ORSINI, Cesare
ORSINI, Cesare. – Nacque a Ponzano in Val di Magra, nel territorio della Repubblica di Genova, probabilmente nel 1572.
La data di nascita si evince dalla didascalia «annum agens XXXIII» che accompagna il suo ritratto nell’edizione delle Rime (Venezia, G.B. Ciotti, 1605; erroneo l’anno 1571 in Mannucci, 1912, p. 81, sulla base della dedica dell’autore, in data 10 gennaio 1604). Poiché non risulta alcun Orsini nei registri parrocchiali ponzanesi, è probabile che il padre non fosse originario del luogo.
Le notizie biografiche si ricavano dalle sue raccolte poetiche, con la precisazione che non rispecchiano la cronologia dei componimenti. Rimasto orfano in tenera età, fu allevato dallo zio materno Francesco Baldassarri, curato di Nicola (due sonetti nella sua morte in Diporti poetici, I, Venezia 1630, pp. 131 s.). Un fratello maggiore, Francesco, fu soldato di carriera (ibid., pp. 123, 128). Poco più che ventenne, Orsini lasciò il paese natale per Mantova in cerca di fortuna, come ricordano tre sonetti e una canzone dedicati al duca Vincenzo I e al principe Ferdinando non ancora cardinale nel primo volume dei Diporti. Svanite le speranze di impiego alla corte dei Gonzaga, si spostò a Venezia ed entrò al servizio del patrizio Marcantonio Memmo come segretario. La canzone Risorgi homai con più sonori carmi (Delle rime. Parte prima, 1605, pp. 46-55) celebra la posa della prima pietra della fortezza di Palma, in Friuli, dove Memmo fu provveditore generale dal 1597. La posizione raggiunta permise a Orsini di inserirsi nella scena pubblica della città lagunare, come attestano i componimenti delle Rime diretti a personalità veneziane laiche o religiose.
Dalla raccolta emerge altresì un buon tessuto di relazioni con letterati: un sonetto a Celio Magno (ibid., p. 55); uno a Pietro Sagredo eletto principe dell’Accademia degli Ardenti (ibid.); il sonetto Un mar, Marin, non sei, come alcun disse indirizzato a Giovan Battista Marino (ibid., p. 40) sembra una replica a quello di Gabriele Zinano Marin, anzi gran mare, anzi infinito, che sarebbe stato pubblicato tra le Proposte e risposte nella Prima parte della Lira mariniana (Venezia, G.B. Ciotti, 1614, p. 228; sullo stesso gioco di parole insistono anche Un bel ricco Ocean di chiari pianti di Gasparo Murtola, ibid., p. 229, e Rassembri forse al nome un picciol mare di Giovan Battista Strozzi il Giovane, ibid., p. 230). L’assenza del sonetto di Orsini nelle Lira si deve probabilmente a una trascuratezza del destinatario. È però probabilmente da identificare con Cesare il «signor Orsino» che Marino in una lettera scritta a Giovan Battista Ciotti da Parigi nel giorno della festa di Pentecoste del 1621 chiede di risalutare a suo nome insieme con Pietro Petracci. Chierico udinese, curatore di antologie liriche, Petracci incluse nove poesie di Orsini nella silloge madrigalistica Ghirlanda dell’Aurora da lui allestita per Ciotti nel 1609 (pp. 72-76); suoi sonetti in lode di Orsini sono in Delle rime, p. 71, con le riposte, e nel primo volume dei Diporti. A Tommaso Stigliani è diretto il sonetto di Orsini Tu, ch’a l’onde salubri, al fonte vivo (Delle rime, p. 41). Il sonetto Cessin l’antiche e favolose carte, celebra la Scala di Giacobbe del sacerdote bergamasco Giovanni Paolo Berlendi (ibid., p. 43), molto in anticipo sull’edizione dell’opera Brescia 1612. Un sonetto in risposta a Orsatto Giustinian trovò posto nella Prima parte dei tardi Diporti poetici (I, p. 112).
