DELLA SCALA, Cangrande
Terzogenito di Alberto (I), dominus di Verona, e di Verde da Salizzole, Canfrancesco, detto sin dall'infanzia "Canis magnus", nacque - come è ormai pacificamente accettato dagli studiosi, dopo secolari discussioni motivate dalle notissime connessioni dantesche (Par.,XVII, 70-93) - nel 1291,forse più probabilmente l'8 o il 9 maggio che non nel marzo. Circa la sua infanzia e adolescenza, si hanno scarse informazioni documentarie e cronistiche (al di là dell'encomiastico De Scaligerorum origine di Ferreto Ferreti, che però non dà riferimenti cronologici utilizzabili): nel 1294, in occasione della curia cavalleresca celebrata da Alberto (I) per una vittoria sugli Estensi, il D. fu fatto cavaliere, e fu progettato un suo matrimonio con una figlia di Bardellone Bonacolsi; nel 1298 è menzionato, al pari di altri membri della famiglia Della Scala, nel testamento di Bonincontro vescovo di Verona. Tre anni più tardi il D. fu invece assente, a differenza dei fratelli maggiori, al testamento del padre, nel quale viene affidato alla tutela del primogenito e dominus Bartolomeo. Nel settembre del 1304, poi, un documento sinora ignoto (Arch. di Stato di Verona, Esposti, perg. 1104) mostra il giovane "dominus Canismagnus" (quattordicenne, era - nella prassi veronese - l'età di uscita dalla tutela) come proprietario di un appezzamento di terra in Valpantena.
Nel 1306-07 il D. effettuò qualche investitura feudale, tramite procuratori; nell'aprile del 1306 fu investito a sua volta (col fratello Alboino e il cugino Chichino) di un feudo dal vescovo di Vicenza. La sua prima comparsa in una campagna militare intrapresa da Alboino - signore dal 1304 - potrebbeessere fatta risalire al marzo del 1307, quando secondo il Chronicon Estense il D. ed il fratello guidarono le truppe scaligere a Serravalle Po. Ma, come questa, neppure è certa - anzi, sembra improbabile - la sua partecipazione diretta sia alle operazioni del 1308 nel Parmense e nel Bresciano, sia a quelle del 1309(soccorso ad Alberto Scotto, a Piacenza, contro i Torriani).
Cronisti e storici, specie antichi, hanno insistito ripetutamente sulla leadership di fatto che il D. avrebbe esercitato nei confronti di Alboino, sin da questi anni, quanto meno sul piano militare, ciò peraltro non può essere provato, mentre è al contrario sicuro che sotto il profilo istituzionale era il D. ad affiancare, in posizione subordinata, il fratello: documenti diplomatici del 1308-09, provenienti tanto dalla Cancelleria scaligera quanto da quelle estense e tirolese, citano in primis Alboino, e il D. come "capitaneus penes eum" vale a dire con la stessa formula che designava, nell'ultimo decennio del Duecento, Bartolomeo nei confronti del padre Alberto.
Nel 1308 cade anche il matrimonio del D. con Giovanna di Corrado di Antiochia, sorella di Costanza già moglie di Bartolomeo. un altro legame dunque dei Della Scala con la discendenza di Federico II. Il D. non ebbe figli da costei (che sopravvisse a lungo al marito: morì infatti a Verona nel dicembre del 1351). Ebbe invece - forse a partire da questi stessi anni giacché due di costoro non erano più bambini alla morte del D. - diversi illegittimi.
Anche nell'estate 1310 eserciti veronesi furono impegnati a sostegno di fazioni e famiglie ghibelline di città padane: con i Bonacolsi (allora, e sino al 1328, fedeli alleati del D.), prestarono aiuto ai Reggiani estrinseci. Si venivano così consolidando per il D., nella linea politica "interventista" già impostata da Alberto alla fine del Duecento, rapporti destinati a durare - come, appunto, quello coi Sesso - poi stabilmente presenti a Verona e Vicenza per tutto il Trecento.
