morale convenzionale e gradevolmente superficiale; dell'Essaisur la flatterie, nominato anche dal Pezzana perché inviato dal B. a C. Belli nel 1811, non è ancora stato possibile rinvenire il testo. Ma in verità la sua attività più intensa e più interessante fu, fin dagli ultimi tempi del soggiorno a Mantova, quella del traduttore: dal 1790 al 1793 era uscita in due volumi l'Eneide (Parma), nel 1800 le Georgiche (Vienna), nel 1806 le Metamorfosi di Ovidio (Padova), nel 1811 le Bucoliche (Vienna); ognuna di queste traduzioni è preceduta da interessanti pagine teoriche.
Afflitto da diversi anni dalla gotta e da una crescente diminuzione della vista, morì a Vienna d'idropisia il 20 giugno 1821.
All'edizione viennese delle sue poesie il B. premetteva queste parole "Queste poesie non offrono né filosofiche né politiche né verun'altra di quelle che si dicono serie meditazioni... Figlie di un ozio pacifico e di una libera immaginazione e serena tutte o la maggior parte risentonsi, e nelle immagini e negli argomenti, della tranquillità dei tempi e dell'animo in che furono composte". Così poteva scrivere un letterato che, come notò il Croce, era passato attraverso eventi quali la Rivoluzione e le guerre napoleoniche, rimanendone del tutto estraneo, e contrapponendo allo svolgersi drammatico della storia e a tutti i problemi del progresso scientifico e civile un mondo arcadico imperturbabile anacronistico, un classicismo tutto chiuso nel vagheggiamento di belle forme e nell'espressione di sentimenti sereni appena animati da qualche leggera ombra di tristezza (con delicate riflessioni sul rapido trascorrere del tempo e sulla fugacità e illusorietà del piacere, che spiegano la simpatia del Leopardi e il largo spazio riservatogli nella Crestomazia, oltre a certe risonanze di suoi versi notata dal Binni nel Sabato del villaggio e nella Quiete dopo latempesta). L'unico momento di passione l'ebbe quando la soppressione della Compagnia sembrò compromettere quella tranquillità, ed allora uscì in improvvisi versi violenti, che stupirono tutti e che sembrarono imprevedibili anche al Gioberti sulla bocca di chi "era pur uno di quei padri lindi e attillati, che sapevano all'occorrenza far versi galanti"; altrimenti, il suo tono si altera soltanto quando condanna la filosofia venuta di Francia (come nel sonetto A celebre Scrittore sacrosu la lettura dei libri: un "Gallico fiume" inonda l'Italia con la sua "corrente immonda", che copre di fiori "l'impura feccia"; o come nel ritratto di Aristippo nelle Conversazioni, dove i termini "materia, moto, ente, irresistibile natura, società" son detti "pomposi nomi, e vuoti del giusto senso", e gli scrittori francesi "insidiose serpi"), o quando si scaglia contro i mali del secolo, per contrapporre alla civiltà il mito del "buon selvaggio", un ritorno alla natura come rifugio unico dalla corruzione del mondo presente. Per il resto - e non esita a ripeterlo esplicitamente più di una volta - i contenuti gli sono indifferenti: si tratti di uno svago di collegiali, o delle passioncelle di Nice e Filli (il Pezzana lo definì "il poeta prediletto del bel sesso dopo Metastasio"), o di ritrovati moderni (i due celebri sonetti l'Orologio e Nice elettrizzata), o della moda, o dei salotti, quel che gli importa è il decoro tutto esteriore dell'espressione (e non stupisce, se è vero che lo pronunciò, il giudizio formulato su di lui dal Parini al Ticozzi: "So pur troppo che il mio Giorno ha fatto e farà cattivi scolari!"). Accadde così che egli trovò i suoi momenti migliori nelle descrizioni minuziose (il Croce lo definì un "talento di descrittore"), che gli valsero la definizione di "Delille degl'Italiani" e nelle quali riuscì a ingentilire il genere didascalico tradizionale esercitando liberamente la sua perizia stilistica nel ritrarre in punta di penna (siamo all'opposto del realismo omerico) singole figure o singole azioni anche banali: la preparazione della polenta e del caffè nella Giornata villereccia, la temperatura della penna per scrivere, le toilettes, i molti ritratti e paesaggi delle Conversazioni e di altri componimenti (il