Nel 1601 Orsini seguì Memmo, nominato podestà di Brescia, in un momento di disordini interni, che Memmo si adoperò con successo a sedare (celebrato per questo da Orsini nella canzone Nella pace de’ Bresciani trattata, et conclusa dall’Illustrissimi Signori Marc’Antonio Memmo, et Francesco Molino rettori d’essa città, in Delle rime, pp. 51-60), e di minacce apparecchiate dalle truppe spagnole del confinante Ducato di Milano. Dal sonetto al Memmo Perché altrui sia più nota, a me più cara (ibid., p. 55) risulta che Orsini ricevette dal protettore l’ufficio di notaio nella Cancelleria del Comune di Brescia, tuttavia Mannucci (1912, p. 84 n.) rileva che il suo nome non compare nelle carte degli archivi cittadini. A Brescia si invaghì di una gentildonna, cantata senza nome nelle Rime, passione affatto letteraria e interrotta bruscamente per l’ingratitudine dell’amata. Seguì un soggiorno a Padova, non è chiaro se ancora al servizio di Memmo (che vi era stato podestà nel 1586-87 e avrebbe poi ricoperto l’ufficio di riformatore dello Studio). Qui una più disponibile Clori appagò gli ardori di Orsini, ma anche questa relazione si chiuse infelicemente. Dopo un breve soggiornò a Ponzano (celebrata in Questa è pur Lunigiana e questo e il tosco e in Vago albergo di pace e di diletto, quest’ultimo scritto due lustri dopo aver lasciato il paese natale, in Delle rime, pp. 44 s.), tornò a Venezia, ancora al servizio di Memmo, eletto procuratore di S. Marco de ultra nel 1602. A Venezia intrattenne una nuova relazione con una donna della famiglia Contarini, che gli costò una ferita infertagli da un rivale, la denuncia ai Magistrati dell’onestà e infine il bando dai territori della Repubblica, cavallerescamente preferito, pare di capire, a un processo che sarebbe stato imbarazzante per la gentildonna. Il tutto è tumultuosamente narrato nei citati Diporti poetici e nelle Selve poetiche (Padova, G. Ganassa, 1635), ma la relazione doveva risalire a prima del 1605, se già le Rime ospitano canzoni d’amore da lontano per una bella veneziana.
Lasciato il territorio della Serenissima, si ritirò a Ponzano, dove elaborò poeticamente la relazione interrotta nei Diporti poetici. I Diporti documentano anche i tentativi di Orsini di rimettere piede a Venezia: a Tribuno Memmo, parente di Marcantonio, chiese di intervenire per cancellare il bando (I, p. 134), a Francesco Memmo, canonico e tesoriere del duomo di Padova, diresse un lungo componimento in cui promise di cantare le glorie di tutta la famiglia (II, pp. 100 ss.). Il bando non fu levato. La stampa a Ferrara nel 1611 (la dedica data 7 settembre), presso lo stampatore camerale Vittorio Baldini, del Panegirico all’illustriss. et eccellentiss. sig. il sig. Marc’Antonio Memmo procurator di S. Marco, di 100 stanze, composto anni prima, è il tardivo (e intempestivo) omaggio all’antico padrone, che poco dopo (24 luglio 1612) fu eletto doge. A quella data Orsini aveva trovato un’altra sistemazione a Ferrara presso il cardinale Bonifacio Bevilacqua, grazie alla cui protezione si inserì negli ambienti letterari della ex capitale dello Stato estense, in un momento in cui la vita culturale si riavviava sotto il nuovo governo pontificio. Per il carnevale 1612 compose la favola Giasone, che fu rappresentata «in musica con le machine» nel salone ducale nel castello (Diporti, II, pp. 160 ss.). Del 1619 è l’epitalamio La fede per le nozze del conte Cesare Estense Mosti con Caterina Turchi, stampato a sé da Baldini e poi incluso nei Diporti (II, p. 118).
Poiché Bevilacqua soggiornò prevalentemente fuori Ferrara e non risultano per gli anni a seguire viaggi di Orsini fuori dalla città, tranne uno a Roma di cui nelle Epistole amorose, è probabile che il letterato abbia tracorso questo periodo a Ferrara con l’officio di fiduciario del porporato. Il panegirico L’Adige, nel Canto della Sirena Filarmonica all’illustrissimo Sig. Georgio Badoaro Capitano di Verona nella partita del suo felicissimo Reggimento (Verona, A. Tamo, 1622) documenta il persistere di legami con l’aristocrazia veneta, sebbene responsabile della raccolta fosse il letterato veronese Alessandro Becelli.
