MARTINENGO, Celso
(Massimiliano). – Nacque a Brescia il 5 ott. 1515 dal conte Cesare (II) detto il Magnifico (1477-1527) e da Ippolita Gambara, figlia del conte Pietro, dodicesimo di venti tra fratelli e sorelle, e ricevette il nome Massimiliano. La famiglia era una delle più notabili della città: radicata sul territorio sin dal X secolo, imparentata con diversi lignaggi dell’aristocrazia veneta, viveva allora il periodo del suo massimo splendore.
Il ramo della famiglia cui apparteneva il M., quello Cesaresco, aveva avuto origine dal bisnonno Cesare (I), uomo d’arme al servizio prima dei Visconti, poi del re di Napoli e infine della Repubblica veneta. Il padre, Cesare (II) di Giorgio, era entrato a sua volta giovanissimo nella milizia veneta; sposatosi nel 1495, abbandonò il servizio nel 1509 per dedicarsi da allora ad accrescere il prestigio e la ricchezza della famiglia grazie a una straordinaria abilità negli affari.
Nonostante la notorietà della famiglia, le notizie sulla formazione del M. e sulla sua vita sono frammentarie e lacunose.
Negli anni decisivi per la crescita del M., Brescia era un centro culturale e religioso straordinariamente vivace. Il decennio che intercorse tra la morte dell’ottuso vescovo Paolo Zane (1531) e l’arrivo, nel 1540, dello strenuo oppositore del vescovo Pietro Paolo Vergerio, il canonico Annibale Grisonio di Capodistria, in qualità di vicario del nuovo vescovo Francesco Corner (che continuò a risiedere tra Roma e Venezia così come fece anche il nipote Andrea, che gli succedette nel 1542), fu caratterizzato da tendenze innovatrici sul piano culturale e spirituale. Già durante la quaresima del 1531 predicò nella chiesa di S. Afra l’ex benedettino F. Negri, il primo italiano appartenente a un ordine religioso che fu esule religionis causa. Egli, inoltre, discusse nel monastero di S. Faustino Maggiore per una giornata intera con il confratello e amico V. Maggi (che pure abbandonò più tardi l’Ordine e aderì alla Riforma) di fede, Bibbia, Riforma e Chiesa di Roma. Eventi siffatti non restavano certo chiusi entro le mura del monastero, tanto più in un ambiente come quello bresciano, che vedeva fiorire, tra laici e chierici, l’interesse e l’adesione alle proposte erasmiane per la riforma della Chiesa e della pietà, ma anche serpeggiare tendenze criptoluterane. Nel circolo che radunava intorno al filosofo V. Maggi (da non confondere con l’omonimo benedettino) diversi intellettuali già sodali a Padova di Pietro Bembo, cardinale dal 1539, nacque la prima traduzione italiana dell’Enchiridion militis christiani (1531) a opera del segretario generale del Comune Emilio Emigli; nel 1542, dallo stesso ambiente uscì, a cura del carmelitano Marsilio Andreasi, la prima traduzione italiana di un altro testo significativo di Erasmo da Rotterdam, il De immensa Dei misericordia, incentrato sul tema della grazia e della giustificazione per fede.
Tali sollecitazioni dovettero giungere al M. anche dall’ambiente familiare, se Grisonio denunciava con preoccupazione riunioni sospette di filoerasmiani e filoluterani, promosse dal prelato Gian Francesco dei Martinengo da Barco insieme con i fratelli Ludovico, Alessandro ed Ercole; né va dimenticato che un altro loro fratello, Ulisse (1545 circa-1570), con cui spesso il M. viene confuso, emigrò per motivi di fede in Valtellina insieme con la madre Laura Gavardi. Vicini al sentire critico di Erasmo appaiono anche i fratelli maggiori del M., Girolamo, abate di Leno e nunzio apostolico a Vienna, e Fortunato, poeta, mecenate e fondatore dell’Accademia dei Dubbiosi.
In data imprecisata ma assai precoce, il M. entrò nell’Ordine dei canonici regolari lateranensi, dove assunse il nome Celso pronunciando i voti nel monastero di S. Afra al compimento dei 18 anni. Nel 1526 poté ascoltare le prediche di un brillante agostiniano, il fiorentino Pier Martire Vermigli, fresco della laurea in teologia conseguita nello Studio padovano. Compì gli studi, non è noto se nelle Università di Padova, Venezia e Ferrara oppure nelle scuole dell’Ordine, allora piuttosto rinomate, e raggiunse un livello di preparazione elevato.