Alla comparsa in Italia di Enrico VII (novembre del 1310), i domini veronesi - che già avevano manifestato i loro orientamenti accogliendo con onore, nel luglio, i legati imperiali - inviarono ad Asti i propri rappresentanti (il giudice Bonmesio Paganotti e Bailardino Nogarola). L'assenza di Alboino e del D. all'incoronazione milanese è stata ritenuta casuale (era del resto presente il vescovo di Verona, Tebaldo), ma va forse collegata alle iniziative dei fuoriusciti guelfi veronesi, che puntavano ad ottenere l'arbitrium pacis ed il rientro in città (al che gli Scaligeri si opposero con fermezza, allegando il bando imperiale del 1239 contro di loro). Le trattative con Enrico VII portarono comunque il D. ed Alboino a rinunciare segretamente al capitaniato e ad accettare il vicariato in Verona di Vanni Zeno Lanfranchi. Già si rendeva, ad ogni modo, evidente un trattamento di favore riservato a Verona, se è vero che - nella "taxatio et calculus iuxta posse cuiuslibet civitatis", per il pagamento dello stipendio al vicario generale di Lombardia - alla città è assegnata una quota inferiore alla metà di quella spettante, ad esempio, a Padova. Poche settimane dopo (probabilmente il 7 marzo 1311) i due Scaligeri furono a loro volta nominati, primi in Italia, vicari imperiali. In tale occasione non mancò in Verona qualche minimo, ma significativo, segno di inquietudine interna (una minoranza non trascurabile di notai fu cassata dall'arte per essersi opposta alla "datia" imposta per i festeggiamenti). Ma quanto contasse la nuova posizione si vide poche settimane più tardi, quando il D. prese parte personalmente, col rappresentante di Enrico VII, all'assoggettamento di Vicenza (sin allora controllata da Padova) all'Impero.
Non era ancora l'insignorimento scaligero di Vicenza (qualche cronista locale tardotrecentesco, come Boninsegna da Mizzole, afferma semplicisticamente che nel 1311 il D. "cum gentibus imperatoris habuit civitatem Vincentie", e tale è anche l'impressione di cronisti esterni, come il de Bazano), ma non fu comunque dovuto al caso che il secondo vicario imperiale della città berica fosse un sicuro amico dei Veronesi come Aldrighetto Castelbarco. Nel frattempo la confisca dei beni e delle giurisdizioni dei Padovani nel Vicentino scavava un solco incolmabile fra questa città e l'imperatore, e contribuiva al prevalere di posizioni più rigidamente antimperiali, e quindi antiscaligere: si pongono alcune delle condizioni che faranno della lotta con Padova una delle costanti dell'attività politico-militare del D. per oltre quindici anni.
Dal maggio del 1311 gli Scaligeri presero parte con Enrico VII e con i ghibellini di tutta Italia, all'assedio di Brescia; forse il D. "successit" (Ferreto) in tale impresa al fratello quando questi si ammalò. Fu un momento decisivo del consolidamento del prestigio scaligero, e personale del D., all'interno dello schieramento ghibellino: secondo il cronista de Bazano, il D., "miles probus", senz'altro "praeerat" all'intero esercito assediante. Dopo la presa della città (fine settembre) e la Dieta di Pavia, il D. seguì l'imperatore anche a Genova, salvo rientrare rapidamente a Verona al momento della morte del fratello, per il timore, secondo un cronista, di attacchi padovani; non certo per problemi di successione, che infatti non vi furono (fine novembre 1311).
La congiuntura dinastica va del resto annoverata fra i motivi non secondari della tranquillità interna del regime scaligero, e dunque anche dei successi militari e politici del D., libero di allontanarsi anche a lungo da Verona. Nella famiglia scaligera non figuravano, all'epoca, che due maschi legittimi ed in età adulta: Federico del fu Piccardo di Bocca, più anziano del D. di qualche anno, appartenente ad un ramo collaterale; e Francesco detto Chichino del fu Bartolomeo, nipote del Della Scala. L'uno e l'altro furono tra i suoi principali collaboratori, con un rilievo maggiore forse per Federico, sino al 1325 (quando fu esiliato), ma con un ruolo di prestigio anche Chìchino, che una lettera aragonese del 1311 menziona impropriamente ma significativamente come collega del D., e che fu piuttosto attivo sul piano militare. Il patrimonio di ambedue giunse poi nel 1325 nelle mani del D. - per confisca in un caso, per eredità, si presume, nell'altro - e anche questa circostanza favorì la compattezza familiare.
