CATERINA da Siena, santa
Nacque a Siena, nel "popolo" di S. Pellegrino, della contrada dell'Oca, nei pressi di Fontebranda, in una numerosa e modesta, ma non povera, famiglia del "popolo minuto". Suo padre fu il tintore Iacopo di Benincasa; sua madre, la seconda moglie di lui, Lapa di Puccio di Piagente.
Due precisazioni s'impongono. L'una riguarda l'erronea usanza di parlare di una Caterina "Benincasa",quasi che fosse questo il suo nome di casato, laddove si tratta solo di un patronimico, non ancora divenuto cognome: e pertanto dobbiamo più correttamente chiamarla Caterina di Iacopo di Benincasa. L'altra questione, tuttora dibattuta, riguarda la sua data di nascita. Nella Legenda maior di frate Raimondo da Capua, che possiamo considerare la sua biografia ufficiale, troviamo, a proposito della sua morte (1380), la specificazione "ad tricesimum tertium aetatis annum, in quo ex hac luce migravit": dunque C. sarebbe nata nel 1347. Un altro biografa, frate Tommaso Caffarini (Legenda minor),fornisce la medesima data - assai probabilmente derivata dalla precedente leggenda - ma accompagnandola con un prudente circiter. Un Anonimo fiorentino, autore dei Miracoli della beata C., ci fa sapere che nel 1374 ella era "d'etade di venzette anni", e non pare che sia stato influenzato dalle due leggende suddette. Concordia dunque delle principali fonti, circa la data iniziale e quindi la durata della vita di C.: 33 anni. Robert Fawtier non presta però fede incondizionata a quella data di nascita e propone di arretrarla di circa 10 anni, ritenendo che così si spiegherebbero meglio una serie di episodi della vita di C., specie per i suoi primi decenni. Tale presa di posizione è stata sottoposta a serrata critica (Jordan, Mandonnet, Taurisano), e si è compreso che non vi è motivo di escludere che C. sia effettivamente nata nel 1347 e morta a 33 anni. Gli è che i suoi primi biografi, piùsolleciti nell'esaltare la santa che non accurati nel precisarne la cronologia, arricchirono il constatato dato di fatto mettendolo in parallelo con pie "conformità",come quella con gli anni di Gesù Cristo, forse, ma certamente con la durata del ritiro nel deserto di Maria Maddalena, al culto della quale la C. prestava una particolare devozione.È tradizione ch'ella inclinasse assai per tempo verso una vita mistico-contemplativa. All'età di sei anni, trovandosi nella località senese di Vallepiatta, avrebbe avuto una visione soprannaturale, di Cristo benedicente in trono fra santi, "secondo che veduti gli aveva per le chiese dipinti",e ne sarebbe restata sì impressionata da darsi a pratiche ascetiche e a far voto di verginità: primo abbozzarsi di una nascente esperienza mistica. Dodicenne, i genitori pensarono di maritarla e C., sotto l'influsso della sorella Bonaventura, attraversò una assai modesta "crisi di vanità",giungendo perfino a tingersi i capelli. Ma la morte prematura della sorella la scosse al punto di farla decidere di mutar vita. Impossibile, e qui fuori di luogo, cercar di precisare le tappe e i modi del suo procedere verso un ambito scopo: la vestizione dell'abito delle terziarie domenicane, allora dette "mantellate",associazione di pie donne di condizione vedovile. Fu la prima vergine che entrasse a farne parte, sul finire del 1364 o nel 1365.
I suoi biografi ci dicono delle difficoltà che C. ebbe a superare, a questo proposito, in famiglia, dove si tentò invano d'indurla a vita "mondana",o che tale ad essa sembrò. Infine riuscì ad ottenere nella casa paterna una specie di cella domestica, dove passò circa tre anni di vita ascetica e meditativa. Naturalmente ebbe anche i suoi confessori e guide spirituali, tutti domenicani: il fiorentino frate Angelo degli Adimari, il senese fra' Tommaso della Fonte - parente acquisito di C. ed anche suo familiare, nella casa di Fontebranda - e poi frate Bartolomeo Dominici, che intuì per primo l'ingegno e la viva spiritualità di lei.
In quegli anni C. sviluppò l'intelligenza, iniziò la sua esperienza mistica, si formò una cultura non superficiale, soprattutto grazie al diuturno contatto con i padri domenicani e anche la consuetudine con religiosi di altri Ordini: francescani, agostiniani, gesuati. Da menzionare in modo particolare due spiccate personalità di religiosi: l'inglese ed eremita agostiniano Guglielmo Flete, persona assai istruita, e il vallombrosano Giovanni dalle Celle, anch'egli di buona cultura. C. apprese ben presto a leggere il breviario (in latino?) e le vite dei santi Padri (probabilmente nella versione del Cavalca), a lei modelli, queste, di perfezione. La colpì in special modo, fin dall'infanzia, la storia di s. Eufrosina, la vergine che si acconciò da uomo per poter vivere da cenobita nel deserto, fra gli altri monaci. Non è un caso se uno dei discepoli a lei più cari, Neri di Landoccio Pagliaresi, compose in versi una Istoria di sancta Eufrosina.
Proprio a tre religiosi del convento di S. Domenico di Siena dobbiamo i testi fondamentali per la biografia di Caterina.
Ne inizia la serie il già menzionato fra' Tommaso della Fonte, con certi suoi quaterni (chiamati poi Miracula)in cui venne annotando, per circa un decennio e fino al 1374, ciò che osservava e sentiva della sua penitente e della sua esemplare vita mistica. Purtroppo questo diario, insostituibile fonte per gli anni dell'adolescenza di C., non è giunto sino a noi, ma di esso poté ancora valersi frate Raimondo da Capua per scrivere, fra il 1385 e il 1389,la citata Legenda maior, grossa opera, condotta con notevole impegno critico (per esempio, cita scrupolosamente i suoi informatori e testimoni), ma spesso incerto quanto alla cronologia.
Nel primo decennio del secolo XV il senese fra' Tommaso d'Antonio Caffarini si dedicò totalmente a favorire il culto di C., compilando due opere nettamente agiografiche e con finalità edificante: la Legenda minor o abbreviata, fedele compendio di quella "maggiore",e un Supplementum ad essa, con lo scopo dichiarato "ut quidquid inveniri potest ne depereat de dictis vel factis suis" (e cioè di C.), per il che egli adunò materiale da ogni parte, restando però sempre un impreciso e insieme prolisso narratore.
Egli fu anche l'anima del cosiddetto Processo Castellano, inchiesta che deriva il nome dall'aver avuto il suo centro in Venezia (diocesi di Castello) negli anni 1411-1416. Furono allora raccolte 26 deposizioni, di religiosi e di laici, circa le virtù di C. e il culto che il popolo le veniva già tributando: non si tratta a ogni modo di un vero processo di canonizzazione, che si avrà solo nel 1461, per merito di papa Pio II.
Tutto fa pensare che C. non fosse temperamento di anacoreta; e forse non sarebbe stata nemmeno adatta alla vita claustrale. L'attiravano invece le necessità e le vicende del prossimo, e la possibilità di aiutarlo cristianamente. Non è senza significato se intorno a lei si formò spontaneamente la cosiddetta "famiglia": un insieme elettivo di poche decine di persone, profondamente religiose e di una certa cultura e dottrina, tutte animate da un medesimo ideale di vita, secondo lo spirito; gruppo non veramente organizzato al modo clericale, ma pur unito in maniera commovente a C., la "mamma", che a sua volta era assai legata a loro, come dimostrano numerose sue lettere. Ne facevano parte uomini e donne, sia laici sia religiosi, e non tipicamente solo contradaioli di Fontebranda, ma di ogni parte della città, del contado e della Toscana. Speciale importanza ebbero in questo cenacolo quattro o cinque persone di stato laicale, che si possono considerare segretari della santa e che più specialmente le furono accanto, come esperti nello scrivere sotto dettatura. Erano quasi tutti di nobile estrazione e senesi: Neri di Landoccio de' Pagliaresi, poi Stefano di Corrado Maconi, Francesco di Vanni Malavolti, poi il fiorentino Barduccio di Piero Canigiani, e, altro senese, Cristofano di Gano Guidini, particolarmente adatto a fungere da segretario in quanto era di sua professione notaio. Si può dare per certo che C. si avvantaggiò molto dal lato culturale dell'ininterrotta consuetudine con loro.
Non abbiamo alcun appiglio per individuare, anche solo in via d'ipotesi, il momento in cui C. incominciò ad occuparsi di politica, e cioè della vita attiva nel campo dei rapporti umani, "mondani": forse intorno al 1370. Il Fawtier non esclude che vi siano stati rapporti fra lei e il papa Urbano V, morto il 19 dicembre di quell'anno, nel qual caso si potrebbe pensare a qualche sua esortazione o rampogna, connessi o col ritorno del papa a Roma, oppure con il successivo abbandono della città, già motivi, come è noto, per l'animosa azione di Brigida di Svezia. Nulla di simile tuttavia risulta nel nostro caso.
I contatti di C. col nuovo papa Gregorio XI si dovettero avviare abbastanza per tempo, e in modo indiretto. Ebbero luogo attraverso due alte personalità ecclesiastiche: Pietro d'Estaing, cardinale d'Ostia, e Berengario abate di Lézat, ambedue inviati dal papa in Italia. C. fu in rapporti diretti, forse personali, ma comunque epistolari, con ambedue, in date purtroppo non precisabili con esattezza. Con il Lesatense vi è stato un vero scambio di lettere: in una di queste (n. 109) C. augura al cardinale che abbia "fame" di vedersi spiegare il gonfalone della santissima croce. È questo uno dei primi accenni nelle lettere, circa la crociata.
A questo proposito va citata una ben nota lettera, nella quale Giovanni delle Celle, scrivendo a una certa suora Domitilla - la quale aveva chiesto il suo consiglio circa il proposito di recarsi alla crociata, seguendo l'incitamento di C. -,risponde sconsigliandola nettamente (Nel dispregio del mondo. Collazione dell'abate Isaac e Lettere del b. Gio. delle Celle..., Milano 1839, pp. 296-303). È interessante notare che la lettera è datata 1º luglio del 1372,e ci permette quindi di supporre che C. potesse avere già qualche anno prima iniziato a far propaganda per questa idea, che l'avrebbe accompagnata per tutta la vita. Della crociata si parla anche in una lettera (n. 28) che, a quanto pare, nell'inverno 1373-74 C. mandò a Bernabò Visconti, con il quale (e con la famiglia del quale) ella intratteneva allora rapporti epistolari. Tale scambio di lettere con la corte viscontea testimonia che C. agli inizi degli anni Settanta era conosciuta anche fuori di Siena, come donna di santa vita e con la quale ci si poteva confidare, e che lei stessa aveva preso contatto con la realtà politica del tempo. Ad ogni modo, fu l'inizio di quella che la Denis-Boulet chiama la sua "carriera politica". A tale nuova esperienza contribuiva anche il mondo cittadino senese. Ne dà prova la lettera (n. 123) che C. scrisse ai reggitori di quel Comune.