Nel capitolo generale che si svolse a Cremona nel 1541 il M. fu promosso predicatore e destinato al convento lucchese di S. Frediano insieme col coetaneo G. Zanchi, con cui dal 1536 era in stretta amicizia. Contemporaneamente come priore del convento fu designato Vermigli, che giunse a Lucca da Napoli arricchito dall’intenso rapporto di amicizia e di discepolato con Juan de Valdés e il suo circolo.
Raffinato umanista e predicatore ormai famoso, ma anche sacerdote, Vermigli mise mano a un’opera di riforma radicale del convento, ristabilendo la disciplina e gli studi. Come insegnanti chiamò alcuni dei più dotti confratelli: P. Lazise per il latino, E. Tremellio per l’ebraico, il M. per il greco, aprendo anche ai giovani laici lucchesi quel «primo e ultimo istituto teologico riformato nell’Italia pretridentina, una università brillante, anche se in miniatura, di cui Martire era il Rettore» (Mc Nair, p. 255). Il tipo di riflessione teologica che accompagnava lo studio delle lingue bibliche è illustrato dall’elenco di quanti in quegli anni si legarono al convento di S. Frediano: da C.S. Curione a F. Robortello, R. Turrettini, N. Diodati, G. Liena, M. Gigli, N. Arnolfini e tanti altri, i cui nomi si ritrovano nella diaspora italiana nell’Europa riformata, oppure nei verbali dell’Inquisizione.
Nel 1542 il fallimento dei colloqui di Ratisbona segnò l’emarginazione del cardinale Gasparo Contarini e di quanti, come lui, si erano spesi nei tentativi di dialogo e di composizione della frattura; inoltre il prevalere della posizione intransigente del cardinale Gian Pietro Carafa e l’istituzione dell’Inquisizione romana resero sempre più difficile mantenere aperti spazi di discussione e riflessione sul rinnovamento della Chiesa e sulle Scritture: la fuga divenne per molti l’unica scelta possibile. A Lucca, forse per la preoccupazione di dover subire sgradite intromissioni dell’Inquisizione, pericolose per la stessa indipendenza della Repubblica, le autorità decisero di esercitare un controllo più stretto anche sulle attività di S. Frediano; così, dopo poco più di un anno dal suo arrivo, Vermigli fuggì insieme con Lazise e Tremellio, riparando a Strasburgo.
Il M. rimase in Italia, ma i suoi movimenti di quegli anni non sono chiari. Secondo Pascal, anch’egli si allontanò da S. Frediano, svolgendo essenzialmente il compito di predicatore in diverse città. Stando alla testimonianza del carmelitano A. Castiglioni (con cui nel 1554 ebbe un breve scambio epistolare sul tema del nicodemismo), nel 1546 il M. si fermò a Genova durante il viaggio verso Monaco per predicarvi la quaresima. Protetto dalla autorevolezza e dalle relazioni della sua famiglia, ma anche abile nel mascherare con un prudente atteggiamento nicodemitico le proprie convinzioni ormai calviniste, il M. non destò particolari sospetti all’interno dell’Ordine. Infatti nel 1549 presenziò come sotius del preposto di Brescia, Giovanni Battista, al capitolo generale, che lo destinò priore a S. Frediano per l’anno 1550 (Acta capitularia Congregationis Lateranensis). L’anno successivo approdò al convento anche il suo vecchio amico G. Zanchi. Nella veste di priore, il M. difese i privilegi del convento dalle pretese giurisdizionali del vescovo di Lucca; inoltre manifestò di non apprezzare la gerarchia ecclesiastica e la Chiesa cattolica come appurò il locale Offizio sopra la religione nell’autunno 1550.
