CESARIO
Terzo figlio maschio di Sergio e di una nobildonna, Drosu, nacque probabilmente a Napoli nella prima metà del sec. IX - ignoriamo la data esatta - da una delle più antiche e ragguardevoli famiglie partenopee del tempo.
Sua madre apparteneva infatti, secondo quanto afferma l'anonimo autore della Vita Athanasii episcopi Neapolitani, a stirpe di principi. Suo padre si era messo in luce, più come diplomatico e uomo politico che come guerriero, al tempo delle lotte contro il principe Sicardo di Benevento (settembre 832-luglio 839), svolgendo ruoli di un certo rilievo nella vita politica cittadina ed amministrando missioni diplomatiche presso i sovrani franchi Ludovico il Pio e Lotario. Nei primi mesi dell'840 era stato eletto a succedere, come console e duca di Napoli, al franco Contardo scomparso tragicamente, dopo appena due settimane di governo, vittima di una congiura. Fratelli di C. furono il pio Atanasio, poi vescovo di Napoli primo di questo nome; Gregorio, collega del padre, in un primo tempo, e poi del fratello maggiore nella direzione del ducato; e Stefano, più tardi vescovo di Sorrento.
Il nome di C. ricorre per la prima volta nei documenti a noi noti in relazione ad avvenimenti accaduti nell'autunno dell'846. Le bande arabe che, sbarcate il 23 agosto di quell'anno ad Ostia, avevano corso predando le campagne intorno a Roma e spogliato le basiliche extramuranee di S. Pietro e di S. Paolo (25 agosto), una volta costrette a ripiegare sotto la pressione delle milizie della Campania romana, si erano dirette verso sud, seguendo la via Appia e sottoponendo a selvagge devastazioni i territori da loro attraversati (Fondi fu quasi completamente distrutta); raggiunta Gaeta, città di dominio partenopeo, l'avevano cinta d'assedio (settembre). Là vennero affrontate da un corpo d'esercito franco, inviato col compito di sbloccare la città assediata. Lo scontro decisivo avvenne il 10 novembre e si risolse in una nuova vittoria degli Arabi: ma l'improvviso apparire nelle acque di Gaeta di C. con una squadra composta da legni forniti dalle altre città di dominio partenopeo non solo impedì che essa si trasformasse, per i Franchi, in una completa disfatta, ma portò anche alla liberazione degli assediati. Fanti di marina, prontamente sbarcati dalle navicampane, impegnarono infatti le forze arabe, da un lato permettendo ai Franchi di sganciarsi e di evitare l'annientamento, e costringendo dall'altro i musulmani a togliere l'assedio a Gaeta. Mentre la squadra campana entrava nel porto prendendo possesso della città, i resti delle bande arabe battute ripiegarono in territorio longobardo, spingendosi verso l'interno fra saccheggi e devastazioni fin sotto Montecassino; da qui, forse perché ostacolati dal maltempo (come vuole il cronista dell'abbazia), più probabilmente perché avvisati dell'arrivo delle loro navi, tornarono verso Gaeta, che trovarono saldamente presidiata dalle truppe di Cesario. Non furono compiuti atti di ostilità né dall'una, né dall'altra parte: gli Arabi, come si astennero dall'attaccare da terra la città, così non vollero forzare il blocco avversario nel tentativo di penetrare nel porto con i loro battelli. Anzi, preannunziatosi un periodo di burrasche, avanzarono proposte per un accordo amichevole.
Gli Arabi sollecitavano da C. la stipula di una tregua d'armi, che durasse sino a quando non fosse cessato il maltempo; chiedevano di potersi riparare con le loro navi entro le acque sicure del porto; promettevano di riprendere il mare non appena lo avessero permesso le condizioni meteorologiche. I poteri di cui C. era investito dovevano tuttavia essere molto ridotti e strettamente limitati agli specifici compiti dimostrativi, che il duca di Napoli aveva assegnato alla squadra: C. non osò infatti assumersi la responsabilità né di portare avanti i negoziati né di respingere pregiudizialmente ogni possibilità di trattare. Preferì invece inviare al padre un rapporto dettagliato, chiedendo istruzioni precise. Sergio (I) gli ordinò di accettare le proposte arabe, purché i musulmani si fossero impegnati con giuramento ad osservare gli obblighi previsti dalla loro capitolazione.