Carducci definiva le Conversazioni una "lungheria ciclica mai composta d'oggetti", ma affermava che "nel particolare i ritratti sono accuratamente studiati e disegnati"). Era quindi naturale che la sua poesia si esaurisse nel volgere di poco più di un decennio e che egli trovasse poi nella traduzione la forma letteraria più congeniale. Il problema che egli si pone di fronte ad essa è soprattutto di natura formale: il traduttore riceve dal poeta originale "il pensiero nudo" e deve come ricrearlo secondo "l'indole della nuova favella". Delle due forme di fedeltà possibili, alla lettera e allo spirito, la prima è la più infedele, mentre l'altra è "una specie d'imitazion creatrice", la quale "raddoppia l'originale" facendo in modo che il lettore quasi dubiti "a quale delle due lingue il Poema originariamente appartenga"; per questo tutte le cure del traduttore dovranno rivolgersi alla sua propria lingua, badando di non contaminarla con forme sintattiche ed elementi lessicali non suoi, e facendo in modo che si svolga armonicamente senza soggiacere a nessuna costrizione (né la rima, né l'impossibile pretesa di un'esatta corrispondenza dell'endecasillabo con l'esametro). Ma per ben tradurre è necessario soprattutto che non esistano differenze "di anima" ossia "di carattere e temperamento" fra il tradotto e il traduttore; proprio questa differenza è stata la prima ragione dei difetti della traduzione del Caro. Il risultato della presunta consonanza del B. con Virgilio fu una lettura corretta ma incolore del poeta latino, ridotto nelle dimensioni, di un monotono elegiaco e didascalico del Settecento (per esempio gli sfuggì completamente il valore ideologico delle Georgiche, interpretate come una semplice "lezione di precetti" e una gran prova di stile, una veste ricamata a piccoli fiori in confronto al grande arazzo dell'Eneide), e un'altrettanto incolore lettura di Ovidio, emendato dei luoghi che potevano offendere la morale corrente: anche in queste traduzioni, che ad alcuni sembrarono superare il precedente illustre del Caro, i risultati migliori sono ottenuti sul piano del calligrafismo descrittive, sì che esse ci si presentano come una naturale prosecuzione dell'opera precedente. E quell'unità di tono e di ritmo da lui teorizzata si risolse troppo spesso in una grave monotonia: se ne avvide il Caluso ("il B. mi riesce per voler esser sostenuto un po' monotono, non è senza borra, e per fatto della lingua è al Caro inferiore"); se ne avvide il compilatore della Bibliothèque Universelle, che gli rimproverava "la cantillation monotone de ses vers blancs"; ed il Maffei, infine, il quale trovava in quelle traduzioni una mancanza di "maestria" e di "dignità di dire poetico".
Fonti e Bibl.: Vari manoscritti del B. (lettere e poche poesie) sono sparsi nelle seguenti biblioteche: Padova, Museo Civico (Mss. aut., fasc. 61; C. M. 658. VII); Ibid., Bibl. del Seminario, cod. DCCLXXIII, tomo I, 119-23. D. 4; 509. DCXVI; Milano, Bibl. Ambrosiana, A. 48; Parma, Bibl. Palatina, Carteggio Bodoni, cass. n. 33; cass. n. 61; Ibid., Misc. Parm., A. 884; Ibid., Carteggio Framm., cass. n. 152; Modena, Bibl. Estense, AutografotecaCampori; Reggio Emilia, Bibl. Municipale, Mss.Vari, A. 17-16; A. 31. 42; A. 31. 34; Forlì, Bibl. Com., Fondo Piancastelli, Ritratti, n. 5; Bologna, Bibl. Univ., Ms. 1496, busta IV, 16; Ms. 74, busta IV, 45; Bibl. dell'Archiginnasio, Ms.Santagata, XVIII, 2, Collez. aut., IX, 2675, Ms. B. 203, n. 26; Roma, Bibl. Apost. Vat., Ferrajoli 119; 585, 9; 940, 14; Ibid., Vat. Lat. 9677, f. 91r; Vienna, Nationalbibl., Aut. 1/70. Il Pezzana inoltre segnala altri inediti, di cui non si hanno notizie: numerose lettere a Carlo Belli (conservate un tempo presso i conti Giovanelli di Venezia) e allo Spallanzani, un Discorso intorno lo stile, varie poesie, una traduzione dell'Athalie di Racine, varie traduzioni di poeti francesi fatte a Salò nel luglio 1796. La fonte più attendibile e più ricca di notizie sulla vita e sulle opere del B. è nelle Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, raccolte dal padre Ireneo Affò e continuate da A. Pezzana, VII, Parma 