Il 1374 fu per C. anno molto importante anzitutto perché entrò in diretti rapporti con papa Gregorio XI. Poco prima della domenica delle Palme (26 marzo), ella scriveva, da Siena, a Bartolomeo Dominici e a Tommaso Caffarini, che il papa "à cominciato a excitare [sic] l'occhio verso l'onore di Dio e della santa Chiesa",inviando a lei il prelato spagnolo Alfonso di Valdaterra - già stato confessore di s. Brigida di Svezia (morta il 23 luglio dell'anno precedente) per invitarla a fare "speciale orazione" per il papa e la Chiesa, "e per segno mi recò la santa indulgentia". È da ritenere che tale missione avesse uno scopo esplorativo e sia stata voluta dal papa stesso, che voleva avere informazioni sicure sul conto della mantellata senese, la cui fama gli era certamente pervenuta, e forse anche accompagnata da commenti e dicerie non proprio benevoli. E può anche darsi che intendesse ricorrere a lei in una mansione del tutto particolare e assai gelosa: quella di subentrare alla visionaria svedese nella qualità di "rivelatrice" della volontà di Dio, soprattutto in relazione con la difficile questione dell'abbandono di Avignone e del ritorno a Roma. Naturalmente C. non mancò di scrivere al papa ponendosi a sua disposizione, ma cogliendo anche l'occasione per raccomandargli la causa della crociata, il "santo passaggio". Ma la lettera non è giunta fino a noi.
Nella primavera dello stesso anno, C. venne convocata d'autorità davanti al Capitolo generale dell'Ordine dei frati predicatori, a Firenze. Vi accenna il già citato Anonimo fiorentino, nei suoi Miracoli della beata C.; purtroppo non ci dice nulla né sul movente della convocazione, né sull'andamento dell'inchiesta, ché di questa si dovrebbe esser trattato, ed è assai probabile che fosse stata decisa per le chiacchiere che dovevano correre sul suo conto. Sembra però da escludere che si svolgesse un vero processo inquisitorio, vertente cioè sull'ortodossia della mantellata senese (ad esempio, circa i suoi possibili rapporti con l'ambiente degli spirituali). Se inchiesta vi fu, la conclusione dovette esserle favorevole; solo che venne deciso di porle accanto, come direttore spirituale, frate Raimondo da Capua, perché "la governi e corregga come gli parrà opportuno".
La chiamata a Firenze significò una vera svolta nella vita di Caterina. Non è un caso che iniziasse allora la serie dei suoi viaggi, il suo apostolato itinerante e, anche, il suo interessamento per la politica.
Ritornata a Siena, C. vi trovò la peste. Dalla descrizione che ne lasciò Raimondo, sembra che si trattasse di una epidemia d'una certa gravità. Non risparmiò la "famiglia" e i congiunti della santa. Ella medesima, racconta l'Anonimo fiorentino, credé di morire e ne ebbe "smisurata letizia". In un raptus particolarmente intenso, la Vergine le avrebbe fatto la promessa che avrebbe ancora procurato l'eterna salvezza a tutta una moltitudine di gente.
Una volta finita la peste, C. accettò l'invito di recarsi a Pisa, pervenutole da parte del capitano generale e difensore di quel Comune, Piero Gambacorti, il quale le aveva scritto a nome di alcune "sante donne". L'accompagnò frate Raimondo: poiché egli figura ancora a Siena il 20 genn. 1375, il viaggio avvenne dopo quella data. A Pisa C. prese dimora nella casa del nobile Gherardo de' Buonconti, sul lungarno, accanto alla chiesetta di S. Cristina, dove, il 1º d'aprile, avrebbe avuto luogo il prodigioso fatto della stimmatizzazione, rimasta però senza tracce, della santa, presenti i due fedelissimi Bartolomeo Dominici e Raimondo. C. non ne fa mai alcun accenno.
Durante il soggiorno pisano C. ricevette la visita di un ambasciatore della regina di Cipro che si recava ad Avignone per sollecitare il papa alla crociata. Con ogni probabilità l'ambasciatore cipriota richiese l'incontro non già perché la fama di C. fosse giunta alla sua isola, ma perché a Pisa fu informato dello zelo con cui la mantellata si era dedicata alla crociata.
Del soggiomo pisano di C. è noto, oltre alla sua visita al monastero certosino dell'isola della Gorgona, un episodio che si riferisce a Giovanni Hawkwood, l'Acuto, il noto capitano di ventura, accampato presso la città. In una loro lettera (giugno 1375), due inviati fiorentini riferiscono alla Signoria di aver incontrato Raimondo che, insieme con un altro, andava al campo dell'Acuto, e portava con sé una lettera di C. (n. 140), a questo indirizzata, per incitarlo a partecipare alla crociata; e pare che tanto l'Acuto quanto i suoi "caporali" ne avessero preso impegno formale, per iscritto e autenticato "di loro suggelli".
Ricco, come s'è visto, d'interesse, il soggiomo a Pisa lo diviene ancor più se si ricollega, come tutto fa credere possibile, alla più nota delle "esperienze mistiche" cateriniane: quella connessa con il supplizio capitale di una persona innominata, ma che la didascalia della lettera 273 qualifica come perugino e il Caffarini chiama col nome di Nicolò di Toldo. A questo evento il Fawtier dedica un intero capitolo, certamente fra i più originali e sconcertanti. Documenti d'archivio senesi testimoniano che un Niccolò di Toldo, perugino, venne in Siena arrestato e sottoposto a severa inchiesta, per motivi che si possono ritenere connessi con il moto anticuriale che proprio allora si avviava ed è probabile che egli abbia intrigato in Siena a favore della Chiesa. Di lui s'interessò personalmente un alto dignitario ecclesiastico, vicario generale di Perugia, l'abate di Monmaggiore, e ne esistono le prove che collocano il fatto nel giugno 1375. Nessuna prova, però,della sua condanna e del supplizio capitale. C., scrivendo a frate Raimondo la celebre lettera, non ne fa il nome ma dice solo "colui che vi sapete". Abbiamo almeno due dubbi: sull'identità del condannato; sull'avvenuto suo supplizio (non è da escludere che l'intervento dell'abate di Monmaggiore sia valso a salvargli almeno la vita). E poi: Caterina nel giugno era a Pisa, e il supplizio avvenne a Siena. È possibile che C., attesa, come tutto fa pensare, l'importanza del fatto, si sia mossa appositamente da Pisa per perorarne la causa, o per essergli accanto nel supremo momento. Il Fawtier, che precedentemente aveva ritenuto trattarsi nientemento che d'un falso, autore frate Tommaso Caffarini, ha poi finito per ritenere autentica la lettera, ma al tempo stesso la ha presentata come il resoconto di una visione, addirittura telepatica, avuta da C., di un altro supplizio capitale, per cause politiche, quello del noto poeta fiorentino Giannozzo Sacchetti, decollato in Firenze nel 1379.
Nel 1376 C. si recò ad Avignone presso il papa Gregorio XI: è questo l'avvenimento più noto della sua vita "politica",e quello su cui si è più discusso.
L'interpretazione del viaggio è resa ardua da alcuni interrogativi che non trovano soddisfacente risposta. Essi riguardano anzitutto il movente; poi i rapporti fra C. e il papa, essendo essa in Avignone; poi ancora il risultato concreto di tanto impegno. Per il movente del viaggio si è pensato a tutti gli scopi perseguiti dalla santa: la crociata, la pacificazione in Italia, il ritorno della Curia papale a Roma, la riforma della Chiesa; in più la questione della fondazione di Belcaro. Si condizionano l'un l'altro, in modo intricato. A quanto pare, predomina la crociata: ancora all'inizio del 1376 C. continuava a credere, non solo alla sua possibilità, ma anche ai suoi effetti sicuramente positivi, e il Fawtier constata in lei "una ignoranza e una incomprensione totale della situazione"; dice inoltre, contraddicendosi, ch'ella "non è un agente qualificato della Santa Sede nel campo della politica",e "non ha nulla a che fare con la lotta politica che oppone il papa alle città italiane". Ingeneroso può dirsi il giudizio di Fawtier su C., ma non ingiusto; effettivamente ella aveva una visione tutta sua dello stato di cose: vedeva la politica in modo sentimentale (Getto).
Il viaggio ad Avignone fu fatto, presumibilmente per mare, in due tempi: dapprima (marzo o aprile 1376) vi andò frate Raimondo con alcuni della "famiglia"; poi, nel giugno, C. con gli altri. Furono forse tutti ospitati nel palazzo papale, e il soggiorno avignonese durò dal 18 giugno alla seconda metà di settembre del 1376.
Senza dubbio la necessità più urgente era quella di porre fine alla ribellione delle città italiane, e soprattutto di Firenze, che ne era centro e focolaio, e per questo era stata colpita da interdetto. Attira la nostra attenzione in modo del tutto particolare ciò che C. e Raimondo erano in grado, e solo loro, di riferire al papa circa i propositi dei Fiorentini: singolare e infelice vicenda che, in quanto documentata, si può esporre in modo schematico.
C. aveva impiantato la questione in modo errato, presentandosi come mediatrice fra il papa e i Fiorentini e assumendo, in proprio, degli impegni su cui non c'era alcun vero accordo e che ella non poteva mantenere. Il curioso è che, chiudendo una lettera ai Signori di Firenze (Pasqua 1376), aveva fatto l'assai sensata affermazione: "grande simplicità sarebbe d'aspettare e fidarmi di quello che io non ò, né sono secura d'avere". Èproprio ciò ch'ella fece. Certamente un incontro in Firenze stessa, e prima della partenza per la corte papale, deve essere avvenuto fra C. ed i "Signori" (forse i soprastanti della Parte guelfa, come suppone il Fawtier). La santa stessa ne riepilogherà più tardi la vicenda: la condizione da lei posta, che i Fiorentini si lasciassero presentare al papa "come figliuoli morti",cioè rassegnati alla sua volontà; la "lettera della credenza",cioè le credenziali, da lei richieste ma non ottenute; il patto che, venendo ad Avignone gli inviati ufficiali di Firenze, "noi conferissimo insieme d'ogni cosa"; e l'intesa "che questo si faccia mai per altra mano che per servi di Dio"; infine la conclusione sfiduciata: "egli s'è fatto tutto 'l contrario, perché si è seguito e' modi astuti del mondo, facendo altro in effetto che non s'era porto con la parola". Gli inviati fiorentini vennero effettivamente ad Avignone, ma la santa non poté nemmeno parlar loro. Fallimento completo, dunque, nei riguardi sia del papa sia di Firenze, della mediazione sì incautamente offerta da Caterina.