Il confronto con le vicende interne di altre famiglie signorili (in potenza o in atto: Carraresi e Caminesi) della Marca (nelle quali il radicamento territoriale, nei castelli del contado, del potere familiare incentivava le discordie o permetteva a queste ultime di durare e di incancrenirsi), ma anche per altri versi con gli stessi Visconti di Milano, è assai istruttivo al riguardo.
Poche settimane più tardi (fine gennaio 1312) il D. ottenne - previo un probabile versamento in denaro e con il consenso del ceto dirigente locale - il vicariato imperiale anche per Vicenza, e poco dopo l'arbitrium (pur se formalmente non incondizionato) del Consiglio vicentino.
Il problema dell'acquisizione del controllo del territorio vicentino si poneva ora solo in termini militari. Il consolidamento dell'autorità veronese fu portato avanti con fermezza negli anni successivi, nonostante i tentativi compiuti dai guelfi locali, appoggiati dai Padovani, nel marzo-aprile del 1312, e poi nel 1314 e 1317. Oltre al prestigio di cui godeva il D. presso la nobiltà militare locale (contrapposto ai sospetti che si nutrivano a Vicenza contro il ceto dirigente padovano, più che mai desideroso di recuperare i beni fondiari e i castelli detenuti fino al 1311, quando erano stati confiscati per la ribellione all'Impero), svolsero allora un ruolo importante sia l'abile operato di prestigiosi collaboratori come Bailardino Nogarola, podestà di Vicenza per oltre un decennio, e di influenti giudici, come Bonmesio Paganotti, sia il controllo prontamente acquisito sull'episcopato vicentino, occupato per vari decenni da veronesi.
Anche se mancano dati precisi, sembra che il ceto dirigente vicentino sia stato sostanzialmente rispettato, dal punto di vista patrimoniale. In ogni caso, in proporzione ai danni gravissimi ripetutamente subiti dal territorio e all'impegno militare (frequente nelle cronache è il ricordo della partecipazione dei Vicentini comandati dal Nogarola alle imprese militari del D.) e forse fiscale, si deve ritenere sostanzialmente soddisfacente l'assestamento raggiunto, già dominante il D., dai rapporti fra la signoria scaligera e Vicenza. Fu, per lo "Stato" scaligero, un'acquisizione definitiva.
L'attacco padovano si ripeté nel giugno del 1312 con ripetuti scontri - non sempre favorevoli al D., costantemente presente in prima persona - per il controllo del fiume Bacchiglione, importante per il rifornimento idrico di Padova.
È in questo periodo che possiamo documentare, sulla base di scarno materiale pervenutoci della Cancelleria scaligera, la consapevolezza della propria "missione" politica maturatasi ormai nel D., in termini che poterono forse anche fornire alimento, come adombra il Manselli, al giudizio e all'esaltazione dantesca: alla lettera dell'agosto 1312 ad Enrico VII circa le discordie intercorrenti fra Filippo d'Acaia e Guarnieri di Homburg, si affianca l'altra indirizzata nel luglio del 1312 al figlio di Franceschino della Mirandola, vicario imperiale in Modena, dalla quale emerge la coscienza dell'operare costante "ad promotionem et laudem imperialis fastigii", anche prima della "eius suscitatio recens".