Stipulato l'accordo, i legni arabi poterono entrare nel porto di Gaeta, ove restarono indisturbati alla fonda sino a quando, fedeli al giuramento prestato, non ripresero il mare dopo qualche mese. Tuttavia, non appena ebbero raggiunto, "onerati thesaurorummultitudine, quos ex basilica beati Petri asportaverant", le acque aperte, furono travolti da un fortunale scoppiato all'improvviso e solo in pochi riuscirono a salvarsi (primavera dell'847). Della pietà popolare, che vide in questa catastrofe la mano di Dio scesa vindice sui profanatori delle memorie apostoliche, si fecero interpreti i cronisti contemporanei: il napoletano Giovanni Diacono, il franco Prudenzio di Troyes e l'anonimo autore della biografia di Leone IV inserita nel Liber pontificalis della Chiesa romana.
Una volta salito al potere, Sergio (I) si era trovato di fronte al problema urgente di salvaguardare, insieme con l'autonomia del ducato, l'integrità dei territori di dominio partenopeo. Aveva ripreso pertanto - sia pure con molta, prudenza - quella linea politica d'intesa con i Franchi, che si era cominciata ad avviare negli ultimi anni del governo di Andrea (II) e della quale lui stesso era stato, se non il promotore, certo uno degli artefici. A Napoli, infatti, era assolutamente necessario un appoggio esterno, data la sua debolezza militare, per rintuzzare e contenere la pressione longobarda lungo i confini dello Stato partenopeo. Buon politico, Sergio (I) si rendeva tuttavia conto del pericolo potenziale che avrebbe rappresentato, per l'indipendenza del ducato, una forte presenza franca nell'Italia meridionale. Se aveva dunque reso meno stretti i tradizionali vincoli di amicizia e di collaborazione che, probabilmente dall'epoca del, brevissimo governo di Bono (luglio 832-9 genn. 834), legavano Napoli agli Arabi di Sicilia e di Libia, lo aveva fatto con estrema cautela e, soprattutto, si era ben guardato dal troncarli completamente. In questa linea politica, suggerita da una prudente valutazione del momento storico e dei rapporti tra le forze in gioco, deve essere visto l'intervento della squadra campana nelle acque di Gaeta, e in essa trovano la loro spiegazione due fatti apparentemente in contrasto fra loro: il "litoreus conflictus", cioè lo scontro fra le milizie di C. e le bande arabe, che aprì l'azione, e l'amichevole intesa, che la concluse. A differenza di quanto si è sin qui ripetuto nella letteratura storica, più che una funzione antisaracena, Sergio (I) aveva dunque assegnato alla sua flotta il compito di difendere, contro gli Arabi e contro i Franchi, l'integrità del ducato, e di riaffermare che la città e il territorio di Gaeta erano dominio partenopeo.
Analoghe motivazioni indussero Sergio (I) ad intervenire quando, nella primavera-estate, dell'849, si seppe che gli Arabi (è incerto se di Sicilia o della Libia), "reminiscentes lucrum vel praedam, quam fecerant", avevano deciso di compiere una nuova incursione su Roma. Agendo autonomamente secondo un programma di difesa preventiva dei territori di dominio partenopeo e delle vie marittime di comunicazione, che li tenevano collegati, senza essersi consultato o comunque essersi messo in contatto con le autorità della città minacciata, inviò un'armata navale ad incrociare lungo il litorale romano: al figlio C. aveva affidato il comando degli effettivi combattenti imbarcati. La squadra giunse nelle acque di Ostia, quando ancora la flotta araba si tratteneva - forse per il cattivo tempo, come vuole il Berza (p. 482), più probabilmente per ragioni tecniche e logistiche - presso le coste della Sardegna. Sebbene, una volta giunti, i comandanti della spedizione si fossero fatti premura di avvisare il papa che il loro arrivo non aveva altro scopo, se non quello di rintuzzare, "Domino adiuvante", il previsto attacco dei musulmani, la comparsa inaspettata delle navi da guerra campane davanti alle foci del Tevere suscitò nelle autorità dell'urbe allarme e preoccupazione, comprensibili se si pone mente alla cordialità che aveva caratterizzato nel secondo ventennio del sec. IX i rapporti fra i duchi di Napoli e gli Arabi.