Per quanto riguarda poi i rapporti con il papa, appare fuor di discussione che essa si sia incontrata con lui, di persona, anche se il Fawtier non lo ritiene provato né, forse, probabile; in quanto il fatto che, avendo C., pur stando in Avignone, scritto al papa ben quattro lettere, dimostrerebbe che ella non riusciva a vederlo e parlargli di persona. Al che si potrebbe opporre che tali lettere (o almeno una tra esse) possono essere state scritte, e lasciate dopo il colloquio al papa, perché potesse riflettervi su.
Che ella fu ricevuta dal papa è affermato da frate Raimondo, il quale narra di aver fatto da interprete fra i due. È più che probabile che si sia parlato di Firenze, ma il papa si sarà accorto ben presto che C. non aveva le idee chiare in fatto di politica: si era tenuta su un piano prettamente religioso e spirituale per sistemare una questione del tutto "temporale". Gli è che la sua concezione della politica, dice il Fawtier, era assolutamente "elementare".
Raimondo da Capua, riferendosi probabilmente al primo incontro col papa, ne cita il commento conclusivo: "credimi, Caterina, ti hanno ingannata o t'inganneranno. Non manderanno nessuno, oppure, se invieranno un'ambasceria, sarà tale da risultare inutile". Questa dunque la delusione patita da C., a proposito di uno degli scopi del suo viaggio. Secondo il Fawtier ella sarebbe stata giocata, sia dal papa sia da Firenze, l'uno altrettanto privo di scrupoli quanto l'altra. Il peggio fu certamente che la fama dell'accaduto deve aver creato o consolidato nella Curia uno stato d'animo sfavorevole per Caterina.
Significativi, al riguardo, sono anche due episodi del soggiorno avignonese: l'interrogatorio cui fu sottoposta da parte di tre illustri teologi - evidentemente su incarico del papa - e che riguardò i suoi rapporti con Firenze, ma soprattutto la sua ortodossia. Le risposte e il comportamento di C. dovettero però riuscire così convincenti, che i dubbi sulla sua santità di vita disparvero e quei prelati poterono dare su di lei un giudizio del tutto favorevole; il papa stesso avrebbe commentato, parlando con il Casini, che, se quei tre dottissimi non avessero trovato la mantellata così solidamente fondata nella fede, "ella non avrebbe fatto mai un peggiore viaggio". Parole, queste e tutto l'episodio, che parrebbero da ricollegarsi a quella atmosfera di dubbio e di diffidenza che, due anni prima, aveva provocato la chiamata davanti al capitolo generale di Firenze.
Il papa sarà rimasto deluso anche da un altro punto di vista: aveva sperato, soprattutto, di trovare in lei - come abbiamo già detto - una veggente, che gli potesse rivelare la volontà divina riguardo alle decisioni che doveva prendere, particolarmente circa il ritorno a Roma.
Veramente, non è che C. tacesse del tutto. Le sue lettere alludono più volte al "santo proponimento" che il papa aveva già preso, proprio riguardo al suo "avvenimento". Nella lettera 229, scritta forse ancora da Firenze, ella fa un interessante accenno ad una precisa richiesta del papa: "Voi mi dimandate dell'avvenimento vostro, e io rispondo e dico da parte di Cristo crocifisso che voi veniate". Tono nettamente da "rivelazione" ha la lettera 255: il papa ha chiesto a lei che gli palesi la volontà divina, e C. ("costretta so' dalla prima dolce verità di dirlo") gli trasmette veri e propri ordini: "la volontà sua, padre, è questa e così vi dimanda" e poi ripete: "la volontà sua si è questa, e così vi domanda...",poi, "ancora dimanda la dolce volontà di Dio...". La lettera chiude in tono sconsolato (perché, a quanto pare, il papa non le aveva più dato udienza): "volentieri l'arei detto alla vostra propria persona... quando piacerà alla vostra santità ch'io venga, verrò volentieri". E c'è un altro passo importante (lett. 233), riferibile agli ultimi giorni prima della partenza per Roma. Il papa aveva chiesto a C., attraverso frate Raimondo, "che io pregasse Dio se doveste avere impedimento, e io già n'avevo pregato... non vedevo né morte né pericolo alcuno". Insomma, se ella sul piano della politica aveva nettamente fallito, è da riconoscere che nella sua mansione di "rivelatrice" non dovette mancare del tutto alla fiducia del pontefice.
La tarda estate del 1376 fu sotto il segno dell'incertezza e dell'ultimo combattimento. Il papa continua a chiedere lumi e C. non si tace: "Pregando io el nostro dolce Salvatore per voi, sì come mi mandaste dicendo, manifestando Egli ch'io dicessi a voi che voi doveste andare",e dicendo Cristo a lei: "digli sicuramente che questo ottimo segno li dò... che quanti più contrarii li veranno, e più li sarà contradetto ch'egli non vada, più si sentirà cresciare una fortezza... che è questo contra 'l modo suo naturale" (lett. 238). Ribadisce in altra (lett. 239): sia "forte e perseverante ... non sia fanciullo timoroso, ma virile",sia "uomo fermo e stabile" e segua il consiglio dei servi di Dio. Parole dure, queste, e anche troppo franche. È probabile che il papa se ne adontasse e rifiutasse di riceverla più: ne sarebbe indizio il tono attristato e ansioso delle quattro lettere che, sempre stando ancora in Avignone, ella gli manda, e chiede che le dia udienza per l'ultima volta, prima che ella se ne parta.
Èun punto questo, indubbiamente importante, ma anche, fin da quel tempo, soggetto a varie interpretazioni. Raimondo attribuisce all'intervento di C. un valore decisivo per l'abbandono di Avignone, e si esprime così: "ipsa eum inducente",quasi che il papa non vi avesse già pensato di per sé. Bartolomeo Dominici racconta (nel Processo Castellano)del voto fatto dal papa in segreto ma mirabilmente conosciuto da C., e da lei rivelatogli. Per Stefano Maconi (anch'egli nel Processo) la santa si sarebbe limitata a rafforzare il proposito del papa, "ipsa solummodo confortante". Concordano dunque nel sottolineare una certa funzione persuasiva sul papa. Il fatto è che, dopo il ritorno della Curia a Roma, si sarà mosso alla mantellata l'addebito di aver causato così, più o meno direttamente, la grande crisi dello scisma e quindi ne avrebbe avuto, in certo modo, la corresponsabilità. Comprensibile la cura d'attenuarne la portata.
Caduta in disgrazia presso il papa e non più ammessa a parlargli, fatta oggetto di una sorta di congiura del silenzio, C. decise allora di abbandonare per qualche tempo Avignone e prender contatto con Luigi, duca d'Angiò, fratello del re Carlo V di Francia, per convincerlo a non ostacolare la partenza di Gregorio XI da Avignone. A quanto pare l'Angiò era devoto di C., la fece venire al castello di Roquemare e sembra che l'avesse fatta invitare dal re a Parigi. Da rilevare,a questo punto, il riapparire del tema della crociata: l'Angiò promise a C. che vi sarebbe andato a spese proprie, anzi come capo della spedizione. Quello della crociata, stando a Rainiondo da Capua, sarebbe stato addirittura il motivo principale, quello vero, del viaggio di C.; e viene da chiedersi se la visita a Luigi d'Angiò non sia stata programmata proprio con questo intento.
Ritornati ad Avignone, C. ed i suoi partirono alla volta dell'Italia, non sappiamo se prima o dopo la partenza del papa e della corte. Una cosa è certa, che se ne andarono per proprio conto, probabilmente per via di terra (Marsiglia, Tolone, poi Varazze, dove sostarono brevemente, e la tradizione se n'è conservata sul luogo). Una sosta prolungata fu fatta a Genova, dove la santa e i suoi vennero ospitati dalla nobildonna Orietta Scotti. A causa d'una malattia del Maconi e del Pagliaresi, il soggiorno si protrasse per un mese. Sembra che, sostando il convoglio papale in quel porto, i due s'incontrassero ancora. Raimondo afferma che il papa avesse mutato di propositi, e C. avrebbe ancora una volta sostenuto la sua volontà vacillante. Non ne abbiamo alcuna prova, eccetto una preghiera "fatta per la detta vergine a Genova per removere papa Gregorio dal proposito di tornare a dietro". Così la didascalia dell'orazione; e nel testo si prega Dio che il papa "non ascolti i consigli della carne... e non si spaurisca per niuna aversità". Non vi è motivo di dubitare della preghiera, ma sì dell'incontro e colloquio fra il papa e C., più o meno fantasioso, e certamente non comprovabile.
Per quel che riguarda la partenza del papa da Avignone, quando questa apparve irrevocabile, venne fatto, nell'ambiente avignonese, un estremo tentativo per trattenerlo, nella forma di uno scritto pseudoprofetico, inviatogli - almeno così si diceva - da parte di un eremita in fama di santità e trasmesso dal papa a C.: vi si prospettava a Gregorio XI la morte per veleno, se fosse partito per Roma. Lo apprendiamo da una lettera di C. (n. 239), tra le sue più vive e battagliere.
Il viaggio fu fatto: partito da Avignone il 13 settembre, il papa dopo la sosta a Genova (18-28 ottobre) sbarcò a Corneto (il 6 dicembre) e di qui mosse per Roma ove entrò il 17 genn. 1377. Esaurite dunque tutte le possibilità d'una politica, diciamo, "secolare" - intrapresa comunque con una candida semplicità -,C. si mette in disparte per qualche tempo: più esattamente, si dedica a un programma più concreto, perché limitato alla sua patria cittadina.
La vediamo chiedere al Consiglio generale del Comune di Siena l'autorizzazione ad accettare il dono, fattole da un ricco cittadino, delle rovine di un fortilizio, ormai in disarmo, della cinta difensiva della città: C. assicura,e lo dimostra, di aver già ottenuto dal papa il permesso di crearvi un convento di monache. Si tratta di Belcaro, e d'un progetto che C. meditava da anni: il Fawtier ha supposto addirittura che, appunto per ottenerne l'autorizzazione del pontefice, C. si sia recata ad Avignone; osserva anche che si tratterebbe di una fondazione d'impronta non tipicamente domenicana, bensì piuttosto francescana, come parrebbe denotare il nome che le fu dato, di S. Maria degli Angeli. Il 15 apr. 1377 C. ne aveva già preso possesso; ma stette là per breve durata: il 25 faceva ritorno a Siena, e iniziava, come tre anni prima, un suo viaggio nella parte meridionale del contado, con lo scopo di ricondurre la pace fra i capi di due rami rivali d'una medesima famiglia, Cione di Sandro e Agnolino di Giovanni dei Salimbeni, che aveva le sue estese terre nella Valdorcia, e il centro di esse nell'imponente castello di Tentennano, "la Rocca".
