GALLERANI, Cecilia
Nacque a Milano nei primi mesi del 1473, molto probabilmente nella casa situata nella parrocchia di S. Simpliciano dove dal 1455 vivevano il padre Fazio e la madre Margherita Busti, figlia di Lorenzo, dottore in legge, e sorella di Bernardino, francescano degli osservanti.
I Gallerani appartenevano al novero delle famiglie che costituivano l'apparato burocratico della corte degli Sforza. Secondo il Calvi, Fazio proveniva da una famiglia del patriziato senese che aveva ramificato a Milano da quando Sigerio, nonno della G., vi era giunto perché, di fede ghibellina, era entrato in contrasto con i parenti, che erano invece di parte guelfa. Nel 1467 Fazio fu inviato come ambasciatore presso la Repubblica di Firenze e tre anni dopo venne destinato, con il medesimo incarico, a Lucca. Da Francesco Sforza aveva inoltre ricevuto l'esenzione da tutte le imposte, ordinarie e straordinarie; il privilegio gli fu poi confermato nel 1468 dalla duchessa Bianca Maria. Proprietario anche di alcuni terreni a Carugate, Fazio non apparteneva però al patriziato milanese - cui i Gallerani risultano ascritti solo dal 1670 - né era particolarmente ricco. Dettando le sue ultime volontà il 29 nov. 1480, pochi giorni prima della morte avvenuta il 5 dicembre, Fazio nominò eredi universali i suoi sei figli maschi: Sigerio, Lodovico, Giovanni Stefano, Federico, Giovanni Francesco e Giovanni Galeazzo. Alle due femmine, Zaneta e la G., lasciò la somma di 1000 ducati ciascuna; nominò inoltre la moglie Margherita tutrice dei suoi otto figli.
Nel 1483 Margherita con un atto del 15 dicembre promise la G. in sposa a Giovanni Stefano Visconti, maggiore di 24 anni, figlio di Francesco e Ginevra Corti. Le nozze si sarebbero dovute celebrare di lì a un anno, quando la G. avesse raggiunto i dodici anni, ma le cose andarono per le lunghe e nel giugno del 1487 la promessa di matrimonio venne formalmente sciolta. È possibile ipotizzare che il fallimento delle nozze sia stato determinato dalla più allettante prospettiva presentatasi ai Gallerani, con l'incontro, in data non nota, della G. con Ludovico il Moro. Già nel 1489, il 7 maggio, i fratelli Gallerani, probabilmente proprio perché forti di un appoggio così altolocato, presentarono una petizione per riavere alcuni possedimenti confiscati forse quando era ancora vivo Fazio. Dalla riuscita dell'operazione dipendeva anche la riscossione da parte della G. dei 1000 ducati previsti nel testamento paterno, cifra che ancora nel 1508 non sembra avere ricevuto. Alla data della petizione la G. non abitava ormai più con i fratelli nella casa paterna, ma in una non meglio specificata abitazione nella parrocchia del Monastero Nuovo, probabilmente il luogo predisposto dal Moro per i suoi incontri con la giovane. Nel suo ruolo di protettore della G. e dei suoi familiari, nel giugno del 1489 Ludovico intervenne personalmente per mettere pace tra i Taverna e Sigerio Gallerani, a tutto vantaggio di quest'ultimo, che la scampò nonostante si fosse macchiato dell'omicidio di un esponente di quella famiglia.
Proprio mentre si avvicinava la data delle nozze con Beatrice d'Este, da celebrarsi nel 1490 secondo gli accordi presi nel 1480, Ludovico il Moro portava avanti la relazione con la Gallerani. L'8 nov. 1490 Giacomo Trotti, ambasciatore estense presso la corte degli Sforza, scrisse preoccupato al duca di Ferrara dicendosi perplesso circa il desiderio di Ludovico di avere lì "la madonna Duchessa nostra", dal momento che passava molto del suo tempo con "quella sua inamorata che 'l tene in castello et da per tutto dove il va, a la quale il vole tuto il suo bene et è gravida et bella come un fiore, et spesso me mena cum lui a vederla; ma il tempo, che non è da sforzare, acuncia ogni cossa" (Malaguzzi Valeri, 1929, I, p. 503).