Dopo la morte di Bevilacqua (6 aprile 1627) Orsini si legò probabilmente a Gerolamo Lando, podestà di Padova nel 1626-27 e dal 1629 riformatore dello Studio, celebrato nel poemetto di 78 stanze Per l’illustrissimo et eccellentissimo Sig. Girolamo Lando Cavaliere. Finito il Regimento di Padova (Padova s.d., ma con dedica a Vitale Lando dell’8 ottobre 1627; anche nelle Selve poetiche, pp. 3 ss.). Nel 1628 tornò con Lando a Venezia; a lui è dedicato il primo volume dei Diporti poetici usciti per Evangelista Deuchino nel 1630; il secondo volume, uscito nello stesso anno, presenta una dedica a Bertucci Valier.
Orsini era ancora in vita nel 1636, quando a Padova, per i tipi di Gasparo Ganassa, uscì la prima edizione dei Capriccia macaronica con dedica dell’autore al podestà Giacomo Soranzo. La morte, in data e luogo ignoti, si deve collocare non molto dopo questo evento.
La prima opera di Orsini andata a stampa sono Delle rime. Parte prima, apparse a Venezia per Ciotti nel 1605 (la dedica al cavaliere veronese Curio Boldieri reca però la data 10 gennaio 1604), come settima e ultima parte del Giardin di Rime, nel quale si leggono i fiori di nobilissimi pensieri (autori delle parti precedenti sono Guido Casoni, Tommaso Stigliani, Filippo Alberti, Giovan Battista Leoni, Antonio Ongaro, Alessandro Gatti).
Maggiore successo ottennero le Epistole amorose, in versi, pubblicate unitamente agli Idilli (ma con numerazione distinta), a Venezia, per Deuchino, nel 1619: le Epistole con dedica al nobile genovese Silvestro Grimaldi (18 gennaio 1618); gli Idilli a Innocenzo Massimo, allora vescovo di Bertinoro (edizioni successive per Deuchino nel 1620 e 1622, poi a Torino nel 1629 «appresso il Cavalleris» – quale dei tipografi della famiglia Cavalleri non è possibile precisare – poi di nuovo a Venezia, «per il Tomasini», nel 1639 e 1646). Le Epistole sono in totale 32: le prime 30 narrano la passione del poeta, sotto il nome pastorale di Tirsi, per una Cinzia ferrarese; seguono una di Fileno a Clori e una di Eurilla a Silvio. Le epistole inviate a Cinzia illustrano una fenomenologia amorosa, già esercitata nelle Rime, che risente dell’allargamento barocco dell’orizzonte tematico della lirica amorosa. Tra gli argomenti sono il viaggio per mare dell’amata, il dono di un diamante, l’abito di corruccio da lei indossato, l’invio di rime, la villeggiatura della donna in ottobre e l’invito a tornare in città con l’approssimarsi dell’inverno, l’esortazione ad amare uomini maturi, un sogno, i baci ottenuti. Nelle ultime quattro il poeta narra il suo amore da lontano durante un soggiorno di alcuni mesi a Roma a seguito del suo «signore» (il cardinale Bevilacqua), dell’agognato ricongiungimento con l’amata Cinzia e infine della delusione nell’apprendere che la donna si era sposata mentre egli era assente. Gli otto Idilli (tre dei quali pubblicati nella antologia di Idilli di poeti barocchi, a cura di D. Chiodo, Torino 1999, pp. 195-118) sono dedicati alla passione per la dama bresciana, per la padovana Clori e per la veneziana Contarini, anche se per l’ordine in cui si trovano sembrano adombrare un’unica passione.
Nel complesso, le due prove liriche palesano evidenti riprese di argomenti di repertorio tratti dall’Aminta tassiano, dal Pastor fido guariniano e dagli Idilli di Marino per quanto riguarda le Epistole, mentre negli Idilli sono frequenti le riminiscenze di madrigali mariniani e l’impiego di temi che si possono far risalire alla Sampogna, del 1614, come a esempio il Testamento di Cinzio, che potrebbe essere stato ispirato dal Testamento amoroso di Marino. Altre riprese da Marino nelle Rime segnala Mannucci (1912, pp. 96-99, 106 e passim) e il giudizio doveva correre tra i contemporanei, se nella ventiduesima risata della Marineide (Norimbergh, J. Stamphier, 1650, p. 127), Gaspare Murtola considera Orsini allievo di Marino, ma potrebbe essere solo una cattiveria dell’autore.