Con interesse osserviamo che, anche in questa occasione, la presenza di C. nelle terre di una delle grandi famiglie del contado destò, nei governanti senesi, il sospetto e timore di un "trattato", cioè di un complotto, non meglio specificato. Anche questa volta - e con maggiore perentorietà, dato che si trattava d'una zona d'importanza politico-militare (sul confine dello Stato pontificio) - si diede ordine a C. di ritornare a Siena. Sembra che non avessero tutti i torti. Nella Legenda maior Raimondo ci informa che, dopo qualche settimana passata alla "Rocca",C. aveva inviato lui al papa, per proporgli "alcuni buoni trattati, vantaggiosi per la Chiesa di Dio, purché ben compresi". In maniera convincente, il Fatwier suggerisce che tali intrighi, che ci sembrano inconcepibili se attribuiti a C., possono benissimo aver fatto capo a Raimondo, del quale sappiamo ch'era in contatto con Niccolò Soderini, influente personaggio della Parte guelfa fiorentina, cioè il partito della Chiesa, e Siena stava ufficialmente con Firenze nella guerra contro la Chiesa. Logico che si pensasse a qualche cospirazione che facesse capo - ad esempio - ai Salimbene: e si sarà fors'anche sospettato di C. stessa. C. era a conoscenza di questi sospetti e dichiarava che i soli "trattati" cui tendevano lei e i suoi compagni erano "sconfiggere il dimonio e vollergli la signoria ch'egli ha presa dell'uomo" (lett. 122).
Dunque, commenta assai bene il Levasti, C. e gli amici suoi, oltre che predicare la semplice salvezza delle anime, elaborano "trattati",cioè "piani e disegni politici". Non avrebbe potuto essere altrimenti: nel predicare "Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio, la santa imponeva "una regola di vita assoluta, e quindi un determinato modo di comportarsi con gli uomini, e cioè un sistema di società, e per ciò una politica. Scindere la vita civile dalla religiosa non è possibile, quando la religione è dominatrice dell'animo". Per C. "una politica separata dalla religione non esiste, perché la politica s'identifica con la religione". Dall'accenno fatto da frate Raimondo si può dedurre che "la vergine considerava i trattati politici come parte, o conseguenza, del vivere cristiano, e che per lei non solo una politica separata dalla religione non aveva ragione di essere, ma neppure la concepiva come possibile nell'ambito del Cristianesimo".
"A mezzo marzo" del 1377 C. si recò a Firenze e il cronista Marchionne di Coppo Stefani (in Rer. It. Script., 2 ed., XXX, 1, a cura di N. Rodolico, p. 306) parla di lei con evidente simpatia. Afferma che C. più volte si recò alla Parte guelfa per dire "che l'ammonire era una cosa buona perché avrebbe fatto finire la guerra" (ma ritiene che lo dicesse, non tanto perché ne fosse convinta ma perché quelli della Parte glielo avevano suggerito). Sul suo conto si parlava molto in Firenze: alcuni la ritenevano una profetessa, altri un'ipocrita e addirittura mala femmina. Marchionne di Coppo Stefani non accenna a un particolare che troviamo nel Maconi: ai discorsi ch'ella avrebbe tenuto ai Priori ed agli Otto della guerra; ma è probabile che si tratti d'un'invenzione di lui, così come c'è da dubitare della sua affermazione che "quasi tutta la città" ne fosse commossa e aderisse in mirabile modo al "sano consiglio" della santa. Il 27 marzo 1378 moriva papa Gregorio XI. In punto di morte, racconta il Gersonio (A. Capecelatro, C. da S. e il papato del suo tempo, Roma 1977, p. 237), il pontefice avrebbe "esortato" i presenti a non fidarsi mai di uomini e donnette (mulierculae), che, sotto la veste della pietà, raccontano le loro visioni immaginarie: egli stesso se n'era lasciato abbindolare, trascurando la saggia opinione dei suoi consiglieri, e col risultato di esporre la Chiesa ad uno scisma ormai imminente. Parole che si riferiscono certamente a C., ma forse anche a Brigida di Svezia, e che concordano con il peggioramento dei rapporti fra lui e la mantellata.
Seguì poi la tormentata elezione di Urbano VI. C., che si trovava tuttora a Firenze, se ne rallegrò, probabilmente perché conosceva il Prignano fin dai tempi di Avignone e sapeva della sua onestà e dirittura di comportamento: sperava che con lui si sarebbe avuta la pace in Italia e per conseguenza la riforma della Chiesa e forse anche la crociata.
Poteva interpretarsi come un buon indizio anche la decisione fiorentina che finalmente si rispettasse l'interdetto nelle chiese della città. Non vi mancarono però altri momenti difficili: il 22 giugno si scatenò una sommossa cittadina, il tumulto dei Ciompi. Ne abbiamo sobria notizia in una lettera della santa, che corse allora un rischio mortale. Raimondo ci informa che ella venne poi indotta dai suoi familiari ad abbandonare la città per un rifugio più sicuro; e, stando là, apprese che la pace fra il papa e Firenze era stata firmata (18 luglio 1378). Avrebbe potuto allora ritornare in Siena, ma tardò a farlo perché temeva, o temevano i suoi familiari, che venisse male accolta dai Senesi.
Comunque, nella seconda metà di agosto la troviamo in patria, per l'ultima volta. C'è quasi la certezza che dedicasse l'estate e fino all'ottobre, alla raccolta ed elaborazione del materiale che era venuta adunando per comporre il Libro (o Dialogo).Solo allora esso nasceva come opera letteraria.
Era anche un modo di sostenersi moralmente, in tempi difficili e che si delineavano sempre più minacciosi per la Chiesa. C. sente il pericolo, inerente anche al contegno e comportamento del nuovo papa; gli scrive lettere appassionate e ricche di consigli, si dichiara pronta a combattere, si propone di venire a Roma (senza esserne stata invitata) per rendersi utile, soprattutto da quando, il 20 sett. 1738, a Fondi, i cardinali dissidenti hanno eletto l'antipapa Clemente VII. Allora C. offre tutto l'appoggio suo e del suo mondo di religiosi, e senza esitazione proclama la legittimità di papa Urbano. Ciò ch'era stata fino allora una sua figura retorica, il "campo di battaglia",ella aspira a tradurla in atto, con animo veramente virile. Significativa è la lettera che scrive ai tre cardinali italiani: lettera di duro ammonimento, tutta"magnifica di violenza e di dolore" (Tommaseo).
In quel tempo C. intensifica sistematicamente l'azione epistolare; scrive spesso ed a lungo, a personalità della politica e del mondo chiesastico, a uomini e donne, battendosi bravamente per la causa alla quale si è dedicata senza esitazione. Quale risultato concreto conseguisse non ci risulta, perché non disponiamo di dirette testimonianze. Manchiamo anzi dell'unico possibile mezzo di controllo: le lettere responsive, che non è nemmeno detto vi siano state, così come ignoriamo se le lettere di C. siano state tutte effettivamente spedite e siano sempre giunte a destinazione. Sono però interrogativi che valgono, in genere, per quasi tutto l'epistolario.
Come dice il Fawtier anche queste lettere sono commoventi per ingenuità ("naïveté"). Ella non è al corrente di nulla, cioè dei motivi politici che regolano il comportamento pratico dei personaggi del tempo. Per lei Urbano VI è il vero papa, e chi la pensa diversamente è un demonio incarnato".
Nel corso dell'ottobre-novembre 1378, C. si prepara per il viaggio a Roma. Evidentemente aveva ricevuto, se non un ordine del papa, almeno il suo benestare. Anzi, volle un'autorizzazione scritta, motivandola con le critiche della gente per il suo troppo frequente viaggiare. Quando l'abbia effettuato, ignoriamo: il 30 novembre Lando di Francesco, agente "in corte di Roma" per i Signori di Siena, scrive che C. è giunta di là ed è stata ricevuta e volentieri vista dal papa, ma "non si sa quello che Caterina aveva richiesto",né - integriamo noi - quel che il papa volesse da lei.
Di vivo interesse è un'iniziativa che, a quanto sembra, partì da C. e venne accolta dal papa: la convocazione a Roma, per il 9 genn. 1379, di un certo numero di personaggi del mondo dei religiosi e di santa vita. Così come C. stessa spiega, accompagnando l'invio della bolla papale al priore della certosa della Gorgona, incaricato d'inoltrarla agli altri, il papa vuole avere al suo fianco, come consiglieri, alcuni servi di Dio, per aiutarlo a scegliere il migliore rimedio per la riforma della Chiesa. Insomma, un "consiglio di asceti e di mistici" (Levasti). Non era una idea nuova: già nel marzo del 1377 C. aveva dato a Gregorio XI il consiglio di tenere accanto a sé i veri servi di Dio, mettendoli come "colonna" nel corpo mistico della santa Chiesa (lett. 209). Ottimamente il Fawtier rileva inoltre che così C. riprendeva il grande sogno degli spirituali (e di Celestino V), quello di vedere la Chiesa governata dai santi. L'iniziativa andò fallita: delle personalità più note, due sole, Antonio da Nizza e Guglielmo Flete, dichiararono di aderire all'azione di C., ma non volleroabbandonare la loro solitudine eremitica di Lecceto; Giovanni dalle Celle, altra vigorosa individualità, non accettò. Non per questo C. rinunciò al buon combattimento in pro della Chiesa di Dio e del papa legittimo. Tutta una serie di lettere, sia ad altri religiosi ed eremiti, sia a laici, diffusero le sue calde esortazioni, e lei stessa ottenne dal papa l'indulgenza plenaria per 77 persone, a molte delle quali ella ne diede personalmente notizia.
La conclusione della vita "politica" della santa si ebbe al segno della "déception romaine" (Fawtier), anche per quel che riguardava un altro campo, dove C. deve aver sperato di trovare la via aperta e un buon accoglimento per la sua azione. Si tratta dei rapporti con la regina di Napoli, Giovanna I, già avviati nel 1375 sotto il segno della crociata, ripresi ora sotto quello, ancor meno fausto, dello scisma, complicato per giunta dai voltafaccia della regina (urbaniana fino all'elezione di Fondi, poi clementina, sino alla partenza dell'antipapa per Avignone, quindi ritornata all'ubbidienza di Urbano, per poi nuovamente abbandonarla). C. non vuole rinunciare a convertire la regina, ma, invece di affrontarla con durezza, si limita a compatirla, perché essa presenta "non condizione d'uomo con cuore virile, ma di femmina, senza nessuna fermezza o stabilità, sì come femmina che si volse come la foglia al vento" (lett . 317). Insomma, vuole evitare una rottura e pensa addirittura di recarsi a Napoli, ma il papa non glielo consente per il rischio che essa poteva correre, e lei dovette riconoscerlo: finì per mandare a Napoli Neri di Landoccio Pagliaresi e, attraverso lui, annodò rapporti con alcune pie donne dell'ambiente di corte, ma non approdarono nulla, e C. si lagna anche "di molte altre cose, le quali tutte vanno vote" (lett. 344).
Tra esse una missione semidiplomatica di Raimondo in Francia, nell'intento di convincere alla causa urbaniana quel re. Il frate iniziò effettivamente il viaggio, ma, arrivato a Genova, si perse d'animo e non proseguì; e C. lo rimproverò, accusandolo d'essersi comportato da "fanciullo". Intanto scriveva al re Luigi d'Ungheria ed al principe Carlo d'Angiò (soprannominato "della Pace"), due persone che la Curia contava di utilizzare contro Giovanna.
