MARZUCCHI, Celso
– Nacque a Siena il 1° sett. 1800 da Giuseppe e da Carolina Pinzuti in una famiglia di «modesti artisti» (Diz. del Risorgimento nazionale, III, p. 605). Si laureò in giurisprudenza nella città natale, dove prese a esercitare, con immediata fortuna, l’avvocatura. Di idee liberali, nel 1828 divenne presidente di una congrega senese e si affiliò alla Giovine Italia subito dopo la sua fondazione.
Distintosi per le buone doti di oratore, nel 1832 divenne docente di diritto civile nell’Università di Siena, tenendo nel maggio di quell’anno una lezione dal titolo La religione dell’Evangelio è promotrice di ogni perfezionamento sociale (poi pubblicata nell’Antologia italiana di Torino, 1847, dispensa 12, pp. 1-22), nata sull’onda dell’entusiasmo suscitato dai primi atti di governo di Pio IX.
Il M. vi si diceva convinto che il cattolicesimo non fosse solo una confessione religiosa, ma un vero e proprio motore di civiltà; perciò la religione di Cristo – fondamento dell’Europa moderna – era in grado di promuovere il perfezionamento morale, intellettuale, politico ed economico della popolazione.
Ammiratore della filosofia di G.B. Vico, il M. fu poi convinto estimatore di V. Gioberti. Come giurista, evitò di limitare il proprio ambito di studio al diritto francese e approfondì lo studio della scuola storica tedesca, mentre nel campo dell’economia fu attento studioso e sostenitore delle teorie di A. Smith. La sua attività didattica durò ben poco: nel 1833 venne destituito dal governo toscano – che lo teneva sotto controllo per le sue idee politiche – per aver tenuto una lezione giudicata irrispettosa della religione e per i suoi rapporti con la cospirazione mazziniana.
Abbandonò allora Siena per trasferirsi a Firenze, dove, aperto uno studio legale, riprese a esercitare la professione forense. Non tralasciò tuttavia di coltivare altri interessi: grande appassionato di studi classici, fu, sin dal 1838, membro dell’Accademia dei Georgofili, divenendone in seguito vicepresidente. Discepolo di G.D. Romagnosi che lo definì «erede del suo spirito», quale socio ordinario dell’Accademia, nel giugno dello stesso 1838 vi lesse una memoria dal titolo Dei principj fondamentali di filosofia della vita sociale di Gian Domenico Romagnosi (poi in Continuazione degli Atti della R. Acc. economico-agraria dei Georgofili di Firenze, 1838, vol. 16), nella quale ricostruiva il pensiero del maestro, della cui Filosofia del diritto curò l’anno seguente la 5ª edizione. Nel 1843, confermando che la sua attività di studio non si limitava ai soli problemi del diritto, sostenne, in un dibattito svoltosi nell’Accademia, l’opportunità di istituire una banca di sconto del credito fondiario.
Con i moti del 1848 il M. assunse le prime cariche politiche e amministrative: fu dapprima membro e vicepresidente del Consiglio generale del Granducato; venne poi, nello stesso anno, eletto deputato all’Assemblea parlamentare toscana e fu nominato ministro della Pubblica Istruzione nel gabinetto presieduto da G. Capponi. Nel 1849 venne anche eletto deputato alla Costituente toscana. Dopo il fallimento della guerra d’indipendenza, si ritirò dalla vita politica.
Nel 1847, intanto, era entrato in magistratura, dove compì una brillantissima carriera. Fu, infatti, primo avvocato generale della Corte suprema di cassazione del Granducato di Toscana, per poi essere nominato, dal governo provvisorio instauratosi dopo l’allontanamento del granduca, procuratore generale (27 apr. 1859): in tale veste pronunciò, l’11 nov. 1859, il discorso inaugurale del primo anno giudiziario toscano dopo la fine della sovranità lorenese.
Il suo intervento, volto a esaltare il nuovo Stato del quale la Toscana si apprestava a far parte, presentava due importanti riflessioni. Si scagliò duramente contro l’assolutismo ancora presente in altri Stati italiani, affermando che caratteristica delle nazioni civili è che il popolo non tributa un ossequio feudale alla persona del sovrano, ma solo il profondo rispetto dovuto all’idea della civiltà nazionale incarnata nell’istituto monarchico: idea che, a sua detta, Vittorio Emanuele II impersonava appieno da oltre dieci anni. Sostenne inoltre che un magistrato non dovrebbe mai prendere «parte alle commozioni politiche», se non in casi eccezionali, come quello che si stava allora vivendo, per dimostrare il suo amor di patria.