In realtà di tempo ne dovette passare ancora molto prima che lo Sforza si decidesse ad allontanare dal castello l'innamorata, che era per di più in attesa di uno dei suoi molti figli naturali. Beatrice d'Este divenne moglie di Ludovico il 16 genn. 1491, ma la relazione con la G. continuava perché, secondo il Moro, Beatrice si rifiutava di adempiere ai suoi doveri coniugali. È quanto il Moro stesso rivelò al Trotti, il quale immediatamente riferì a Ferrara, il 14 febbraio, che il Moro gli aveva detto "in la orechia che 'l voleva andare in rocha a fare quello facto a Cecilia et a stare cum epsa in piacere poiché sua molgere cussì voleva, per non volere stare ferma" (Uzielli, 1890, pp. 26 s.). Le pressioni su Ludovico da parte di Beatrice per indurlo a tagliare i ponti con i suoi passati amori portarono il Moro a promettere che si sarebbe liberato al più presto della Gallerani. ll Trotti prontamente scriveva il 21 marzo ai suoi padroni che Ludovico "più non la vole tochare ni menarsela dredo essendo grossa come l'è, et mai più da poi che l'harà figliato" (ibid., p. 27). Il 7 aprile l'ambasciatore estense tornava a rassicurare la corte ferrarese scrivendo che il Moro aveva predisposto in città un appartamento per la Gallerani. Facendo vedere che preparava l'allontanamento della G. dal Castello sforzesco, Ludovico tentava così di tenere buona la moglie e di rassicurare i suoi importanti e preoccupati parenti, ma intanto tradiva il desiderio di sostituire l'esile G., ormai non più tale a causa della gravidanza, con una più giovane e fresca concubina; passaggio di consegne registrato dal Murialto e che avvenne di lì a qualche anno, quando giunse tra le braccia del Moro Lucrezia Crivelli.
Il 3 maggio 1491 la G. mise al mondo Cesare Sforza Visconti e il 18 maggio, come premio, Ludovico le donò il feudo di Saronno. La G. non si decideva ancora a farsi da parte sollevando così Beatrice da quello scomodo e per lei sempre perdente confronto. È infatti probabile che, almeno fino all'anno successivo, la G. rimase nel Castello. La cosa certa è, invece, che non uscì affatto dalle grazie del Moro.
Bernardo Bellincioni, poeta fiorentino dal 1485 insediatosi a Milano, in una lettera al Moro del 26 febbr. 1492, scrisse: "i desinai iermattina con madama Cecilia et fuvi jer sera et sono el favorito: che per Dio facemo ridere sino al signor Ceseri quale è grasso, dico grasso, et perché io indovinai che 'l sarebbe maschio, so arò grazia con sua signoria" (Ghinzoni, 1889, p. 418). Bellincioni scrisse anche tre sonetti per celebrare la nascita; in questi versi la G., chiamata a volte "isola" in base al fatto che il nome "Cecilia" rimanda a Sicilia, viene celebrata come colei che ha portato a maturazione il seme del Moro.
Fu probabilmente proprio grazie al contatto col Bellincioni e, forse, con qualche altro erudito della corte sforzesca, che la G. si avvicinò alle lettere e alla poesia, imparando per di più a verseggiare in latino, come scrive Matteo Bandello in una delle sue novelle e come ripete più tardi il Della Chiesa. La G. continuò a intrattenere relazioni col mondo della cultura anche quando uscì, del tutto o solo parzialmente, dalla vita di Ludovico. Creò una sua piccola corte nel palazzo Carmagnola, che il Moro aveva donato al figlio, nel quale la G. andò ad abitare con Lodovico Bergamini, marito procuratole dal Moro e da lei sposato nel 1492. In questo palazzo il 14 sett. 1496 accolse gli ambasciatori della Serenissima, giunti da Venezia per incontrarsi con Ludovico il Moro.
Oltre al Bellincioni, la G. fu certamente in contatto con Matteo Bandello e con Giangiorgio Trissino, al quale nel 1512 scrisse una lettera che accompagnava un suo sonetto andato perduto, con la quale chiedeva al letterato "quella operetta del stato viduile con l'agionta della educazione de li filglioli, come latre volte mi ha promesso" (Morsolini, 1878).
Un altro artista legato al nome della G., sin dai tempi dei suoi primi incontri con lo Sforza, è Leonardo da Vinci, che le fece un ritratto. Una prima testimonianza del dipinto la diede il fiorentino Bellincioni in uno dei suoi sonetti editi nel 1493, l'anno successivo alla sua morte, avvenuta a Milano il 12 sett. 1492. Del dipinto trattano inoltre le due lettere del 1498 intercorse tra Isabella d'Este e la Gallerani. Rispondendo il 29 aprile a una missiva di tre giorni prima, con la quale la marchesa di Mantova le aveva chiesto di avere in visione la tela di Leonardo per confrontarla con alcuni ritratti di Giovanni Bellini in suo possesso, la G. scrisse che avrebbe provveduto immediatamente, sebbene quell'immagine fosse riferibile alla sua giovinezza e non le fosse quindi più somigliante.