Un cronista sviluppa in modo arbitrario uno spunto ch'è però autenticamente cateriniano: poiché la santa esorta i reggitori del Comune di Roma a mostrarsi grati alla Compagnia di S. Giorgio - che al servizio di Urbano VI e agli ordini di Alberico da Barbiano aveva sconfitto a Marino i mercenari di Clemente VII (29 apr. 1379) - "sovvenendogli in quello che bisogna, massimamente in questi poverelli feriti",si è detto che lei stessa avrebbe organizzato tale servizio umanitario, ripartendo i feriti tra le principali famiglie romane. Ma ciò non risulta.
Un passo della già menzionata lettera di C. ai tre cardinali italiani (lett. 310) - che, pur non prendendo parte all'elezione di Clemente VII, non avevano avuto il coraggio di opporsi ad essa -,lettera delle più schiette e veementi, è stato spesso citato da chi ha voluto ad ogni costo, e del tutto fuori luogo, vedere in C. un meditato comportamento patriottico: "parlando umanamente, Cristo in terra italiano e voi italiani, - ché non vi poteva muovere la passione della patria come gli oltramontani, - cagione non ci veggo se non l'amore proprio". Qui è ovvio che si ragiona (lo diciamo con le parole del Tommaseo) semplicemente secondo i sentimenti e le ragioni umane, cioè nella forma più elementare e meno "politica" di sentire la "passione della patria". Innegabile il dato di fatto della nazione (intesa come "nascimento"), che è comune sia agli Italiani sia a quelli d'oltralpe, ma che soltanto in questi si muta in "passione". Il papa è sì italiano, ma la sua "nazione" importa meno del suo risiedere in Roma.I due ultimi anni di vita C. li trascorse in una ancor più febbrile attività, dedicata tutta alla propaganda in favore del papa Urbano VI e della riforma della Chiesa.
Osserva giustamente il Fawtier che molte prove di tale attività debbono esser scomparse insieme con le appendici personali delle lettere; ma un certo valore indicativo ha anche la personalità dei destinatari. In genere sono dei politici, ma in quei tempi di sconcerto le scelte di posizione tra papa "di Roma" e papa "di Avignone" non potevano essere che politiche. Ella seguita anche ad essere legata a Siena, dove è restata la parte maggiore della famiglia: scrive al "senatore" in carica, al capitano del popolo (che però è un suo familiare, Andrea di Vanni), ai difensori. Non buone le notizie che le fa pervenire il Maconi: nove cittadini su dieci ritengono Urbano papa legittimo, e il Maconi fa quello che può per la buona causa, ma nel campo spirituale, mentre in quello temporale non c'è da ottenere nulla, data la grande miseria che regna in città e le pretese esorbitanti delle compagnie di ventura. Ma C. insiste: faccia il possibile, e qui esce in una frase che è restata famosa,ed è stata a volte interpretata anch'essa in chiave patriottica: "Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in tutta Italia, non tanto costì" (lett. 368). Ma Siena non reagisce all'invito: è troppo occupata con le proprie difficoltà perché possa curarsi di quelle del papa.
C. s'interessò anche di Firenze, com'è naturale, e di quel Giannozzo che abbiamo già ricordato: reo di aver cospirato in favore di Carlo di Durazzo e del ristabilimento della Parte guelfa, venne arrestato, confessò sotto tortura e fu condannato a morte (15 ott. 1379).
Gli ultimi tempi di vita di C. - poco importa se essi rientrino o no nel novero dei 33 anni - si concludono a Roma. Valore di testamento spirituale e di estrema testimonianza d'affetto hanno due lettere che, senza dubbio, appartengono al tardo inverno del 1380 e precedono di poco la sua morte; e qui va citato anche il commovente testo al quale Barduccio Canigiani affidò il racconto degli estremi momenti della santa.
Breve è l'ultima lettera al papa. È tutta "storica e pratica" e "raccomanda prudenza all'aspro uomo" (Tommaseo), e gli consiglia che "non prometta più di quello che può attendere". Chiude con un accenno, non causale, a quella riforma che C. aveva sempre auspicata. Più lunga, e ricca di umanità dolente, è l'ultima lettera a Raimondo da Capua, in cui C. "narra i suoi strazi e conforti" (Tommaseo). La lettera contiene anche un'indicazione per noi preziosa: "Anco vi prego che il libro e ogni scrittura la quale trovaste di me... ve lerechiate per le mani, e fatene quello che vedete che sia più onore di Dio...".
Un lascito, dunque.
C. morì a Roma il 29 apr. 1380.
La teologia di C. - quella che potremmo chiamare la teologia di C. (teologia non "speculativa" ma "affettiva" in alto grado) - non investe, ovviamente, tutta la dottrina cattolica, ma la domina nella sua integrità. Prende le mosse da un assioma dommatico: "Dio è Colui che è, l'uomo non è",e ne traggono origine sia il "cognoscimento di Dio in noi",sia il "cognoscimento di noi stessi": sono ambedue il solo fondamento della vita spirituale e il punto di partenza di ogni virtù. Vi si fonda anche la notissima e assai suggestiva similitudine della "cella interiore" (o cella "del cognoscimento di sé"), il luogo di rifugio spirituale che tutti possiamo avere e portare sempre con noi. Tale metafora, ben nota a chi si occupa di C., non è però di sua invenzione, ché deriva da un topos assai diffuso nella letteratura mistica e che risale parecchio addietro nel tempo.
Tutti gli scritti di C., e specialmente il Dialogo, costituiscono una sola "grande meditazione" (Getto) sul mondo interiore dell'uomo, meditazione che, in modo assai caratteristico, è tutta condotta sul piano psicologico; e su questo piano si trova per esempio anche il suo ragionare sulla preghiera. Com'è comprensibile, C. parla assai spesso dell'orazione, e consiglia quale sia il modo migliore per pregare. Secondo il consueto metodo scolastico, distingue tre tipi d'orazione, progressivamente ordinati. Dapprima viene l'orazione "continua",quella del "continuo e santo desiderio" (e cita l'orate sine intermissione di s. Paolo). Viene poi l'orazione "vocale",imperfetta di sua natura: si ha quando si recitano preghiere già fatte, "comuni al gran consorzio de' fedeli" (Tommaseo). Terzo modo di pregare è l'orazione "mentale",tutta interiore: ad essa si passa abbandonando la vocale, allorquando ci si sente "visitati da Dio",ma alla vocale si deve poi ritornare, "acciò che la mente stia piena e non vota". Punto di arrivo è l'orazione "continua" che comprende tutto ciò che si fa per amore.
C. segue di frequente nelle sue considerazioni uno schema triadico. Così, in primo luogo, quando ragiona sulle "attribuzioni" (cioè gli attributi essenziali) delle tre persone della triade. Esse sono: per il Padre la sapienza, per il Figlio la potenza, per lo Spirito (che procede dal Padre e dal Figlio) la clemenza. Fu l'amore che costrinse Dio a creare l'uomo, il quale è inferiore soltanto a Lui; e tutto il resto venne creato in servigio dell'uomo e come suo "strumento",di cui egli si serve a gloria di Dio ed a proprio vantaggio. Il corpo dell'uomo è infatti strumento dell'anima: ognuno dei suoi organi "lavora il lavorio che gli è dato a lavorare",e si accordano fra loro in un medesimo concento: "suonano a vita".
L'anima è l'essenza dell'uomo. Essa ha tre potenze, attraverso le quali l'uomo partecipa della Trinità: in lui, all'attribuzione del Padre corrisponde la memoria, a quella del Figlio l'intelletto, a quella dello Spirito la volontà. Tre proprietà, queste, che costituiscono l'unità dell'anima: per esse l'uomo può dirsi fatto a immagine e similitudine di Dio.
L'anima umana vien paragonata ad una città murata, che ha tre porte (e cioè le sue tre potenze): due di tali porte possono essere assaltate ed a volte "aperte per forza"; la terza no: "solo la porta della volontà è in nostra libertà, la quale à per sua guardia il libero arbitrio, ed è sì forte questa porta che né dimonio né creatura la può aprire, se la guardia nol consente".
L'uomo è considerato da C. con indulgente simpatia e non condannato per le sue deficienze e i suoi fallimenti. Nel giudicarlo, C. è sempre guidata da un profondo senso materno e molta comprensione. Ad esempio, per quel che riguarda il peccato: C. non lo concepisce al modo ossessivo del tradizionale asceta (le "tentazioni di s. Antonio"); né lo vede dualisticamente, perché non ne fa un'opera demoniaca, ma lo interiorizza, come una realtà di cui l'uomo dispone, scegliendo il bene o il male secondo la propria libera volontà.
Sempre a questo proposito è da menzionare, in modo del tutto particolare, un tipico suo concetto, che corrisponde anche alla sua costante linea di condotta: la virtù della discrezione o della "carità ordinata",secondo la quale essa stessa si comporta, e l'applica nelle varie forme con cui può presentarsi la vita del cristiano. È esemplare il paziente modo con cui C. giudica e guida i suoi discepoli e figli spirituali, nel praticare l'ascesi: il rapporto fra la prassi mortificante e la vita di ogni giorno è visto non come contrasto, ma come equilibrio, retto dal buon senso, dalla "misura",il corpo non è più considerato come fomite di peccato, o come un nemico da soggiogare, ma, come un "discepolo",al quale viene applicata la "regola della discrezione",per l'appunto. Non vanno pertanto imposte eccessive e arbitrarie penitenze.
C. ha fortissimo il sentimento dell'amore-carità: non viene però presentato in maniera troppo astrusa e tormentata, o, peggio, sensuale-erotico, ma è visto come gioia, esultanza, serena giocondità: così come lo pratica C. stessa.
Nel panorama della sua spiritualità manca quasi del tutto il mondo della natura, pur creato da Dio; la natura che nella contemplazione di Francesco d'Assisi si era mutata in un vero atto religioso. Si astiene anche dal considerare l'aldilà, l'oltretomba, così familiari soggetti per predicatori, scrittori di "assempri",artisti figurativi.
Tipico è come rifugge dalla concreta e inevitabilmente grottesca raffigurazione del demonio: menzionato assai spesso, è vero, ma come perversa intelligenza, che spinge l'uomo al male, ma non si può sostituire alla sua libera decisione. Sempre a questo proposito è frequente un motivo che sembra di personale ideazione di C.: quello dell'arra, espressivo termine, desunto dalla esistenza giornaliera: è l'anticipazione che già nella vita terrena si può avere sulla vita dell'aldilà, o come ricompensa o come punizione.