Divenne procuratore generale presso la medesima corte dal 17 marzo 1861. Il 1° genn. 1866 il M. lasciò la procura generale perché chiamato a presiedere la corte d’appello fiorentina. Prima ancora della proclamazione del Regno d’Italia era stato nominato senatore (23 marzo 1860): prestò giuramento nell’aprile dello stesso anno, nella seduta di inaugurazione della sessione parlamentare. Ma la sua attività di legislatore non fu particolarmente intensa.
Convinto sostenitore dell’abolizione della pena di morte, il suo più grande impegno parlamentare fu proprio quello profuso per raggiungere questo importante obiettivo nella codificazione del nuovo Stato.
Tale convincimento aveva in lui origini molto salde, riconducibili alla tradizione toscana; come da lui stesso ricordato in un discorso al Senato il 20 apr. 1865, era infatti vissuto in uno Stato dove, seppur con alcuni intervalli, la pena capitale era stata abolita nel 1786 e, comunque, mai più applicata dal 1830 e definitivamente abolita nel 1859, per cui riteneva «stato naturale di una società civile […] la mancanza del carnefice». Nello stesso discorso affermò che, nel dibattito sulla pena di morte, venivano poste in genere due questioni: la legittimità e la necessità della pena stessa. Al riguardo, pur ammettendo di non essersi mai del tutto persuaso della inviolabilità della vita dell’uomo, si dichiarò contrario al mantenimento della pena proprio in quanto la giudicava non necessaria. Si disse inoltre certo che per combattere l’istinto a delinquere l’arma più efficace fosse, con ogni probabilità, il carcere a vita, il cui carattere afflittivo gli appariva ben più temibile della pena di morte.
Temendo, non a torto, di non riuscire nel suo intento, il M. tentò anche una strada alternativa, impegnandosi per impedire l’estensione alla Toscana delle norme del codice penale sardo che disciplinavano la pena di morte, nel presupposto che, se era difficile accettare il mantenimento in vigore di tale pena, un suo richiamo in vigore fosse del tutto inaccettabile. Usando un’espressione di grande efficacia, si augurò, nel discorso già citato, che il governo italiano, trasportando la capitale a Firenze, non si facesse «accompagnare dal carnefice». Il suo impegno per il mantenimento dell’abrogazione della pena di morte nei territori ex granducali ebbe successo, ottenendo il voto favorevole della Camera dei deputati.
All’interno del Senato il M. fu membro, tra le altre, della commissione per l’esame del progetto di legge per prorogare l’estensione dei codici sardi nelle province emiliane (1861), nonché di quelle istituite per l’esame, rispettivamente, del progetto di codice civile (1861), del progetto di legge sui feudi veneti (1869) e del progetto di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario (1870). Del Senato fu anche e per lungo tempo vicepresidente, avendo ricoperto tale carica per quattro volte: dal 1861 al 1863, dal 1865 al 1867, dallo stesso 1867 al 1870 e, infine, da quest’ultimo anno al 1871.
Nel 1866 gli toccò il delicatissimo compito di presiedere l’Alta Corte di giustizia del Senato in un processo di grande rilevanza pubblica: quello in cui fu giudicato e condannato l’ammiraglio C. Pellion di Persano, ritenuto responsabile della disfatta italiana a Lissa nella guerra per la liberazione del Veneto.
Il M. rimase in magistratura fino al compimento del settantacinquesimo anno di età. Morì a Firenze il 15 ag. 1877.
Lo commemorò in Senato il presidente S. Tecchio, il 17 dic. 1877. Tra le onorificenze assegnategli, la gran croce dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro e il gran cordone dell’Ordine della Corona d’Italia.
Fonti e Bibl.: Le Assemblee del Risorgimento. Toscana, Roma 1911, I, pp. 28, 30, 49 s., 54, 60, 192, 228, 274, 277-309, 315, 317, 385, 483-540; II, pp. 212, 217, 440, 448, 600; III, p. 84; Atti parlamentari, Discussioni, Senato, VII-XII legislatura, ad indices; L. Grottanelli, I moti politici in Toscana nella prima metà del sec. XIX, studiati sopra i rapporti segreti inediti della polizia, Prato 1902, p. 76; Nicola Nicolini e gli studi giuridici nella prima metà del sec. XIX: scritti e lettere, a cura di F. Nicolini, Napoli 1907, pp. 114-116; Repertorio biografico dei senatori dell’Italia liberale. Il Senato subalpino, a cura di F. Grassi Orsini - E. Campochiaro, Roma 2005, II, pp. 605-608; Diz. del Risorgimento nazionale, III, s.v.; Enc. biografica e bibliogr. «Italiana», F. Ercole, Gli uomini politici, II, pp. 266 s.