Nei mesi successivi, le ostilità con Padova continuarono sia sul piano diplomatico (il D. trattò con Enrico di Gorizia e con Guecellone da Camino, da poco signore di Treviso, un'alleanza in funzione antipadovana, rafforzata da matrimoni politici combinati per Alberto e Verde di Alboino, suoi nipoti), sia su quello militare: sfruttando l'amicizia dei da Lozzo, famiglia signorile padovana, il D. ebbe i castelli di Lozzo e Boccon (dicembre 1312-marzo 1313). Nei mesi successivi (maggio-giugno 1313), mentre era richiesto di aiuto da Enrico VII in Toscana e dal Bonacolsi a Modena, il D. - in genere presente in prima persona ai combattimenti - continuò la guerra contro le due città guelfe di Padova e di Treviso (ritornata al reggimento comunale) con l'appoggio di Enrico di Gorizia, dei Castelbarco, del vescovo di Trento. Tanto le caratteristiche di questa guerra nella Marca (rapidi attacchi e reciproci saccheggi dei territori rurali;, conquista di qualche castello; assedi mai conclusi delle città maggiori), quanto il frequente intervento in altre zone della pianura padana, erano destinate a divenire un cliché che si sarebbe più volte ripetuto negli anni seguenti. Così nella primavera del 1314, ottenuta la neutralità di Treviso, il D. - che, morto nel frattempo Enrico VII, aveva mantenuto il titolo di vicario imperiale - mosse da Vicenza un nuovo attacco contro il territorio padovano, conquistando diversi castelli (aprile). Il contrattacco padovano portò alla pericolosa occupazione dei sobborghi di Vicenza, e solo l'intervento del D., che diede prova di grande valore personale, ribaltò la situazione militare a svantaggio di Padova (che ebbe 1.500 prigionieri). Nell'ottobre successivo, con la mediazione veneziana - destinata anch'essa a divenire una costante - fu stipulata la pace, cui aderì nel dicembre anche Treviso. "Hac pace gaudet tota marchia, sperans pacem perpetuo duraturam", annota il Cortusi.
L'intensissima attività diplomatica, politica e militare dispiegata dal D. in questi primi anni del suo governo (e nei seguenti) pone il problema di una conoscenza adeguata ed approfondita del suo staff, giacché - come osservava (per l'epoca, in modo non del tutto ovvio) il Cipolla sin dal 1901 - "la operosità di Cangrande non si intende bene, se non si conoscono da vicino i suoi collaboratori". Il problema è di rilevante importanza giacché coinvolge quello del rapporto tra la signoria scaligera e la società veronese non meno del rapporto tra la signoria medesima e le élites politico-militari delle città vicine con le quali il D. consapevolmente si collega: in altre parole, ci si chiede in quale misura i collaboratori del D. sono di estrazione veronese, e in quale di provenienza extracittadina; e in questi casi, quanti di costoro si installano stabilmente presso la "corte", perdendo i collegamenti con le località di origine; e se vi è, inoltre, una differenziazione di "livelli", di mansioni svolte dagli uni e dagli altri. E ancora, c'è da domandarsi se si possono introdurre cesure cronologiche individuando il momento o i momenti nei quali la "internazionalizzazione" dell'entourage di governo si accentua con conseguenze più o meno evidenti sulla conduzione della politica estera (nel senso che il D. o i suoi successori possono essere indotti ad assumere iniziative politico-militari poco remunerative, in servigio delle aspirazioni di potenti collaboratori, come in qualche misura accadrà in seguito: per esempio con Spinetta Malspina). È una serie di interrogativi ai quali è difficile, allo stato attuale degli studi, dare una risposta; sono poche infatti le indagini monografiche a nostra disposizione su famiglie e su singoli personaggi connessi con la "corte" scaligera (Bailardino Nogarola, Pietro da Sacco, Spinetta Malaspina e poco altro) e poche sono, di conseguenza - anche per la debolezza e la dispersione della documentazione - le personalità di quel periodo di cui ci sia nota la carriera. Si può però dire sin d'ora che in questa prima fase è ancora molto forte l'incidenza del personale veronese o veronesizzato, impiegato anche in mansioni di grande impegno. Fra i giudici, i notai, i milites impegnati nel secondo decennio del Trecento nell'attività diplomatica, una buona parte figura già tra i collaboratori di Alberto o dei fratelli e predecessori del D. (non vi fu dunque una rottura sotto questo profilo rispetto al recente passato). Sono uomini talvolta di origine modesta, provenienti dal notariato o dal commercio, che "crescono" con gli Scaligeri: ricordiamo, fra gli altri giudici, Bonmesio Paganotti, Nicola de Altemanno, Corrado de Zicis da Imola, Guglielmo di Servideo; i notai Alberto e Grandonio de la Colcerella, Ivano de Berinço, Giovanni Pellegrini, Bonaventura da S. Sofia ("prothonotarius et scriba d. vicarii"); mentre muovono i primissimi ma significativi passi famiglie come quelle dei Bevilacqua e dei Cavalli. In generale, sembra di poter dire - ma, si è già detto, occorrerebbe condurre studi ben più esaurienti - che l'esautorazione del personale di origine "comunale" o protoscaligera fu piuttosto lenta e priva di sussulti. Compaiono sì dispensatores, domicelli o altri dignitari legati alla persona del D., ma non sono al centro dell'attività politico-amministrativa.