Passiamo ora a considerare la più nota delle allegorie cateriniane, quella del "fiume" e del "ponte". È preceduta da quella dell'"albero". Ai primi tempi del suo tirocinio spirituale risale una delle sue rare visioni: Dio viene contemplato come un albero, di cui le radici sono fitte in terra, ma la cui cima si perde nel cielo. Chi vuol giungere al tronco e salirlo deve attraversare una siepe tutta spine; poi, giunto alla sommità dell'albero, si riposa nella dolcezza di Dio. Ma altri vi sono, che non osano attraversare la siepe e tornano indietro; si cibano della pula che giace per terra, e muoiono d'inedia. Più tardi, nel Dialogo, l'immagine dell'albero è stata ripresa e sviluppata: l'albero nasce nella valle dell'umiltà, getta un pollone che è la discrezione, ha come midollo la pazienza, produce fiori odoriferi e frutti saporosi.
C. dà libero sviluppo alla sua immaginazione quando espone le conseguenze del peccato originale. Nel momento in cui esso avvenne s'interruppe la via del cielo, perché scaturì dalla terra un "fiume" tempestoso, "che sempre percuote con le onde sue" e non è transitabile. Esso conduce al "mare dell'acqua morta". Qui ricompare la figura dell'albero, presentato ora come albero di morte, cresciuto nelle acque del fiume.
Per C. l'incarnazione è l'innesto della divinità sull'albero di morte, già albero di vita. La introduce con un'immagine assai suggestiva, che si direbbe derivata dalla prassi del mondo comunale. Prima che il mondo fosse, si tenne il "gran consiglio" della Trinità, in relazione al peccato di Adamo, e si richiese, come cosa "conveniente",che il Verbo s'incarnasse, per dare satisfazione a Dio e alla sua giustizia. In altro luogo, C. presenta l'incarnazione non come atto di satisfazione, bensì come effetto dell'amore "pazzo" che Dio ebbe all'uomo: onde il Figlio "venne come inamorato".
Il mistero mariano vien trattato con gran delicatezza di eloquio, ma non mancano accenti appassionati. Maria è caratterizzata secondo vari punti di vista: è il "campo dolce",la cui terra "à germinato a noi il Salvatore",e in tal modo essa ha "ricomperato" l'umana generazione; è il "tempio della Trinità",e anche il libro (o "tavola") su cui è scritta la "regola nostra". Sì smisurata è in lei la carità "che di sé medesima avrebbe fatto scala per ponare in croce il figlio suo, se altro modo non avesse avuto".
Verso di lei, C. mostra uno schietto atteggiamento di simpatia femminile, esprime un vero spirito materno, pieno di comprensione. Non è però che indulga, né qui né altrove, al patetico andamento del panegirico mariano e nemmeno a quella devota cronachistica alla s. Bernardo, che si risolve in un "oratoriale invito al culto" (Getto). Va inoltre osservato che, a differenza dei numerosi altri mistici, non è incline a raffigurare "nuzialmente" il rapporto fra l'anima e Dio; e, se incontriamo talune immagini che possono dirsi sensuali, si tratta in genere di riecheggiamenti scritturali.
L'allegoria del fiume si arricchisce e si complica fondendosi con un'altra figura che, comunque, è logicamente ad essa collegata: quella del "ponte",che rende possibile all'uomo di passare dalla riva della morte a quella della vita, senza esporsi alla furia delle acque del fiume. Il ponte va dalla terra al cielo, è la via della verità: a sua volta s'identifica e fonde con il Cristo crocefisso, che dobbiamo immaginarci sovrapposto al ponte stesso, o più esattamente, immedesimato con esso.
Si tratta di un simbolo che, a quanto pare, C. avrebbe derivato da s. Antonio da Padova: quello del Cristo "pontefice" ("che fa il ponte",ma anche: "fa da ponte"). L'attraversamento del ponte è così, nel medesimo tempo, anche un salire su per la croce (come Cristo ci invita: "levati sopra di te e sali in Me"), il che avviene mediante tre "scaloni" o "gradoni",che corrispondono a tre fasi successive di quel tale salire, ed a tre luoghi del corpo di Cristo, il quale ha dunque così "fatto scala del corpo suo": i piedi inchiodati, dapprima, indi il costato, aperto dal colpo di lancia, sì che se ne vede il "segreto"; e infine la bocca. Per quel che riguarda l'uomo viandante, vi coincidono tre gradi di perfezione: incipiente, proficiente, perfetto. Il tutto, può dirsi, costituisce il mistico "itinerario della mente" di C. verso Dio, verso la vita eterna.
Non è da escludere che C., nell'ideare e descrivere il mistico ponte, abbia tenuto presente uno dei tanti manufatti viari di Toscana, desumendone alcuni particolari costruttivi: la bottega, che sorge a metà del ponte e fornisce il ristoro al viandante; la copertura del ponte, che ha "le pietre murate acciò che, venendo la piova, non impedisca l'andatore"; e infine la porta, che dà o nega l'accesso all'altra riva. Quanto alla derivazione antoniana, si veda nei Sermones dominicales del santo (ed. Locatelli, p. 100). Il sermone prende le mosse dalla lettera agli Ebrei (9, 11), dove Cristo è detto Pontifex, e il termine è spiegato come "pontem faciens, quasi via sequentium".
Il primo grado è quello dove sosta colui che si ravvede per timore della pena: C. lo qualifica come "servo mercenario",e parla di "amore mercenario". Si trova ancora nello stadio della "carità comune",quella che è retta dai "comandamenti". Passando al secondo gradone, si supera la fase del timore servile: il timore ha spezzato la "casa dell'anima",e l'amore può riempirla della virtù, e l'uomo diviene "servo fedele". Nel costato aperto di Cristo egli trova la "piaga" che gli discopre il "segreto del cuore e in essa può rifugiarsi e bere il sangue di Cristo.
Se nel primo gradone esercitava la virtù nella fede, ora l'esercita nella speranza; se nel primo gradone il suo campo di battaglia era contro la sensualità e il demonio, ora il servo fedele ha da combattere contro il proprio spirito.
Nel terzo grado raggiunge la perfezione, e da servo diventa "figliuolo",con amore filiale, e "amico" della Trinità. La "bocca" di Cristo è il luogo dove si trovano la pace e la quiete dell'anima. L'allegoria del ponte, grandiosa ma, come si vede, parecchio elaborata e non troppo coerentemente svolta, è integrata e vieppiù complicata da ciò che nel Dialogo troviarlo presentato come il "Trattato delle lagrime". C. ne distingue cinque tipi. Tutte escono dalla "fontana del cuore",sono pertanto "cordiali",anche quelle del peccatore. Ma sono diverse a seconda degli "stati di vita",e dalle lacrime "di morte",vanno, attraverso una crescente perfezione, sino alle lacrime "unitive",proprie del terzo scalone; e poi si hanno le lacrime "del fuoco",invisibili perché non accompagnate da lacrime "d'occhio": sono proprie dei perfettissimi.
Il "perfettissimo",una volta percorso tutto il ponte e superati i tre scaloni, raggiunge ormai la Deità eterna, vista come "mare pacifico",dove l'anima si unisce con Dio. In questo ultimo stadio il fedele deve spesso sostenere una dolorosa crisi, a carico della sfera del sentimento, che C. analizza con molta finezza: la "battaglia della mente asciutta",che è poi quella che si usa definire aridità spirituale.
C. non si sofferma più che tanto, nel caratterizzare la Chiesa, vista come "capo" (Cristo) e come "corpo", e questo è distinto a sua volta nel corpo "mistico",che comprende i suoi ministri, il clero; e nel corpo "universale del popolo cristiano". In esso s'individuano due diversi "stati di vita e lo stato secolare e lo stato della santa religione, vale a dire l'insieme degli Ordini religiosi.
Anche per la Chiesa C. escogita apposite e complesse figure: la "bottiga",il "cellaio",la vigna e il giardino. La più caratterizzata è la "bottiga" (bottega), che, come già sappiamo, è costruita sul ponte, ed è piena di "specie odorifere",per cibare e confortare i viandanti e pellegrini che ne hanno bisogno. Il "cellaio" (cantina) custodisce il sangue di Cristo, ed è gestito dal papa, che nella sua qualità di celleraro ne tiene le chiavi.
La "vigna" e il "giardino" riecheggiano parabole evangeliche: un tempo ben coltivati, ora si presentano inselvatichiti, "perché per li gattivi pastori sono gattivi i sudditi",e non si trovano più operai per lavorarvi.
Le condizioni in cui si trova la Chiesa e la necessità di una sua riforma sono il costante cruccio di Caterina. L'amore per essa si fonde con il suo senso apostolico e si esprime spesso con un linguaggio duro e senza perifrasi. Non per nulla C. inizia le sue lettere con la formula "serva de' servi di Gesù Cristo": si sente un po' anch'essa a capo della Chiesa, quasi fosse "una madre universale della Cristianità": la sua eventuale rampogna è però anche un atto di amore e fede nella Chiesa e la sua cattolicità, la sua struttura gerarchica e il sacerdozio; C. non pensa a svalutarne la funzione sacrale, è che il suo cruccio si rivolge al difettoso governo della Chiesa, ed è questo che va riformato.
Raramente C. assume toni profetici, apocalittici; né troviamo alcun accenno di derivazione gioachimitica, circa l'avvento dei tempi dello Spirito e la palingenesi della Chiesa. D'altra parte C. non conosce o non applica il mito della Chiesa primitiva. È ben poco sognatrice, come precisa ottimamente il Getto: sono le effettive e presenti possibilità di riforma quelle che richiamano il suo interesse e tengono desta la sua passione.
Lettere. - Nei riguardi di C. come scrittrice, ci si può, anzitutto, chiedere con il Getto che cosa si debba intendere per la sua "storia". Si è ecceduto nel trattarla sotto l'aspetto biografico-storico, che in realtà si risolve in una serie di notazioni del tutto esteriori ed episodiche, e non certo sufficienti per spiegarne la personalità; si è ecceduto nella trattazione agiografica e, per attribuire a C. un'assoluta perfezione, se ne è spesso trascurata nei suoi aspetti veri la schietta umanità.
Paragonata ad altre figure di santi mistici, C. non può veramente dirsi una contemplativa, tranne i suoi inizi nella prima gioventù, ma piuttosto una personalità della vita attiva, che dà il meglio di sé nella sfera dell'agire pratico. Ma anche da questo punto di vista non può definirsi - come è stato paradossalmente tentato - una santa "politica",nel senso "mondano" del termine (peggio: una santa "uomo di Stato"!), se non nelle intenzioni,e per certo non nei risultati concreti, - ed è dubbio se abbia mai esercitato una effettiva influenza sugli avvenimenti. Sta di fatto che non ebbe vera mente di politico, e subordinò sempre il proprio agire a presupposti religiosi e ad impulsi di sentimento.
L'effettivo fatto nuovo nell'esperienza mistica di C. consisterebbe secondo il Getto nella sua interiorità: pertanto la sua storia, la sua vera storia, sarebbe essenzialmente storia di questa sua esperienza.