1833, pp. 491-516; di quest'opera esiste nella Bibl. Palatina di Parma un esemplare (Direzione, B) prezioso, con numerose aggiunte e rettifiche autografe del Pezzana stesso, delle quali si è potuto tener conto in questa sede. Vedi inoltre M. Cesarotti, Epistolario, IV, Pisa 1813, p. 225 (lett. al Cesarotti, 5 ott. 1805); A. Pezzana, Intorno a C. B. parmigiano,Epistola, Parma 1821; P. A. Paravia, C. B., in Opuscoli vari, Torino 1832, pp. 225-229; Id., Lett.ined. d'illustriital., Verona 1833 (lettera a Carlo Belli); Lett.ined. di C. B., Padova 1841 (nove lett. a Girolamo Mometti Da Rio, dal 1791 al 1818); C. Pariset, C. B. e suo carteggio inedito con G. B. Bodoni, in La Romagna nella storia,nelle lettere e nellearti, II (1905), pp. 224-252 (otto lett. a G. B. Bodoni, una a Paola Margherita Bodoni, una al Blanchon). Poesie del B. si leggono in varie antologie, soprattutto ottocentesche, fra le quali ci limitiamo a ricordare la Crestomazia italiana poetica di G. Leopardi, Milano, Stella, 1828 (ora nella nuova ediz. Einaudi a cura di G. Savoia, Torino 1968); fra le più recenti: Poeti minori delSettecento, a cura di A. Donati, II, Bari 1913, pp. 185-250; G. Parini, Poesie eprose con app. di poeti satirici e didascalicidel Settecento, a cura di L. Caretti, Milano-Napoli 1951, pp. 771 ss.; Liricidel Settecento, a cura di B. Maier, Milano-Napoli 1959, pp. 441 ss. Per la critica: G. Andres, Dell'origine,progressi e statoattualed'ogni letteratura, Parma 1785, II, p. 189; Mem. perservire alla storia letteraria e civile, sett.-ottobre 1799, pp. 50 ss.; G. De-Coureil, in Opere, Pisa 1818, vol. I, pp. 59 ss. (sei lettere a L. Bramieri "sopra le traduzioni dell'Eneide del Caro e del B."); S. De Sismondi, De la littérature duMidi de l'Europe, III, Paris 1813, pp. 78-80; Lettera del sig. G.Carpani al sig.G. Acerbiconcernente la morte delpoeta C. B., Vienna 24 giugno 1821, in Bibl. ital., XXIII (1821), pp. 138-143; G. Maffei, Storia dellalett. ital. dall'origine della lingua ai nostri giorni, Milano 1834, IV, pp. 106-8; C. Vannetti, L'educazione letteraria del bel sesso, Milano 1835, pp. 1823; Lett. ined. di C. Vannettiroveretano e diI. Pindemonte veronese, Verona 1839, p. 94 (lett. del 12 marzo 1794); E. De Tipaldo, Biografia degli Italiani illustri…, VII, Venezia 1840, pp. 299-302; V. Gioberti, Ilgesuita moderno, Ediz. naz. delle Opere, Milano 1940-41, vol. IV, pp. 102-103; G. Carducci, Ed. naz delle Opere, XVI, Bologna 1944, pp. 256 s., 356 s.; XVII, ibid. 1944, pp. 174, 196, 229; G. Agnelli, Precursori e imitatori del Giorno di G. Parini, Bologna 1888, pp. 68-74; E. Bertana, L'Arcadia della scienza. G. Gastone DellaTorre Rezzonico, Parma 1890, passim; Ch. Deiob, Les femmesdans la comédiefrançaise et italienneau XVIIIesiècle, Paris 1899, pp. 381 s.; L. De Mauri, L'epigramma italianodal Risorg. dellelettere ai tempi moderni, Milano 1918, pp. 136-141; A. Ottolini, Una canzonetta del Parini sconosciuta, in Arch. stor. lombardo, s. 5, XLVIII (1921), n. 1, pp. 185-90 (con un abbaglio, l'Ottolini attribuisce al Parini la canzonetta Il Laberinto che è del B., come fu facilmente precisato da A. Foresti, La canzonetta "Il Laberinto" restituita al suo autore,ibid., XLIX (1922), n. 1, pp. 408-11; F. Baldensperger, Le poète B.et Jacques Delille, in Revue delittérature comparée, III (1923), pp. 111 s. (brevissima nota, limitata alla citazione dei Souvenirs di M.me di Montet); C. Pariset, Polenta con gli uccelli, in Aurea Parma, XI (1927), pp. 281-5; B. Croce, Verseggiatori del gravee del sublime, in La letter.ital. del Settecento, Bari 1949, pp. 352-62; Id., C. B., ibid., pp. 363-74; G. Natali, Il Settecento, Milano 1950, pp. 721-22; W. Binni, Classicismo e neoclassicismonella letteratura del Settecento, Firenze 1963, p. 150; B. Maier, Ilneoclassicismo, Palermo 1964, passim; W. Binni, IlSettecento letterario, in Storia della lett.italiana, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, VI, Milano 1968, p. 527. Per la risposta del Monti alla canzone sulla soppressione dell'Ordine: G. Pecci, Una canzone inedita di V. Monti, in La Romagna, XII (1923), pp. 170-78.