Già nel corso dell'Ottocento il ritratto della G. eseguito da Leonardo fu riconosciuto in una serie di dipinti, nessuno dei quali è ascrivibile alla mano del pittore toscano. L'ipotesi oggi più accreditata, sebbene il più delle volte enunciata in formula dubitativa, è quella che vuole la G. nei panni della Dama con l'ermellino, tela conservata nella Collezione Czartoryski di Cracovia. Tale identificazione si basa sul fatto che la versione greca della parola "ermellino" (γα) riecheggerebbe il cognome della G., secondo una prassi che Leonardo aveva già sperimentato nel Ritratto di Ginevra Benci il cui nome è associato al ginepro. È stato inoltre notato (Pedretti, 1990) che Ludovico il Moro fu investito del titolo dell'Ermellino nel 1488 da Ferrante di Aragona, re di Napoli, e che il Bellincioni nel sonetto CXXVII delle sue Rime aveva chiamato lo Sforza "l'italico Morel, bianco ermellino". Come si legge in un manoscritto di Leonardo databile intorno al 1494, e come appare nel cartiglio apposto accanto all'animale nel Cavaliere Thyssen dipinto intorno al 1510 da Vittore Carpaccio, il candido ermellino è simbolo chiarissimo di purezza, dal momento che preferisce morire piuttosto che sporcarsi. Se la giovane del ritratto di Cracovia è davvero la G. (e le date coinciderebbero considerato che l'indagine stilistica ha rivelato trattarsi di un'opera degli anni 1488-90, quando la G. aveva i diciassette anni che dimostra la protagonista del quadro), l'animale andrà letto come spavalda esibizione di purezza e candore da parte della concubina di Ludovico il Moro, il quale apparirebbe araldicamente allegorizzato nella figura dell'ermellino che la G. tiene tra le braccia.
Voluto da Ludovico, che per farlo realizzare incaricò il suo pittore prediletto, il ritratto eseguito da Leonardo rimase di proprietà della G. e a lei tornò anche dopo la breve trasferta del dipinto a Mantova, come fa pensare la lettera del 18 maggio 1498 nella quale rivolgendosi a Isabella, scriveva: "Non bisognava che la Signoria Vostra usasse con me termine de ringratiare, perché ogni mie cosa, con me insieme, sono alli piaceri de quella" (Brown, 1969). I rapporti tra la G. e Isabella, cognata di Ludovico Sforza, rimasero buoni anche in seguito. Il Luzio (1901) ricorda in proposito che proprio presso la marchesa di Mantova la G. e il marito trovarono asilo e protezione l'anno dopo, quando furono costretti a fuggire da Milano in seguito alla caduta del Moro. Rientrata subito dopo in possesso dei suoi beni grazie anche all'aiuto fornitole da Isabella, la G. tornò nella sua città natale e lì continuò, anche durante il periodo francese, a vivere e a frequentare poeti e letterati, come è testimoniato dalla lettera al Trissino del 1512.
La data della sua morte non è nota; in proposito il Calvi ha scritto: "pare che Cecilia campasse […] fino verso l'anno 1536".
Fonti e Bibl.: F. Muraltus, Annalia ab a. 1492-1519, a cura di P.L. Donini, Milano 1861, p. 54; B. Bellincioni, Rime, a cura di P. Fanfani, Bologna 1876, pp. 47 s., 72, 96; A. Luzio, Nuovi documenti suLeonardo da Vinci, in Arch. stor. dell'arte, I (1888), p. 45; Id., Nuovi documenti. Ancora Leonardo da Vinci e Isabella d'Este, ibid., p. 181; P. Ghinzoni, Lettera inedita di Bernardo Bellincioni, in Arch. stor. lombardo, XVI (1889), pp. 417 s.; M. Bandello, Le novelle, a cura di G. Brognoligo, Bari 1910, I, pp. 44 (I, 3), 259 s. (I, 21); V, p. 230 (IV, 18); C. Brown, Little known and unpublished documents concerning… LeonardodaVinci…, in L'Arte, n.s., II (1969), 7-8, pp. 188-191; F.A. Della Chiesa, Theatro delle donne letterate, Mondovì 1620, p. 124; F. Calvi, Famiglie notabili milanesi, III, Milano 1874, tavv. 1 s.; B. Morsolin, Giangiorgio Trissino o monografia di un letterato del secolo XVI, Vicenza 1878, pp. 455 s.; A. Luzio - R. Renier, Delle relazioni di Isabella d'Este Gonzaga con Ludovico e Beatrice Sforza, in Arch. stor. lombardo, XVII (1890), pp. 641; G. Uzielli, Leonardo da Vinci e tre gentildonne milanesi del sec. XV, Pinerolo 1890, ad nomen; V. Cian, Fra Serafino, buffone. Notaillustrativa al "Cortegiano" di Baldassar Castiglione, in Arch. stor. lombardo, XVIII (1891), p. 409; G. Uzielli, Leonardo da Vinci, II, Torino 1896, ad indicem; A. Luzio, Isabella d'Este e la corte sforzesca in Arch. stor. lombardo, XXVIII (1901), 1, pp. 153 s.; F. Malaguzzi Valeri, La corte di Lodovico il Moro. La vita privata e l'arte a Milano nella seconda metà del Quattrocento, Milano 1929, I, ad indicem; C. Pedretti, La "Dama con l'ermellino"come allegoria politica, in Studi politici in onore di Luigi Firpo, a cura di S. Rota Ghilardi - F. Barcia, I, Milano 1990, pp. 164 s.; J. Shell - G. Sironi, C. G.: Leonardo's "Lady with an ermine", in Artibus et historiae, 1992, n. 25, pp. 47-66; J. Shell, in Leonardo. La dama con l'ermellino (catal.) a cura di B. Fabjan - P.C. Mariani, Milano 1998, pp. 51-65.