Nel 1551 il M. avrebbe dovuto recarsi al capitolo generale fissato per la terza domenica dopo Pasqua a Ravenna insieme con Zanchi, designato «socio capitolare». Il M., però, partì in anticipo diretto a Milano, dove doveva predicare la quaresima in S. Maria a Brera. Il 15 febbraio scrisse al confratello e amico I. Chizzola, inquisito a Roma per sospette propensioni riformate, confidandogli la propria inquietudine, la «piaga del core» che lo tormentava, e la decisione presa: «da Dio incatenato, contro ogni mio volere e determinazione, son venuto a Milano et ho comminciato hoggi a predicare. Sia fatta la volontà del Signore, io predicherò con quella diligentia che potrò: Nostro Signore me guidi» (Il processo inquisitoriale del cardinale Giovanni Morone, II, 2, p. 1111).
Le prediche milanesi attirarono su di lui l’attenzione di Girolamo Muzio, segretario del governatore Ferrante Gonzaga, che in aprile formulò accuse di eterodossia; pertanto il M. decise di fuggire nei Grigioni. Alla fine dell’estate «cum magno dolore carnis sed summa cum laetitia spiritus» (Bravi, p. 46) lo seguì G. Zanchi. Dalle lettere a H. Bullinger, risulta che nei Grigioni il M. incontrò diverse difficoltà e nel corso di quell’anno si spostò molte volte tra Coira, Tirano, Vicosoprano (dove risiedeva Vergerio), Chiavenna; si spinse fino a Zurigo e infine a Basilea, ormai deciso a emigrare in Inghilterra, dopo aver respinto le accuse di anabattismo diffuse a Coira contro di lui e Vergerio. A Basilea, nel marzo 1552, il marchese di Vico, Galeazzo Caracciolo, che si trovava in città insieme con Calvino, gli propose di stabilirsi a Ginevra come predicatore della comunità italiana, ormai piuttosto numerosa. Il M. accettò l’incarico e svolse il suo ministero fino alla morte.
Nel volgere di pochi anni dall’adesione alla Riforma, Ginevra era divenuta rifugio per molti italiani emigrati religionis causa, tanto che nel 1541 fu creata la Borsa italiana per provvedere alle spese di culto e per sostenere i giovani negli studi. Appartenenti alle più diverse estrazioni sociali, i rifugiati italiani provenivano da tutta la penisola ma i gruppi più numerosi erano costituiti da esuli dal Piemonte, dal Milanese e da Lucca; nel corso del Cinquecento, secondo de Ziegler, il loro numero oscillò tra le 4 e le 5000 unità. Per un breve periodo (1542-45) la «nazione» italiana aveva avuto il suo predicatore, Bernardino Ochino, ma dopo la sua partenza solo la determinazione del marchese Caracciolo – che ne fu l’anima – e la disponibilità del M. resero possibile la nascita di una Chiesa vera e propria, che per circa due secoli rispose all’esigenza di una predicazione in lingua italiana. Riunioni e culti, che con Ochino avevano avuto luogo nella cosiddetta «chapelle du cardinal», furono spostati in altri locali, finché nel 1557 gli italiani ottennero un vero e proprio tempio. L’organizzazione della Chiesa era inizialmente abbastanza semplice: al pastore si affiancavano due o tre deputati, eletti per un anno e rieleggibili; dal marzo 1556, ma soprattutto con il successore del M., il senese L. Ragnoni, la comunità si organizzò meglio, costituendo un collegio formato dal pastore, dal catechista, da 4 anziani e 4 diaconi, che si riuniva regolarmente ogni settimana, in stretto rapporto con il Concistoro ginevrino, a cui tutti i casi in discussione dovevano essere sottoposti preliminarmente.
Esaminato e approvato dalla venerabile Compagnia dei pastori, il M. si stabilì a Ginevra con lo status di habitant, passando quattro anni dopo a quello di bourgeois. Nel febbraio 1556 sposò una esule inglese, Jeanne Strafford, vedova Williams.
La comunità italiana era piuttosto vivace, talora turbolenta, anche dal punto di vista dottrinale. Estremamente rigoroso nella custodia dell’ortodossia calvinista, il M. affrontò contrapposizioni, spesso dure, con diversi membri della comunità, alcuni insofferenti a ogni disciplina, altri attratti dalle posizioni antitrinitarie (M. Gribaldi Moffa, G.P. Alciati della Motta, G.G. Biandrata, V. Gentile) che generarono nella comunità discussioni e divisioni risolte solo con il richiamo alla comune confessione di fede e l’allontanamento di quanti non accettarono di sottoscriverla.