Leone IV volle parlare personalmente con C. e con gli altri comandanti dell'armata, che dovettero recarsi a Roma per incontrarsi col papa. Nel corso dei colloqui, che ebbero luogo nei palazzi del patriarchio lateranense, gli alti ufficiali partenopei dovettero tuttavia fornire spiegazioni e garanzie tali, che il pontefice si indusse ad andare con loro ad Ostia, fors'anche per rendersi conto di persona della situazione, sotto il pretesto di voler benedire l'impresa. Fu accolto con entusiasmo dai Campani, i quali, sbarcati per la circostanza, lo seguirono in processione sino alla chiesa di S. Andrea. Qui il pontefice, dinnanzi agli stati maggiori, ai soldati e agli equipaggi, celebrò una messa solenne per propiziare la vittoria alle armi cristiane, amministrando personalmente la comunione ai presenti.
Il giorno successivo, la temuta squadra araba fece la sua apparizione nelle acque di Ostia: attaccata dai vascelli campani probabilmente quando ancora non aveva assunto la formazione di battaglia, dovette cedere con gravi perdite. La disfatta fu resa completa dall'opera di un vento furioso di burrasca, che, sorto improvvisamente, finì col disperdere le navi saracene, parte gettandole a fracassarsi sul lido, parte sospingendole verso il mare aperto, ove fecero per lo più naufragio. Degli armati arabi che riuscirono a toccare terra, alcuni furono uccisi dai guerrieri campani o dalle milizie locali; gli altri, catturati, vennero condotti sotto buona scorta a Roma, dove molti furono impiccati presso il porto fluviale, per ordine dei "Romani proceres" timorosi del pericolo potenziale rappresentato dal grande numero dei prigionieri arabi. L'intervento del pontefice pose fine alle esecuzioni: i superstiti, divisi fra i vari cantieri, vennero adibiti alla costruzione delle mura a difesa di S. Pietro e del borgo sorto fra la riva destra del Tevere e la basilica costantiniana.
Della battaglia di Ostia parla solo il Liber pontificalis della Chiesa romana; la ignorano invece tutte le altre fonti in nostro possesso. Su di essa tacciono - e ciò appare strano - i cronisti contemporanei; tace - e ciò desta maggior meraviglia - anche Giovanni Diacono, il biografo dei vescovi di Napoli, di solito così attento a tutti quei casi che avessero coinvolto in qualche modo la sua città. Dall'attendibilità della notizia non sembra tuttavia potersi dubitare; e così pure della realtà dell'avvenimento. A quest'ultimo sembra infatti alludere il frammento "Igitur cum saepe" di una lettera indirizzata dal Papa Leone IV a Ludovico II in data posteriore all'850. Inoltre, dall'esame delle espressioni usate dall'anonimo autore della biografia di Leone IV inserita nel Liber pontificalis romano, risulta - come fa notare il Duchesne (p. 138) - che il pio scrittore ebbe sotto gli occhi, mentre componeva la sua relazione, un documento ufficiale sullo scontro, forse una lettera, forse un rapporto del papa al sovrano franco. Di questa vittoria - tanto più bella agli occhi dei Romani, in quanto insperata - non tardò ad impossessarsi la leggenda che, sulla falsariga dell'interpretazione datane dal biografo di Leone IV, vide in essa più che un successo locale dovuto alla sensibilità politica del duca di Napoli, al valore dei suoi armati e alla perizia dei suoi equipaggi, soprattutto una vittoria delle armi cristiane su quelle degli infedeli: in altre parole, un evento provvidenziale e miracoloso voluto da Dio. Di questa tradizione, anche per ricordare l'idea della crociata contro i Turchi, volle farsi portavoce il papa Leone X quando, nel momento della massima espansione della potenza ottomana, affidò a Raffaello il compito di rappresentare il celebre episodio nei palazzi vaticani. Nell'affresco, che è quasi completamente opera dell'artista romano Giulio Pippi e che si trova nella parete di sinistra della stanza "dell'incendio di Borgo", Leone IV è raffigurato con le fattezze di Leone X, a sinistra, in atto di ringraziare Dio (alle sue spalle il cardinale Bibbiena e Giulio de' Medici); in primo piano appaioni i prigionieri arabi, mentre sul fondo sono rappresentati il porto di Ostia e la battaglia.
