CAPOQUADRI, Cesare
Nacque a Ponte a Elsa il 23 giugno 1790 da Rocco, proprietario terriero della Val d'Elsa che, occasionalmente, faceva opera di chirurgo presso i poveri del contado, e da Francesca Franchini di Volterra; ebbe i primi insegnamenti dallo zio paterno Ilario, parroco alla Bastia. Nel 1801iniziò un corso di studi regolare presso il collegio governativo di Prato; passò quindi all'università di Pisa, iscrivendosi alla facoltà di giurisprudenza. Senza mai abbandonare il giovanile amore per le lettere, si impegnò con serietà e costanza anche in questa nuova disciplina e si laureò nel 1808. Si trasferì allora a Firenze dove iniziò il tirocinio presso l'avvocato Giovan Battista Bellucci. Nel 1818sposò Fulvia Borghesi Franceschini, una nobile senese, di cui l'avvocato Bellucci era stato tutore. Alla morte del Bellucci, sentendosi ancora impreparato ad affrontare da solo la libera professione, tentò di ottenere un ufficio dall'allora ministro delle Finanze ducali Leonardo Frullani. Spronato da questo a non abbandonarel'avvocatura, entro breve tempo si mise in luce patrocinando una causa per un oscuro cliente che però investiva il problema giuridico dei livelli e delle enfiteusi, molto importante nel panorama economico prevalentemente agrario della Toscana granducale.
La vittoria faticosamente riportata gli procurò fama e clientela. Il governo, riconoscendone i meriti, lo chiamò a far parte di una commissione legislativa, già istituita nel 1814, per compilare il codice civile toscano. La stima che si era guadagnata con l'esercizio scrupoloso della sua professione si accrebbe per la sua difesa di Montucci e Nabissi, accusati di lesa maestà assieme ad altri senesi affiliati alla Giovine Italia. La grave accusa prevedeva la pena di morte, perché era stato riesumato il delitto di lesa maestà.
La causa fu discussa nel 1833; il C. affermò che, secondo i criteri della legge del 1795, i fatti addebitati ai suoi clienti erano solo "attentati remotissimi" e che quindi non potevano essere considerati delitti consumati. Sostenendo poi che l'associazione a cui appartenevano, priva di mezzi e di armi, intendeva diffondere solo principî di libertà, dimostrò che la loro azione non aveva il carattere di attentato e concluse che gli imputati potevano eventualmente essere perseguiti con pene disciplinari. La sua tesi prevalse e gli imputati evitarono la pena capitale.La vittoria gli procurò fama di liberale, ciò che non gli impedì di essere nominato con decreto del 27 luglio 1836 avvocato fiscale, che era allora la suprema magistratura dell'accusa. Dopo la riforma del 1838, che ripristinava l'ordinamento francese abbandonato nel 1814 quando si era ritornati all'antico ordinamento giuridico toscano, fu costituita la Corte suprema di cassazione e il C. ne fu nominato presidente (decreto 30 sett. 1841). Il movimento liberale che doveva poi sfociare nei moti del '48 coinvolse il C. che infatti prestò la sua opera a quelle riforme che precedettero lo Statuto toscano. Nel marzo del 47 fece parte della commissione istituita per compilare i codici civile e penale e nell'agosto dello stesso anno fu nominato consultore ordinario della Consulta di Stato. Dopo la promulgazione dello Statuto (15 febbr. 1848) divenne senatore, consigliere di Stato in servizio straordinario e infine, durante il ministero Ridolfi, ministro di Giustizia e Grazia.
Sinceramente liberale, ma moderato e affezionato alla dinastia lorenese, non meraviglia vederlo ricoprire queste cariche in quegli anni '47 e '48 quando sembrava realizza si l'accordo fra la dinastia e i moderati toscani. All'indomani dei tumulti scoppiati a Firenze, in seguito alle infauste notizie della guerra in Lombardia, si dimise insieme al Ridolfi e, coerentemente alle sue idee, rimase lontano dalla vita politica durante il ministero Montanelli. Il 12 apr. 1849 i democratici furono definitivamente estromessi dal potere; il municipio di Firenze si costituiva, associandovi i cittadini più in vista, in Commissione di governo, proclamava la restaurazione dell'autorità del granduca Leopoldo e assumeva in suo nome la direzione degli affari. Di tale commissione fu chiamato a far parte anche il C. insieme con Gino Capponi, Bettino Ricasoli, Carlo Torrigiani.