Diverso il discorso per i milites destinati a carriere importanti, alle grandi podesterie dentro e fuori del dominio scaligero, o ai capitaniati nelle città conquistate: fra costoro troviamo esponenti di famiglie veronesi di buona tradizione politica (il noto Bailardino Nogarola, Pietro Dal Verme, un fiorentino naturalizzato veronese come Bernardo Ervari, figlio del "magnus mercator" Ranuccio), ma anche immigrati ghibellini della prima ora, come un Bonifacio Carbonesi o un Pietro Nano da Marano.
Un terzo punto di riferimento può essere intravisto in una cerchia di "socii" (l'appellativo è in qualche caso usato) del D., connotata da un punto di vista militare e più aperta, per questa sua stessa natura, ad apporti esterni: in quest'ambito potremmo forse inserire Guinicello Principi, di origine bolognese ma veronesizzato, "socius" del D.; Ziliberto del fu Zaoliveto, figlio di un miles borgognone, detto da un certo momento in poi "collateralis" (a lui, con apposito diploma il Bavaro assegnerà nel 1327 tutti i beni già di Ezzelino; fu lui l'incaricato di proporre agli organismi comunali veronesi, alla morte del D., il conferimento dell'arbitrium ai nipoti ed eredi di quest'ultimo); Uguccione Della Faggiuola; lo stesso Spinetta Malaspina. Fra costoro andranno ricercati i "capitanei forensis militie" (le cronache attestano che cavalieri tedeschi furono assoldati almeno dal 1314, anche se lo Schaefer non dà praticamente nessuna notizia in proposito; sono inoltre citati francesi e, ovviamente, italiani), e i "capitanei guerre", cariche più volte attestate dal 1313-14 (le ricoprono: Uguccione Della Faggiuola; il miles pistoiese già legato ad Enrico VII Simone Filippo de Realibus; un altrimenti ignoto Cittadino da Rimini; Spinetta Malspina). In sostanza, già nel secondo decennio del Trecento la "corte" del D. è segnata da una vivace e variegata presenza di milites inaugurando una tradizione che sarà poi portata avanti da Mastino (II). Va anche ricordato a questo proposito che quella della struttura e delle caratteristiche dell'esercito rimane del resto un'incognita, e non delle minori, della storiografia scaligera, particolarmente forse per quest'epoca di incipiente, ma certamente non ancora avvenuta (gli statuti cittadini redatti nel 1328 vivo ancora il D. comprendono il libro "de militia", che la successiva redazione viscontea del 1393 omette) smilitarizzazione della società cittadina. In attesa che più ampi spogli documentari ci forniscano qualche dato ulteriore bisogna per ora accontentarsi delle notizie cronistiche, dalle quali emerge la costante presenza degli eserciti cittadini a fianco della cavalleria forensis, mercenaria o no.