Dopo questo avvenimento il nome di C. non ricorre nelle fonti a noi note sino alla primavera dell'859, quando viene ricordato accanto a quello del fratello Gregorio, "magister militum" alla testa di un corpo d'esercito campano operante nel territorio capuano in appoggio ad Ademario, principe longobardo di Salerno.
Sergio (I) di Napoli, sempre mirando, da un lato, a salvaguardare l'autonomia e l'integrità territoriale del ducato e ad alleggerire, dall'altro, la pressione esercitata dai Longobardi lungo i confini dei suoi domini, si era inserito nelle lotte, che dalla morte di Sicardo travagliavano la Langobardia meridionale, appoggiando in un primo momento i conti longobardi di Capua nel loro sforzo di svincolarsi dalla soggezione al principe di Salerno; tale collusione venne consacrata dal matrimonio di una figlia di Sergio (I) con il gastaldo di Suessula e Sessa Landolfo, secondogenito del conte Landone (I) di Capua. In un secondo tempo, però, era passato ad appoggiare il principe di Salerno, forse sperando ampliamenti territoriali ai danni di Capua nella pianura campana, certo preoccupato per l'intesa costituitasi fra Landone (I) e il prefetto di Amalfi, città di dominio partenopeo, Marino, il quale, giovandosi dell'aiuto dei Capuani, mirava a svincolarsi, a sua volta, dalla soggezione alla dominante. Il fatto che Ludovico II sostenesse il governo di Ademario e che quest'ultimo fosse riuscito a guadagnarsi, come alleato contro Capua, anche Guido di Spoleto, non doveva tuttavia esser rimasto estraneo alla svolta politica compiuta da Sergio (I), svolta che ebbe come conseguenza immediata il rafforzamento della signoria partenopea su Amalfi. Ademario, infatti, arrivò ad impadronirsi di Marino e di suo figlio Sergio, e li fece consegnare al duca di Napoli. Fu così che questi, dopo aver convinto Landolfo di Suessula e Sessa a defezionare dal padre, si indusse a scendere in campo aperto contro Landone (I), quando nell'859 il suo antico alleato, immobilizzato dalla "dira paralisi" che nel volgere di un anno lo avrebbe portato alla morte, era di fatto uscito dalla scena politica. Intervenendo militarmente, tuttavia, Sergio si proponeva ben altro che limitarsi a costringere Capua a riconoscere l'autorità di Ademario.
A C. e al fratello Gregorio era stato assegnato l'obiettivo di porre, col loro corpo d'esercito di settemila uomini, fra cavalleggeri e fanti, rinforzato dai contingenti forniti dal gastaldo di Sessa, l'assedio alla nuova Capua sul Volturno: sotto le mura della città si sarebbero dovuti ricongiungere a loro i reparti longobardi inviati da Ademario. Entrati in territorio capuano, C. e Gregorio avevano appena superato il ponte di Teodemondo in località ora di difficile identificazione (secondo Cilento, La Cronaca, p. 36, da porsi sul basso Volturno), quando vennero affrontati da un esercito capuano e impegnati in battaglia. Lo scontro venne risolto dall'intervento del primogenito di Landone (I), Landone (II), il quale, sopraggiunto sul luogo della mischia "ceu leo fervidus", attaccò frontalmente con i suoi reparti lo schieramento avversario, sfondandolo e provocandone la completa disfatta (8 maggio 859). Ingenti le perdite dell'esercito partenopeo: molti i morti e i feriti, circa ottocento i prigionieri. Tra questi ultimi, lo stesso C., che venne condotto sotto buona scorta a Capua e gettato in carcere "con i ceppi ai piedi", come sottolineano i Chronica S. Benedicti Casinensis. Fu liberato qualche tempo dopo - ignoriamo esattamente la data - in occasione di uno scambio di prigionieri.