Le Selve poetiche, rimaste «lungamente sepolte» secondo quanto dichiara Orsini nella dedicatoria, videro la luce senza data a Padova per Gasparo Ganassa, ma con dedica a Roberto Papafava abate di S. Nicolò di Sebenico in data 1635. A p. 8 si legge un epigramma di Giovan Francesco Loredan.
Più fortunate della produzione in lingua, furono le poesie maccheroniche di Orsini, per le quali si celò sotto l’eteronimo di Stoppino, che probabilmente contiene un’allusione al frate Stoppino, ribaldo abate del convento della Mortella nel Baldus di Teofilo Folengo, e dunque una implicita dichiarazione di poetica, confermata dal ricorso di alcuni stilemi, come a esempio l’invocazione alle muse maccheroniche. Dopo l’edizione padovana del 1636 per i tipi di Ganassa (con frontespizio illustrato), i Magistri Stopini poetae Ponzanensis Capriccia macaronica furono impressi nello stesso anno a Venezia da Giacomo Sarzina. Il libro si compone di otto macaroneae, un’egloga intitolata Contentio trium poetarum, 50 epigrammi e 12 elegie.
Nella dedica a Giacomo Soranzo Orsini presenta i Capriccia come opera giovanile e diversi passaggi dell’opera, nei quali l’autore dichiara di avere composto i versi quando era puer e iuvenis, confermano questo dato. Ma tali dichiarazioni di precocità vanno prese con riserva: se non è escluso che Orsini abbia cominciato a coltivare la musa maccheronica in epoca giovanile, certamente i Capriccia furono completati nella maturità, come risulta evidente dall’ampiezza degli argomenti trattati e dall’insieme delle esperienze autobiografiche che vi sono infuse. La lettera a Francesco Corriedano (Elegia XI) è databile al 1602, ma nella Macaronea tertia ampio rilievo viene dedicato all’invenzione del telescopio da parte di Galilei e alla scoperta dei pianeti medicei, divulgata nel 1610. Nella Macaronea quarta Stoppino si presenta come verseggiatore consumato, con numerose opere al suo attivo e nella Sexta ricorda espressamente le Epistole amorose e gli Idilli, del 1619. La Octava raccoglie le querele contro la podagra e la chiragra che afflissero il poeta negli ultimi anni (in una epistola in versi a Claudio Achillini, in Diporti poetici, II, p. 133, si ritrae stanco e gottoso).
Le Macaroneae sono un’opera satirica, nella quale, sotto il mantello del linguaggio comico, l’autore tocca i vizi del secolo e compiange i buoni costumi stravolti dalla malizia degli uomini, non senza un gusto spiccato per il paradosso. La Macaronea prima è una colorita invettiva contro le meretrici, alle quali il poeta è ricorso da tempo per consolarsi delle delusioni amorose, ma che si sono rivelate fonte inesauribile di raggiri e di danni (un elenco delle conquiste di Orsini è invece nella Macaronea sexta). La Secunda contiene l’elogio del furto. La Tertia loda l’ignoranza e offre una galleria delle discipline intorno a cui si affaticano gli uomini, tutte rivelatesi fatue e inutili: grammatica, filosofia, astronomia, matematica, poesia, musica ecc. La Macaronea quarta stigmatizza le pazzie che portano il genere umano a commettere ogni genere di sproposito: gioco, amori, riluttanza allo studio, brama di onori e ricchezza, volontà di ammogliarsi e di generare prole ecc. Nella lode della bugia, che governa il mondo al posto della verità (Macaronea quinta) è menzionato Pietro Aretino, che per avere scoperto le magagne degli uomini rischiò addirittura la vita, e trova posto una critica della corte di Roma, dove la bugia trionfa. L’ambizione (Macaronea sexta) porta l’uomo a profondere le sue energie in una serie di orpelli esteriori, lontani dal vivere saggio e quieto (palazzi, servitori, parassiti, carrozze, abiti ecc.). La Septima è il compianto della gatta Rosa uccisa da un truce soldato. Nell’Octava il poeta si cruccia dei malanni che lo tormentano.