Si chiarivano sempre meglio, intanto, le dislocazioni politiche delle città dell'Italia padana, in questi anni fra la morte di Enrico VII e l'inizio dell'offensiva guelfa orchestrata, a partire dal 1316, da Giovanni XXII. L'alleanza delle tre signorie ghibelline di Mantova, Verona e Milano era destinata a restare per diverso tempo un punto di riferimento stabile di fronte al mutevole succedersi di egemonie famigliari o di parte nelle città emiliane e lombarde. I rapporti tra Verona e Milano restarono a lungo buoni, non sussistendo ancora (come accadrà in seguito) contrasti relativamente a Brescia. L'alleanza tradizionale con la signoria "gemella" dei Bonacolsi a Mantova, consolidatasi parallelamente alla scaligera nell'ultimo trentennio del Duecento (è merito del Simeoni aver sottolineato nei suoi studi l'importanza decisiva di questo collegamento sul piano militare e diplomatico) garantiva d'altra parte la sicurezza di Verona sul confine occidentale consentendo al signore di Verona una politica aggressiva nella Marca. Senza dubbio, dunque, ragioni di generale opportunità strategica indussero il D. ai ripetuti interventi militari in Emilia e Lombardia; essi si affiancarono ai motivi di prestigio, al coerente sostegno alla parte ghibellina. Solo ulteriori ricerche sui suoi collegamenti con le fazioni o le famiglie delle singole città potranno poi precisare se il D. abbia coltivato anche aspirazioni di carattere territoriale allo stato attuale degli studi non evidenti.
Nell'aprile del 1315 il D. sostenne l'attacco mosso dai Visconti contro Parma correggesca, fungendo poi da mediatore negli accordi di San Zenone in Mozzo (luglio 1315). Nell'agosto-settembre dello stesso anno truppe scaligere (non il D.) presero parte alla battaglia di Montecatini, o comunque furono presenti in Toscana (di Uguccione Della Faggiuola il D. era alleato sin dal 1314). Nell'ottobre, con il Bonacolsi, il D. attaccò il territorio cremonese conquistando vari castelli e inducendo la fazione ostile ai Cavalcabò a schierarsi con lui; e quando Cremona cadde in mano a Giberto da Correggio favorì con gli altri signori ghibellini la ribellione popolare in Parma, guidata dai Sanvitale (luglio 1316).
Nel biennio 1315-16 la situazione politica della Marca era rimasta tranquilla, con due schieramenti ormai consolidati (Padova e Treviso da un lato; il D. e il conte di Gorizia dall'altro) in permanente tensione. Neppure l'adesione di Guecellone da Camino all'alleanza fra il D. ed Enrico - adesione sancita dal matrimonio fra Verde nipote del D. ed il figlio di Guecellone (dicembre 1316) - portò nell'immediato a modifiche dello status. Fu però il D. ad esser messo in grave difficoltà nella primavera del 1317 dal coordinamento politico operante fra le città guelfe: lo svolgersi degli avvenimenti dimostra tuttavia come il valore personale e le doti di combattente dello Scaligero fossero componenti importanti dei suoi successi politico-militari. Mentre egli svolgeva una campagna nel Bresciano in sostegno dei ghibellini locali (che, espulsi nel febbraio 1316 gli conferirono formalmente l'autorità sulla pars; avrebbe continuato ad aiutarli, saltuariamente, anche in seguito), l'esercito padovano coi fuorusciti veronesi e vicentini assediò ancora Vicenza (maggio 1317). L'intervento personale del D., che, giunto in breve da Lonato, "viriliter tamquam leo percuxit eos" (Chronicon Estense), valse tuttavia a rovesciare una situazione estremamente critica dal punto di vista militare, portando al definitivo affossamento delle speranze dei guelfi vicentini, e alla cattura di alcuni dei superstiti rappresentanti del decrepito guelfismo veronese, tra i quali il conte Vinciguerra Sambonifacio: a loro il D. si rivolse "nobili affatu urbanisque verbis", fece curare il Sambonifacio gravemente ferito, e lo fece seppellire "more regio, solempnibus iustis" (Mussato).
Sono questi "beaux gestes" di gratuita, cavalleresca magnanimità che alimentarono, presso i contemporanei, la "leggenda" del D.: di lui, secondo il cronista reggiano Gazata, "multa cantabantur et merito". Né è del resto da escludere - pur se non può facilmente documentarsi - che si tratti di gesti anche politicamente paganti, nel contesto di una azione nella quale il collegamento con le élites militari delle diverse città ha un ruolo di grande rilevanza, ridotto ma non annullato dallo schieramento partitico.