Applicando i capisaldi della estetica crociana, possiamo dire che l'espressività di C., in quanto protesa verso fini pratici, fu fondamentalmente "oratoria" e non "poetica". Infatti, nei suoi scritti (ma segnatamente nelle lettere) ella assume sempre l'andamento e il tono della predica, dell'ammonimento, dell'ammaestramento, che si fonda sulla "capacità d'intendere l'animo degli altri e di trovare la strada per giungere al loro cuore". La sua spiritualità e il suo comportamento hanno due motivi centrali: il tono squisitamente materno che ne accompagna sempre l'azione apostolica, e il senso sociale che risponde alla necessità di trasmettere e far rivivere agli altri la propria esperienza mistica. Questo spiega perché C., limitando alla "cella interiore" la sua fuga dal mondo, non si diede alla vita eremitica né a quella cenobitica, ma preferì una forma associata di vita che dal mondo non rifuggiva: la "famiglia". Quanto al senso della socialità operante, esso è ben vivo in lei e si esplica nella sua continua presa di contatti e nella partecipazione simpatetica alle vicende umane degli altri, specie attraverso le sue Lettere. Ma non limitatamente alla salute delle anime: gli infermi ed i poveri ben conobbero la sua premurosa assistenza. Il problema della povertà è largamente svolto nel Dialogo.
È da escludere senza esitazione che il C. non sapesse leggere: non potremmo spiegarci, altrimenti, come avesse potuto acquisire il suo notevolissimo patrimonio culturale e dottrinale. Già il suo biografo Raimondo da Capua attesta che le sue letture predilette erano, come già dicemmo, le vite dei santi Padri e il breviario; ma chissà quante altre vi avranno fatto seguito. In più il Getto allude, assai opportunamente, alla grande varietà di mezzi di cultura ai quali C. ebbe libero l'accesso, grazie ai suoi ininterrotti contatti con i padri del convento senese di S. Domenico. Ne dà comunque la prova l'imponente massa di citazioni, sia dirette sia indirette - e queste ultime, com'è comprensibile, saranno state le più frequenti - che arricchiscono i suoi scritti. Una edizione critica di tutti gli scritti di C. potrà offrirci anche una attendibile visione d'insieme degli autori di cui, in un modo o nell'altro, C. ebbe a valersi come auctoritates.
Un luogo comune, troppo spesso ripetuto, giudica C. addirittura come una poetessa, germogliata, per così dire, sul suolo del "popolo" senese. Ma a parte un certo numero di passi poeticamente suggestivi ma assai frammentari - vere e proprie "schegge" poetiche come le definisce il Getto -,si tratta pur sempre di componimenti di carattere oratorio e quindi non poetico, così come oratoria e non poetica è la suggestione che da essi emana. Né quella di C. sarebbe un'esperienza o una formazione popolaresca, per quel che riguarda tanto la dottrina, quanto il modo con cui ella pensa ed agisce da "aristocratica",quanto ancora per il suo linguaggio e le forme in cui si esplica la sua religiosità, ben diversa dalla semplice pietas del popolo. A qual proposito il Petrocchi ha messo in risalto più opportunamente da un lato la ricchezza di sperimentazioni formali e assimilazioni culturali che caratterizza lo stile di C., dall'altro il suo frequente ricorrere alla favella popolare, per gusto dell'espressione dialettale o familiare.
C'è infine la fondamentale unitarietà, anch'essa rilevata dal Getto, degli scritti cateriniani, i quali si presentano così simili nella loro struttura da render assai dubbio il tentativo di rintracciarvi segni e prove di un vero sviluppo estetico-formale e di una particolare maturazione di esperienza. Va comunque considerato che la produzione letteraria di C. si estende solo per un quindicennio, all'incirca fra il 1365 e il 1380, e tale relativa brevità del periodo rende improbabile che vi siano stati sensibili cambiamenti di espressività.
È innegabile però che seppur l'opera sua nel suo insieme sia da ritenere non composita, nelle sue pagine "sentiamo vivere una personalità spiccata e inconfondibile, che conferisce loro una, singolare unità" (Getto).
Il linguaggio di C. è dunque caratterizzato dal dominante tono esortatorio, "apostolico". Vi ritroviamo, per contro, assai di rado la movenza narrativa, favoleggiante, così come vi mancano quasi del tutto gli "esempli",così cari ai predicatori del suo tempo ed al loro pubblico. Anche il materiale scritturale è relativamente poco usato: la stessa vita del Cristo, così ricca di episodi, appare sfruttata di rado. Giustamente dice il Getto che C. è più interessata al Cristo "mistico" che non a quello "storico"; e anche in questo, potrebbe aggiungersi, ella si accosta a s. Paolo, che non fu evangelista ma apostolo.
Tipico per lei, come per la maggior parte dei mistici medievali, è il frequente ricorrere al linguaggio figurato. C. si serve di tutta una serie di accorgimenti, che stanno anche a dimostrare la sua non trascurabile educazione letteraria e stilistica. Frequenti le metafore, le allegorie, l'uso di simboli: espedienti tutti che, oltre a permettere una rapida formulazione della realtà interiore e spirituale, rispondono a un drammatico modo di esprimersi che è addirittura connaturato a C., e sostituiscono anche quei chiarimenti concettuali, quelle definizioni che la santa non fornisce che assai di rado. Nericordiamo inoltre il gusto per le antitesi, i giochi di parole, le etimologie; e poi ancora le apostrofi, la frequenza delle interiezioni, delle iperboli e così via. Si comprende come nei suoi riguardi si sia parlato più volte di "gusto barocco",ma è un termine da usare con molta cautela, se non altro perché C. non mira davvero all'effetto.
Opera indiscutibilmente "autentica" nella sua quasi totalità, anche se non "autografa",sono le Lettere di C., scritte sotto sua dettatura dai suoi segretari e discepoli - che certamente avranno avuto un alto rispetto per tali creazioni - e con scrupolosa fedeltà, anche se non possiamo escludere a priori quel tanto di variazioni che inevitabilmente si verificano in ogni dettatura. Le Lettere hanno una parte assolutamente di primo piano nella sua azione apostolica, ed è lecito chiedersi come C. si sia decisa a ricorrervi sistematicamente e quando: con il Levasti riteniamo il 1370 circa. Vien fatto di pensare al precedente di s. Paolo, modello in tante cose a C., oppure a un epistolografo abbastanza attivo, e di ambiente senese: Giovanni Colombini, il fondatore dei gesuati. Forse non è un caso che C. sia stata in rapporto epistolare con le monache di S. Bonda, assai care al Colombini.
Scorrendo l'espitolario, salta all'occhio una sua "quasi burocratica struttura",come la dice il Getto, e il Fawtier usa, non meno opportunamente, la definizione "diplomatica cateriniana"; e si è parlato più volte di una "cancelleria" della santa.
La lettera-tipo si scompone in quattro elementi o settori: il protocollo; la parte mistica e di ammaestramento; la parte personale e informativa; l'escatocollo. Ciò che manca quasi del tutto è l'indicazione temporale, la data sia topica sia cronologica. Non è detto che vi sia sempre stata, e, nel caso, sarà perlopiù scomparsa insieme alla "parte personale".
Questa, della eliminazione di intere parti delle lettere, è una imbarazzante caratteristica dell'epistolario. Venne praticata certamente quando si procedette alla copiatura delle lettere per la loro divulgazione. Mutilazioni invero che, vertendo sulla parte puramente informativa, che era considerata allora di poca importanza, in realtà riducono però gravemente la validità di fonte storica di tali lettere, in quanto ci privano di elementi che avrebbero potuto esser utili, anzi preziosi per più d'un aspetto.
Furono i discepoli più legati a C. a mutare le lettere in epistolario e non sembra che vi provvedessero prima della sua morte. Sappiamo con certezza che ser Cristofano di Gano Guidini (non è inutile ricordare che era di professione notaio) "quasi omnes epistolas virginis, hinc inde dispersas, recollegit in unum, ita ut ex illis conficeret duo volumina",che poi (1398) il Caffarini portò con sé a Venezia. Il Guidini stesso, nelle sue Memorie, che il Fawtier ritiene scritte circa nel 1396, afferma che le lettere erano già state "ragunate insieme, cioè una grande parte" e che si trovavano in mano di Stefano di Corrado Maconi e di Neri di Landoccio Pagliaresi (ed è singolare che non parli di se stesso, forse per esemplare modestia). Da notare anche la deposizione di un religioso il quale dice, a proposito del Maconi, che era stato "magno tempore eiusdem virginis cancellarius et scriptor epistolarum, quasi sibi copiavit". Eil Maconi stesso, in una lettera al Caffarini, lo avverte d'aver incaricato un monaco che procurasse a lui il libro delle lettere, "ut... inde sancte virginis honor augeatur".
Quanto al Caffarini, a un certo momento prese nelle sue mani tutta l'impresa. Partendo dai due volumi formati dal Guidini, li ridusse "sub alio ordine" (dunque il Guidini si era adoperato per sistemare in qualche modo quel materiale) e cioè "in uno ponendo omnes epistolas pertinentes ad statum laicalem": dunque un ordinamento per categorie o "stati" sociali, disposto, per giunta, secondo la successione gerarchica o graduatoria della presunta importanza. Èmolto probabile che in un primo tempo il materiale epistolare non venisse - diciamo - ufficialmente tenuto in speciale conto: se di esso furono fatte alcune parziali raccolte, ciò sarà stato dovuto ad iniziative individuali e con finalità pratiche, sia per l'interesse che esse potevano avere per determinate persone o ambienti oppure comunità, particolarmente devoti alla memoria di C.; sia come documentazione politico-ecclesiastica, in un momento in cui lo scisma travagliava aspramente le coscienze.
Mancò probabilmente un piano prestabilito e un'organizzazione per la raccolta, mancarono unità e coerenza di azione. Sul principio non si dovette attribuire alle lettere eccessivo valore, come materiale probante per la santità di C.; e tanto meno come opera letteraria. Dal punto di vista dottrinale aveva un valore assai più grande il Dialogo.
È però da supporre che a un certo momento si pensasse a controllare e coordinare l'attività divulgatrice, che andava delineandosi e allargandosi. Venne allora in questione il problema di come comportarsi con quella parte informativa delle lettere alla quale abbiamo accennato; e si pensò, in più d'un caso, ad eliminarla. Il Fawtier ritiene che ciò sia stato fatto soprattutto perché, conservandola, si sarebbe reso difficile l'impiego delle lettere come documento valido per la canonizzazione di C., alla quale si incominciava a pensare. Ma basta leggere tale parte informativa e confidenziale - quando si è conservata - per accorgersi che, da quel punto di vista, e nella maggioranza dei casi, la presenza o eliminazione di essa non avrebbe avuto alcuna importanza dirimente. Èevidente che l'eliminazione venne invece fatta (e anche qui bisognerà distinguere caso per caso) per ovvie ragioni di discrezione - come s'è già detto - soprattutto quando le lettere vennero destinate a più larga diffusione; tanto è vero che nelle piccole collezioni di carattere privato tali parti si sono quasi sempre conservate.
