Il codice di procedura civile, all’art. 75, stabilisce che «sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere». La capacità processuale (denominata anche legittimazione processuale o capacità di stare in giudizio) consiste nell’idoneità a proporre e a ricevere validamente la domanda e a compiere gli atti del processo. È il riflesso della capacità di agire di diritto sostanziale (art. 2 c.c. Capacità. Diritto civile) e si acquista con il raggiungimento della maggiore età, tranne nei casi in cui al minore sia concessa una speciale capacità. Al contrario, la capacità di essere parte, ossia l’idoneità alla titolarità di posizioni giuridiche processuali, spetta a ogni persona fisica e giuridica, venendo a coincidere con la capacità giuridica di diritto sostanziale.
Le persone che non hanno il libero esercizio dei propri diritti possono stare in giudizio solo se «rappresentate, assistite o autorizzate, secondo le norme che regolano la loro capacità» (art. 75, co. 2, c.p.c.), giacché la legge individua nei rappresentanti legali – secondo le regole di diritto sostanziale – i soggetti che hanno il potere di stare in giudizio in rappresentanza di chi è privo della capacità di agire. Le persone giuridiche, rispetto alle quali si pone la questione dell’individuazione del rappresentante organico, devono stare in giudizio «per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge» o del proprio statuto (art. 75, co. 3, c.p.c.).
La capacità processuale è un presupposto del processo, la cui mancanza impedisce al giudice di decidere la causa nel merito. Il giudice deve verificare il rispetto delle disposizioni in materia di capacità processuale e se ricorre un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione, assegna alle parti un termine per la sanatoria del vizio (art. 182 c.p.c.). La sentenza emanata in violazione delle regole sulla capacità processuale è nulla (Nullità. Diritto processuale civile).
Parte. Diritto processuale civile