Le iniziative politico-diplomatiche dell'estate del 1317 (invio di Pietro Dal Verme come podestà a Parma, e di Federico Della Scala a Modena, in connessione con le esigenze della signoria mantovana; aiuto a Rinaldo ed Obizzo d'Este, in Ferrara, contro i mercenari guasconi di Roberto d'Angiò; ulteriore intervento nel Bresciano), sono probabilmente da ricollegare con la radicalizzazione in atto della situazione politica padana, determinata dalla politica di Giovanni XXII. Il D. aveva pochi mesi avanti - primo, con Passerino Bonacolsi, fra i signori italiani - prestato omaggio a Federico il Bello, re dei Romani, dal quale aveva ricevuto la conferma del titolo vicariale, del resto da lui mai dismesso (16 marzo 1317); pochi giorni più tardi gli giunse l'intimazione papale di rinunciare "vacante Imperio" al vicariato, seguita poi dalla legazione di Bertrand de la Tour e Bernard Guy (agosto 1317), che discussero con il D. della situazione bresciana, oltre che della questione del vicariato. La risposta del D., che ascoltò "impatienter et fremens non parum" i due legati, fu negativa e portò alla scomunica, comminatagli il 6 apr. 1318.
Negli anni successivi i rapporti del D. con la Curia papale restarono assai tesi: nel novembre 1318 fu istruito dall'arcivescovo di Bologna il processo ecclesiastico contro di lui, e la scomunica fu confermata nel 1319 e nel 1320. Da parte loro gli ambienti della "corte" scaligera non si peritarono di collaborare con le iniziative più spericolate contro il papa, come il tentativo visconteo di farlo morire mediante sortilegio nel 1320.
La "scelta di campo" (del resto obbligata) per Federico il Bello compiuta nel 1317 ebbe a sua volta conseguenze importanti, negli anni successivi, sulla condotta politico-militare del signore di Verona. L'atteggiamento di arbitro, "super partes", assunto nelle quesioni della Marca dal re dei Romani (in connessione con le esigenze della sua politica nell'area imperiale), portò ad un allentamento della convergenza di interessi che si era realizzata fra il D. ed Enrico di Gorizia, in funzione antipadovana e antitrevigiana, inoltre, introdusse la "variabile" carinziano-tirolese nella vita politica della Marca. Di fronte a questa nuova situazione il D. aveva in qualche misura le mani legate, non potendo, o volendo, "offendere apertamente colui che rappresentava l'Impero" (Tabacco); tanto più lui, che aveva molto puntato sui collegamenti con le forze militari e signorili di tradizione "ghibellina".
Nell'inverno 1317-18, Enrico di Gorizia ed Enrico di Carinzia (al quale gli Scaligeri erano legati da una lunga amicizia, fattasi più stretta negli ultimi anni) sono comunque ancora favorevoli al D.; nel dicembre una rapida campagna portò alla conquista di Montagnana, Monselice ed Este; nel febbraio del 1318 il Carinziano e i Castelbarco parteciparono alla presa di Piove di Sacco. Nella pace, che fu allora stabilita e che venne confermata nel marzo, fu deliberato che il D. mantenesse diversi di questi castelli "tempore vite sue". La pars ghibellina, inoltre, fu riammessa in città, e i torbidi dei mesi seguenti portarono al conferimento del capitaniato a Giacomo da Carrara (luglio 1318).
Questo trattato - secondo una perentoria osservazione del Cessi - "fuor d'ogni dubbio segna il principio della dominazione scaligera nel padovano"; ma "noi troviamo già in esso il primo elemento della dissoluzione della grandezza scaligera: questa ha in sé il vizio di origine, di non poter cioè armonizzarsi coi bisogni nazionali dell'economia delle terre acquistate. Tanto più poi pel territorio padovano: poiché, se c'è qui un movimento commerciale, questo si estende non già verso Verona, ma verso Venezia".