Passando da esse alle grandi collezioni, le lettere subirono un altro intervento, indispensabile per la migliore comprensione di esse: in luogo dei semplici indirizzi, che si leggevano sugli originali, si introdussero delle rubriche informative che, se anche allora erano state giovevoli per tale comprensione, sono oggi per noi preziosissime perché contengono in molti casi le uniche informazioni che possono illuminarci sulle circostanze che determinarono la genesi di tali lettere. Nessun indizio ci autorizza però a supporre che nemmeno nel compilare le rubriche si sia proceduto di comune intesa, e tanto meno che vi sia stata una sorta di censura dall'alto, che abbia imposto anche l'eliminazione di cui si è detto.
Concludendo, la scomparsa, praticamente totale, degli originali singoli non costituisce di per sé una inattesa difficoltà, in quanto è il presupposto comune all'enorme maggioranza delle edizioni critiche. Ma nel gradino immediatamente successivo della tradizione c'imbattiamo in difficoltà di natura più seria, a cui in parte si è già accennato. Anzitutto, come s'è detto, non ci sono, e non sono forse mai esistiti autografi cateriniani (eccetto il caso della lettera o delle lettere scritte nella Rocca): nel rimontare la tradizione ci si arresta a testi che sono già passati attraverso l'intermediario dei segretari e scrivani della santa. Se essi, più o meno inconsciamente, alterarono il pensiero della dettatrice (cosa del resto improbabile: ricordiamoci che C. sapeva leggere, ed avrà esercitato un certo controllo), non abbiamo alcun mezzo per accertarlo.
Da siffatti archetipi ha dunque inizio la tradizione manoscritta delle Lettere. Ma essa non ci conserva probabilmente che una parte - è da credere la maggiore - delle lettere dettate e spedite nel corso dei circa sei anni d'intensissima attività politico-religiosa della santa. Parecchie delle lettere ai familiari saranno state escluse dalle raccolte, dato il loro carattere puramente informativo e confidenziale. Quanto alle lettere dirette ad alte personalità ecclesiastiche o laiche, può ragionevolmente supporsi che siano state raccolte e trascritte soltanto quelle di cui i sillogisti ebbero a loro disposizione gli originali (o loro copie autentiche), oppure quelle di cui conservavano presso di sé (o nella "cancelleria") la copia o la minuta, o anche gli originali, nel caso che non siano state recapitate, ed è chiaro che anche in questa ipotesi resterebbe fuor di dubbio il loro valore "autentico".
Fra le raccolte delle Lettere, si distinguerà fra quelle fatte a scopo privato e quelle riunite con intenti divulgativi. I raccoglitori privati avranno trascritto le lettere integralmente quali che si fossero; i divulgatori le avranno private delle parti che non ritenevano opportuno diffondere; riduzione che, più che non imposta, sarà stata suggerita dai consiglieri spirituali della santa, ma che non deve aver ubbidito a direttive autoritarie e precise, né fu, a quanto pare, ispirata da preoccupazioni d'indole ortodossa; mancò anche il filo conduttore di una raccolta canonica, ufficiale. Vi si accostò l'epistolario curato dal Caffarini; le due principali raccolte divulgative, che si debbono a Stefano Maconi ed a Neri de' Pagliaresi, ebbero esistenza indipendente: si formarono per giustapposizione di minori raccolte private attorno a un nucleo, costituito dal sillogista stesso, e non adottarono alcun ordinamento gerarchico.
"L'opera di maggior mole dettata da Caterina, quasi la più lunga lettera" (D'Urso), è chiamata da lei semplicemente il "Libro" ("della divina dottrina"). Fu scritto - afferma il Guidini - "dettando essa in volgare, essendo essa in ratto",cioè nel raptus estatico (C. Guidini, Ricordi, a c. di C. Milanesi, in Archivio storico italiano, IV [1843], 1, pp. 25-48). Ormai si usa chiamarlo il "Dialogo della divina Provvidenza": in effetti è tutto una sorta di dialogo fra la Divinità e la santa, che in suoi brevi interventi commenta e ringrazia per gli ammaestramenti ricevuti e, volta per volta, ne fa nuova richiesta. Si hanno nel corso dell'opera particolari partizioni, o "dottrine",o "trattati",su specifici argomenti: della perfezione, delle lagrime, della verità, della provvidenza divina, dell'obbedienza. Sono temi svolti più o meno a lungo, senza dubbio interessanti e importanti e tipici per C., ma non sempre possono dirsi perspicui. Tra gli altri spiccano le dottrine del "ponte" e dell' "albero" dell'amore. Un particolare tema, affrontato con una certa ampiezza, riguarda il "Corpo mistico della santa Chiesa" e attira l'attenzione per il modo duramente polemico con cui C. anche qui, come in molte lettere, esercita la sua critica verso gli ecclesiastici indegni. Si ha l'impressione, nel complesso, ch'ella stessa (a differenza del come deve aver considerato le lettere) abbia pensato a raccogliere in una specie di Summa "gli innumerevoli insegnamenti dati nelle conversazioni e sparsi nelle lettere" (D'Urso).
Problema interessante è quello della data di composizione del "Libro". Si è ormai rinunciato a ciò che potremmo definire la tesi miracolistica, per cui esso sarebbe stato dettato tutto nel giro di pochi - cinque - giorni, avanzata da un erudito francese, lo Hurtaud. Si pensa ora, piuttosto, che C. vi abbia atteso un anno circa, dall'ottobre del 1377 all'ottobre del successivo, e naturalmente non stando ognora nel medesimo luogo, né dettando sempre in stato d'estasi. Si ha motivo di ritenere che, in parte forse anche notevole, l'opera sia frutto di una collaborazione, voluta da C., fra lei ed i suoi discepoli, da lei organizzata e diretta, e di una rielaborazione del copiosissimo materiale offerto dalle lettere e in genere da tutta la sua esperienza, sia mistica sia di vita pratica. Lavoro di lunga lena, a proposito del quale il dubbio circa l'autenticità essenziale dell'opera non si dovrebbe nemmeno presentare. Ma essa offre più d'una occasione alla critica: assai bene il D'Urso ne rileva l'incompiuta elaborazione logica e letteraria, dovuta all'andamento estemporaneo del dettato, che non le consentì una più meditata strutturazione dell'opera. Non sappiamo se C. fosse soddisfatta del come essa si presentava, e se si proponesse di farne una revisione: ma glielo preclusero ad ogni modo le tormentate vicende del 1378 e l'impegno "pratico" che esse ininterrottamente significarono per lei, sino alla morte.
È però possibile che il "Libro" sia stato fatto oggetto di rimaneggiamenti e di modificazioni dopo la sua morte, senza che esso ne guadagnasse sensibilmente in chiarezza: troppi passi tradiscono "un pensiero teologico appensantito da una scolastica piuttosto mal filtrata" (Laurent). Il Fawtier, tenuto presente che del "Libro" non si aveva - e manca tuttora - un'edizione critica, e che ne è andato perduto il manoscritto originale, consiglia che si faccia un attento confronto fra il testo volgare e le sue versioni in latino (la prima è del Guidini), per ricostruirlo entro i limiti del possibile. La medesima cosa andrà fatta per stabilire i rapporti fra esso e le lettere (ma occorrerà attendere l'edizione critica di tutto l'epistolario).
Conclude il Fawtier che, incontestabilmente, il "Libro" è autentica espressione del pensiero della santa, in sul finire della sua vita, e fonte precipua per intenderla a pieno. Ma è anche, aggiunge, un'opera "letteraria" in tutta l'accezione del termine, onde, essendo scritta per il pubblico, inevitabilmente non ha potuto non "deformare e tradire il pensiero dell'autore" e costituire così un "forte freno" per la sua sincerità.
Già si è visto come C., nella lettera che contiene le sue ultime volontà, accenni, oltre che al "Libro",ai suoi scritti ("ogni scrittura la quale trovaste di me"). Non sembra che con queste parole ella si riferisse alle lettere. Unico scritto che possa esser preso in considerazione sono le Orazioni, o preghiere che dir si vogliano. Si tratta di un certo numero di brevi "orationes et postulationes",da lei pronunciate nel corso delle sue numerose estasi e "registrate",diciamo così, da quei segretari che forse casualmente si erano trovati presenti: ma non dettate, e non è certo che C. alla fine dello stato estatico, ne abbia preso visione e controllato il testo.
Nei manoscritti che le contengono, tali preghiere sono accompagnate da rubriche esplicative, circa il dove, il quando, la motivazione di ciascuna. Una nota introduttiva, che le precede, nell'edizione di Aldo Manuzio, ci informa che si tratta di orazioni tenute ad Avignone, Genova e Roma, ma avverte inoltre che "delle sue quasi infinite che ella fece a Siena, Firenze e Pisa e in molti altri lochi d'Italia (?), qui non v'è veruna". Il numero delle orazioni conservatesi varia fra le 22 (nei manoscritti, con testo latino) e le 26 (stampa di Aldo Manuzio, in volgare). Per compiutezza va tenuto presente che nell'edizione curata dal padre Taurisano, sorta con scopi chiaramente edificanti, le preghiere sono raccolte sotto il titolo, d'incerto significato, di "elevazioni". Alla fine del libretto il medesimo ha pubblicato tre brevi testi, di diverso valore e importanza, ma non dettati da Caterina. Tutti questi testi attendono ancora l'edizione critica.
Il Fawtier ne ha fatto un esame approfondito, specie nei riguardi della datazione, ed è giunto a risultati convincenti. Ha constatato, giustamente, anzi deplorato, che tali testi si debbono a una scelta fra le innumerevoli preghiere che C. certamente ebbe a pronunciare, e che ignoriamo con quali criteri sia stata fatta. Si può aggiungere che non disponiamo di alcun appiglio per decidere circa il grado di attendibilità e, ovviamente, di "autenticità",che si può attribuire a tali testi.
Fonti e Bibl.: Per l'epistol. di C. si vedano le ediz.: E. Dupré Theseider, Epistol. di s. C. da S.,I, in Fonti per la Storia d'Italia, LXXXII, Roma 1940; Le lettere di s. C. da S. ... con note di N. Tommaseo, a cura di P. Misciattelli, I-VI, Firenze 1970. Per la letteratura e le edizioni di fonti fino al 1950 si rinvia a L. Zanini, Bibliogr. analitica di s. C. daS. 1901-1950, Roma 1971. Tra le opere ivi indicate si ricordano in modo particolare: R. Fawtier, S. C. de S. Essai de critique des sources, I-II,Paris 1921-1930; E. Jordan, La date de naissance de s. C. de S.,in Anacleta Bollandiana, XL(1922), pp. 365-411; P. Mandonnet, S. C. de S. et la critique histor.,Paris 1923; I. Taurisano, Le fonti agiograf. cateriniane e la critica di R. Fawtier, in Letture cateriniane, I, Siena 1928, pp. 311-382; N. Denis-Boulet, S. C. de S. Le problème histor. L'Activité polit. de s. C. avant son voyage à Avignon in Nova et Vetera, XI-XII(1936-37), pp. 361-386, 406-448; M.-H. 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