Nel breve periodo in cui visse, la Commissione mirò a salvaguardare lo Statuto e ad evitare l'intervento delle truppe austriache. A tale scopo il primo passo fu quello di inviare una deputazione a Gaeta, presso il granduca, per consegnargli un indirizzo che lo invitava a tornare al più presto a Firenze per impedire che la Toscana fosse occupata, e per convincerlo a conservare il regime costituzionale. Fra le altre decisioni fu presa quella di sollecitare un intervento piemontese e di appellarsi a Francia e Inghilterra per risolvere la questione di Livorno. Ciò non impedì però l'intervento e l'occupazione austriaca. La Commissione fu sciolta dal granduca che affidò il governo a un commissario straordinario nella persona del conte Serristori, e quindi, con un proclama da Napoli, il 24 maggio 1849, veniva costituito il nuovo governo sotto la presidenza di Giovanni Baldasseroni.
In tale governo, composto di reazionari temperati e di moderati, il C. ebbe il ministero di Giustizia e Grazia. Il programma del nuovo governo, che non contemplava, l'abolizione dello Statuto, poteva soddisfare il suo sentimento liberale; ma i successivi provvedimenti presi da Leopoldo II dimostrarono che qualsiasi tentativo di salvare le libertà costituzionali era vano. Demoralizzato e anche debilitato da una grave malattia il C. pensò allora di ritirarsi. Ne fu dissuaso dal Baldasseroni; ma ben presto il governo, nel tentativo di regolamentare con una convenzione la occupazione austriaca, si trovò di fronte a una specie di ultimatum da parte dell'Austria. La maggioranza del Consiglio lo accettò; solo il C. e il ministro degli Affari ecclesiastici, Iacopo Mazzei, espressero parere negativo e si dichiararono disposti a dimettersi, ritenendo la convenzione lesiva dell'indipendenza dello Stato e dei diritti sovrani del granduca. Pregati quindi di non rassegnare le loro dimissioni dalla carica, per non mettere in crisi il ministero, con il pericolo che se ne formasse un altro di impronta austriacante e reazionaria, i due ministri acconsentirono a rimanere. Vollero però una dichiarazione scritta (datata 17 aprile) che comprovasse il loro dissenso e i motivi per cui non si erano dimessi.
Il C. chiarì inoltre la propria posizione con lo stesso granduca che lo aveva invitato a colloquio, il 22 aprile, per discutere sulla convenienza di prendere provvedimenti ancor più restrittivi sulla stampa e ristabilire la censura. Dagli appunti che il C. prese dopo tale colloquio risulta che egli, al contrario, prospettò al granduca la necessità di riattivare completamente lo Statuto.
Il C. rimase in carica fino al 9 sett. 1850, sempre però insistendo per vedere accolte le sue dimissioni. Ritornò quindi a ricoprire la carica di consigliere di Stato in servizio straordinario e in tale qualità prese parte alla discussione sul codice dei delitti e delle pene. Il 6 maggio 1852 veniva definitivamente abolito lo Statuto, nel quale aveva riposto le sue, speranze. I fatti del'59 non lo ebbero più come protagonista, anche se ne seguì lo svolgimento con attenzione. Dopo il plebiscito toscano del 1860 e l'unione alla monarchia sabauda, il C. chiese di essere collocato a riposo; e ciò avvenne col decreto del 27 maggio 1860.
Il C. morì il 3 gennaio 1871, dopo una vecchiaia tormentata da una grave infermità.
Fonti e Bibl.: A. Zobi, Storia civile della Toscana dal MDCCXXXVII al MDCCCXLVIII, V, Firenze 1852, pp. 748, 769 s., 783; G. Baldasseroni, Lepoldo II granducadi Toscana e i suoi tempi, Firenze 1871, pp. 295, 364, 381, 406 s., 420, 585; Id., Memorie 1833-1859, a cura di R. Mori, Firenze 1959, ad Ind.; M. Tabarrini, Ricordi sulla vita diC.C., Firenze 1872; A. Gori, Il Risorgimento italiano (1849-1860). Il Regno d'Italia (1860-1900), Milano s. d., pp. 64 s., 68; G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, III, Milano 1960, pp. 421, 424; IV, ibid. 1964, p. 47; Dizionario del Risorgimento nazionale, II, p. 533.