La Contentio trium poetarum adombra forse le contemporanee contese tra marinisti e antimarinisti. Il poeta Bertoldo vi è accusato dal collega Nizzo di avere rubato i carmi di un certo Crenomone. Dopo molte insolenze interviene Driante, poeta e cantore di Togna e del Gobbo di Rialto, che la dà vinta a Bertoldo. Tema, quello del ladrocinio dei versi, trattato con larghezza già nella Macaronea secunda, dove il poeta e il ladro sono accomunati dall’aguzzare l’ingegno per appropriarsi delle cose altrui.
Gli epigrammi trattano senza particolare originalità di occasioni e personaggi tratti dalla vita quotidiana. Nelle dodici elegie Orsini espone la sua gioiosa poetica ispirata dagli amori e da Bacco (I), si sfoga contro la ingrata Morina della quale Amore lo ha reso schiavo (II, V-VI, XI), si rivolge direttamente ad Amore (III-IV), si lamenta con la Musa (VII), celebra i buoni effetti del vino, ispiratore di ogni sua poesia (VIII, XII), commenta la morte di un tale Paolo avaro (IX), ringrazia il medico bellunese Eustachio Rudio che gli ha fatto recuperare la salute (X), si rivolge agli amici Francesco Corriedano (XI) e Marco Boncompagni (XII).
Ai Capriccia arrise una fortuna invidiabile. Le edizioni accertate fino al termine del XVII secolo sono dodici, sei nel XVII. A partire dall’edizione Venezia, s.t., 1651 fu aggiunta una appendice spuria con epigrammi in un latino non maccheronico. Dopo una ristampa ottocentesca (Firenze 1819), si leggono oggi nell’edizione curata da Clemente Valacca (Lanciano 1915, 1927) e in una con traduzione di Luigi Giannoni (Genova 1982).
Un poemetto osceno di 16 ottave intitolato Il giardiniero, il cui titolo ricalca il Vendemmiatore di Luigi Tansillo, fu impresso in compagnia di altri testi satirici (i Capitoli burleschi di Girolamo Magagnati, la Murtoleide di Marino, la Marineide di Murtola, la Merdeide di Nicolo Bobadillo, alias Tommaso Stigliani, le Strigliate a Tomaso Stigliano del signor Robusto Pogommega, cioè Andrea Barbazza), in una sedicente edizione Spira, Henrico Starkio (Bologna, Giovan Pietro Barbiroli, secondo Parenti, 1951, p. 184), 1629, e (con il solo Magagnati e Stigliani) in una altrettanto mendace edizione Norimberga, Joseph Stamphier (probabilmente Venezia, secondo Parenti, pp. 152 s.), 1642.
Di un Canzoniere, Panegirici, un Segretario, menzionati da Orsini come opere già finite e di prossima uscita a stampa nella premessa ai lettori delle Epistole amorose, non resta traccia. Così è pure della Selva macaronica (forse lo stesso che i Capriccia) e degli Spropositi di cui parla Deuchino nella prefazione al primo volume dei Diporti poetici. Non identificato resta anche un libro di Rime diverse stampato con l’orazione nell’incoronazione del doge di Genova Alessandro Giustiniani (1611), riferito da Soprani (1667), seguito da Oldoini (1680).
Fonti e Bibl.: G.B. Marino, Epistolario, a cura di A. Borzelli - F. Nicolini, I, Bari 1911, p. 303; R. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova 1667, p. 74; A. Oldoini, Athenaeum Ligusticum, Perugia 1680, p. 127; G.M. Crescimbeni, Comentari intorno alla sua Istoria della volgar poesia, IV, Roma 1711, p. 143; F.-W. Genthe, Geschichte der macaronischen Poesie, Halle-Leipzig 1829, pp. 144-146; A. Belloni, recens. a L. Ambrosi, Sopra i «Pensieri diversi» di Alessandro Tassoni, 1896, in Giornale storico della letteratura italiana, XV (1897), p. 483; G. Boffito, D’un imitatore del Cocai nel Seicento. Maestro Stopino (Cesare Orsini), ibid., XVI (1898), pp. 331-342; F.L. Mannucci, C. O. (Magister Stopinus), in Giornale storico della Lunigiana, IV (1912), pp. 81-127; A. Belloni, Il Seicento, Milano 1938, pp. 331-333 e ad ind.; M. Parenti, Dizionario dei luoghi di stampa falsi, inventati o supposti, Firenze 1951, pp. 152 s., 184; D. Chiodo, L’idillio barocco e altre bagatelle, Alessandria 2000, ad indicem.