Il M. morì a Ginevra il 12 ag. 1557.
Del M., unanimemente lodato per la cultura raffinata e la predicazione efficace, si sono conservate solo poche lettere; a lui è però attribuita la traduzione italiana di alcuni testi collegati a problemi molto vivi nella comunità italiana e al suo ministero pastorale. La prima è la versione italiana di alcuni scritti di Calvino, il De vitandis superstitionibus (1549) cui furono aggiunti quattro sermoni (Del fuggir le superstitioni che ripugnano a la vera e sincera confession de la fede…, Ginevra, Jean Crespin, 1553; un esemplare è conservato a Firenze presso la Biblioteca nazionale nel Fondo Guicciardini). La seconda è il volume, con prefazione dello stesso Calvino, XX Salmi di David tradotti in rime volgari italiane, secondo la verità del testo ebreo… Segue poi la forma de l’orationi ecclesiastiche, col modo d’amministrare i sacramenti, etc. secondo che s’usa ne le buone Chiese. Appresso segue un Catechismo (Ginevra, Jean Crespin, 1554); in apertura, il sonetto «O voi che così nobile e pregiata» sarebbe, secondo Droz (p. 164), opera originale del Martinengo.
Fonti e Bibl.: Ravenna, Biblioteca Classense, Mss., 222: Acta capitularia Congregationis Lateranensis, cc. 116, 128; Bullingers Korrespondenz mit den Graubündnern…, I, Januar 1533 - April 1557, a cura di T. Schiess, Basel 1904, ad ind.; E. Droz, Chemins de l’hérésie, Textes et documents, I, Genève 1970, pp. 159-165, 253; Il processo inquisitoriale del cardinale Giovanni Morone, a cura di M. Firpo - D. Marcatto, I, Roma 1981, pp. 287-289; II, 2, ibid. 1984, pp. 1111-1113; J.B.G. Galiffe, Le refuge italien de Genève aux XVIe et XVIIe siècles, Genève 1881, p. 144; O. Grosheintz, L’Eglise italienne a Genève au temps de Calvin, Lausanne 1904, pp. 47 s., 67; A. Pascal, Una breve polemica tra il riformatore C. M. e fra’ Angelo Castiglioni da Genova, in Bulletin de la Société d’histoire vaudoise, XXXV (1915), pp. 77-89; B. Guerrini, Una celebre famiglia lombarda: i conti di Martinengo. Studi e ricerche genealogiche, Brescia 1930, pp. 241 s.; F.C. Church, I riformatori italiani, a cura di D. Cantimori, I-II, Firenze 1935, ad indices; E. Rivoire, Eresia e Riforma a Brescia, in Boll. della Soc. di studi valdesi, LXXVIII (1959), p. 45; H. de Ziegler, Genève et l’Italie, in Genève et l’Italie. Études publiées à l’occasion du 50e anniversaire de la Société genevoise d’études italiennes, a cura di L. Monnier, Genève 1969, pp. 6 s.; F. Chabod, Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, Torino 1971, pp. 232, 354, 356, 444; Ph. Mc Nair, Pietro Martire Vermigli in Italia. Un’anatomia di una apostasia, Napoli 1971, ad ind.; M. Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino 1974, ad ind.; B. Viviano, Il libro della nobiltà lombarda, II, Milano 1978, pp. 94-96; G.O. Bravi, Gerolamo Zanchi, da Lucca a Strasburgo, in Arch. stor. bergamasco, I (1981), pp. 38, 43 s., 47, 52; D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, a cura di A. Prosperi, Torino 1992, ad ind.; S. Adorni Braccesi, «Una città infetta». La Repubblica di Lucca nella crisi religiosa del Cinquecento, Firenze 1994, ad ind.; C. Di Filippo Bareggi, Predicazione e dissimulazione nell’Italia del Cinquecento, in Per Marino Berengo. Studi degli allievi, a cura di L. Antonielli - C. Capra - M. Infelise, Milano 2000, pp. 224-249; R.A. Lorenzi, Per un profilo di M.C. M. (Brescia 5 ott. 1515 - Ginevra agosto 1557), in Riformatori bresciani del ’500. Indagini, a cura di R.A. Lorenzi, San Zeno al Naviglio 2006, pp. 105-168.