Negli anni immediatamente successivi, gli ultimi di Sergio (I), e durante il governo di Gregorio (III), e di Atanasio (I), C. rimase in una posizione di secondo piano nella vita pubblica del ducato, dato che per oltre un decennio non viene ricordato dalle fonti a noi note. Fu tuttavia certamente uno degli esponenti del partito favorevole all'intesa coi Franchi e allo scontro frontale - che tale amicizia d'altro canto comportava - contro i Musulmani e contro i loro alleati nell'Italia meridionale. Sostenne senza dubbio, cioè, il programma di governo propugnato - probabilmente per ragioni ideologiche e religiose - dal vescovo Atanasio (I) e da questo imposto, dopo la morte di Sergio (I) nell'estate dell'864, al fratello e collega Gregorio (III). Lo prova il fatto che, quando nell'ottobre dell'870 il nuovo duca Sergio (II), succeduto agli inizi dell'anno al padre Gregorio (III), compì il suo colpo di Stato esautorando il potente collega e riunendo nelle proprie mani la somma dei poteri, C. fu tra coloro che, insieme con il vescovo Atanasio, vennero fatti arrestare ed imprigionare dal giovane duca. Anche dopo il rilascio del vescovo, cui Sergio (II) si era dovuto acconciare a causa di tumulti popolari e dei pesanti interventi - non solo diplomatici - dell'imperatore Ludovico II, C., Come gli altri esponenti del partito filofranco, fu trattenuto in carcere: a nulla valsero gli sforzi compiuti da Atanasio (I), esule, per ottenerne la liberazione.
E a Napoli, in carcere - lo stesso in cui era stato il fratello - morì, ignoriamo esattamente quando, ma probabilmente, nei primi mesi dell'872. Ce loriferisce una glossa scritta da una mano degli inizi del sec. X sul margine inferiore del f. 129v del codice Vat. lat. 5007, il manoscritto contenente il Liber pontificalis della Chiesa napoletana.
La figura di C. e le battaglie di Gaeta e di Ostia, grazie alle quali essa è soprattutto ricordata, sono state idealizzate dalla retorica municipalistica e da quella risorgimentale, che le hanno "lette" evocando il passato a figurare con intento polemico o esortativo l'Italia dell'avvenire. Tali interpretazioni hanno trovato una vasta eco nella letteratura storica anche recente. Dall'analisi delle fonti non risulta, per esempio, che C. sia mai stato "console", titolo e rango che pure gli vengono costantemente e concordemente attribuiti dalla storiografia non solo locale. Non si può inoltre concordare con quanti hanno attribuito ed attribuiscono esclusivamente a lui il merito delle due vittorie di Gaeta e di Ostia, perché non si può trarre dai documenti la notizia che squadre campane abbiano mai obbedito ai suoi ordini, né quando operarono nella rada di Gaeta né quando furono inviate nelle acque di Ostia. Già sul finire del secolo scorso, polemizzando con lo Schipa, il quale aveva affermato (Il ducato, p. 622) che quella di Ostia "fu la più insigne vittoria navale sugl'infedeli prima di Lepanto", il Manfroni aveva d'altro canto ridimensionato con buoni argomenti l'episodio, riconoscendogli una portata puramente locale e contingente. Infine, poiché Amalfi, Sorrento e Gaeta erano intorno alla metà del sec. IX città di dominio partenopeo e quindi parte integrante del ducato di Napoli, non si può - a meno di non falsare la realtà storica anticipando avvenimenti e istituzioni propri di altre epoche - parlare, come pure si è fatto, di "prima lega delle città italiane contro la prepotenza barbarica (Schipa, Il ducato, p. 613), di "conferazione napoletana" (M. Amari, p. 507), o di "armata dei confederati della Campania" (Manfroni, p. 52), o di "flotta napoletana-amalfitana" (Berza, p. 381).
Fonti e Bibl.: Leonis Marsicani Chronica monasterii casinensis ..., in Mon. Germ. Hist., Scriptores, VII, a cura di W. Wattenbach, Hannoverae 1846, pp. 599 s.; Iohannis Diaconi Gesta episc. Neapolitanorum, ibid., Script. Rer. Langobardicarum et Italicarum saecc. VI-IX, a cura di G. Waitz, ibid. 1878, pp. 433-435; Vita Athanasii episcopi Neapolitani, ibid., p. 441; Erchemperti Historia Langobardorum Boneventanorum,ibid., p. 244; Chronica S. Benedicti Casinensis, ibid., pp. 472 475; Prudentii Trecensis episcopi Annales Bertiniani, ibid., Scriptores rerum German. in usum scholarum separatim editi, a cara di G. Waitz, ibid. 1883, p. 34; Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1898, pp. 99 s., 107, 117-119; Ph. Jaffé-S. Loewenfeld, Regestapontif. Roman. ..., I, Lipsiae1885, p. 334, n. 2620; Il Chronicon di Benedetto monaco di S. Andrea del Soratte..., a c. di G. Zucchetti, Roma 1920, in Fonti per la storia d'Italia..., LV, pp. 150 ss.; La Cronaca dei conti e dei principi di Capua dei codd. Cassinese 175 e Cavense 4(815-1000), a cura di N. Cilento, in Bull. dell'Ist. stor. ital. per il Medio Evo ..., LXIX (1957), pp. 22, 36 nota 2 (ora in Italia merid. longobarda, pp. 122 nota 2, 136 s.); A. Di Meo, Annali critico-diplomatici del Regno di Napoli nella Mezzana Età, IV, Napoli 1798, pp. 76-81, 114-116, 149-151, 146-167 (da utilizzare con molta attenzione, perché l'autore si avvale di due falsi pratilliani, la Cronaca delloPseudo-Ubaldo e il Chronicon S. Monasterii S. Trinitatis Cavensis); M. Schipa, Il ducato di Napoli ..., in Arch. stor. per le prov. nap., XVIII(1892), pp. 615-623, 628 s., 641 s., 644, 781, 785-789;Id., Il Mezzogiorno d'Italia anteriormente alla monarchia..., Bari 1923, pp. 68 s., 72 s., 76-81; C. Manfroni, Storia della marina italiana dalle invas. barbariche al trattato di Ninfeo..., I, Livorno 1899, pp. 50-53; J. Gay, L'Italie mérid. et l'Empire byzantin ..., Paris 1904, pp. 55 s.; L. M. Hartmann, Gesch. Italiens im Mittelalter, III, 1, Gotha 1908, pp. 213-216, 224 s.; M. Amari, Storia dei musulmani di Sicilia, a cura di C. A. Nallino, Catania 1933, ad Indicem; M. Berza, Amalfi preducale (596-957), in Ephemeris Dacoromana..., VIII (1938), pp. 378-385; G. Romano-A. Solmi, Le dominazioni barbariche in Italia (395-888), Milano 1940, pp. 582, 587 s.; G. Musca, L'emirato di Bari (847-871), Bari 1964, pp. 40 s., 63; N. Cilento, Le incurs. saraceniche nell'Italia meridionale, in Italia merid. longobarda, Napoli 1966, pp. 177-179; Id., Le origini della signoria capuana nella Longobardia minore, Roma 1966, pp. 91 s., 97, 100-103; G. Cassandro, Il ducato bizantino, in Storia di Napoli, II, 1, s.l. né d. [Cava dei Tirreni 1969], pp. 70-74, 78-82, 84-86; P. Bertolini, Studi per la cronologia dei principi longobardi di Benevento ..., in Bull. dell'Ist. stor. ital. per il Medio Evo ..., LXXX (1968), pp. 75 ss.; Id., La serie episcopale napoletana nei secoli VIII e IX ..., in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XXIV (1970), pp. 428 ss. e nota 267.