Un mese più tardi, venne stipulata la pace anche con Treviso, cui il D. impose l'espulsione di tutti i fuorusciti veronesi e vicentini. Nel frattempo, egli interveniva anche a Cremona, di cui divenne signore il Bonacolsi (aprile-agosto del 1318), nel Bresciano (marzo-luglio, senza risultati decisivi) e nel Modenese ancora con il Bonacolsi (luglio-agosto), non senza qualche tentativo nel Bolognese (fu scoperta una congiura per la consegna al D. del castello di Crevalcore). Nel settembre riprese poi con Uguccione Della Faggiuola una dura campagna nel Trevigiano, campagna che lo portò alla conquista dei principali castelli del territorio (eccetto Conegliano), anche attraverso gli accordi con la potente famiglia dei Tempesta. Nel frattempo Verona partecipava all'assedio di Genova. Una operosità insonne dunque, che, se non portò a conquiste territorialmente significative e definitive (ma il possesso di taluni castelli trevigiani si rivelerà importante), accrebbe comunque il prestigio del D., che nella riunione dei capi ghibellini tenutasi a Soncino nel dicembre 1318 venne designato "capitaneus et rector unionis et societatis et fidelium Imperii Lombardie". Nella Marca, tuttavia, già nel novembre Federico il Bello lo aveva invitato ad abbandonare il territorio trevigiano, accentuando (come sottolinea il Tabacco) il carattere "regio" del suo intervento diplomatico e preparando l'assegnazione ad Enrico di Gorizia del vicariato di Treviso. Nel corso dell'inverno 1318-19 i rappresentanti regi ottennero ripetute tregue, e nell'aprile 1319 il conte di Gorizia ottenne il vicariato trevigiano. L'obbligata conciliazione con costui indusse il D. ad orientarsi nuovamente contro Padova.
Ottenuta la neutralità trevigiana, e quella estense mediante la cessione del Polesine (fine di settembre del 1310), il D. ricercò allora, chiedendo a Giacomo da Carrara di accogliere i fuorusciti, che divengono in modo crescente strumento del suo rapporto con Padova, un'occasione di guerra: ed iniziò il memorabile assedio, che fu descritto e celebrato in versi da Albertino Mussato. Il tentativo di bloccare contemporaneamente i rifornimenti idrici e annonari, prendendo la città per esaurimento, fu condotto con uno spiegamento di mezzi eccezionale. Il grande insediamento fortificato costruito a Bassanello, presso Padova, prese il nome arrogante di "Insula de la Scala", e si configurò come un'"anticittà", con un suo podestà, che fu Simone Filippo de Realibus, e strutture amministrative per il controllo (integrale o quasi) del distretto. Sul piano diplomatico, il D. cercò in questo momento decisivo di evitare che Padova, oltre che dalle città guelfe dell'Emilia e della Toscana, fosse soccorsa anche da Enrico di Gorizia e da Federico il Bello. Ma Padova si affidò alla protezione di quest'ultimo, in nome del quale Ulrico di Waldsee assunse il vicariato della città nel gennaio del 1320. Anche il conte di Gorizia appoggiò apertamente Padova. La mediazione di Enrico di Carinzia e dell'Asburgo portò ad una tregua ed al successivo "parlamentum" di Bolzano (aprile 1320), cui il D. non si presentò, provocando l'intervento austriaco e tirolese-carinziano a sostegno di Padova.
Nell'estate del 1320 le vicende militari furono sfavorevoli ai Veronesi, sino alla grave sconfitta del 26 agosto, quando il D., battuto e ferito, riuscì a stento a rifugiarsi a Monselice. L'assedio a Padova, pertanto, fu tolto; la pace stipulata il 24 settembre prevedeva comunque la conservazione, da parte di Verona, di vari castelli sino all'arbitrato di Federico d'Austria.
Allo scopo di intendere pienamente il significato dell'attività politico-militare del D., è essenziale fornire qui alcuni elementi in ordine ai rapporti che si vennero instaurando fra lui ed il ceto dirigente delle città vicine; rapporti, che solo parzialmente e di recente sono stati approfonditi da una ricerca storica in precedenza attenta preferenzialmente al dato événementiel e all'attività personale - pur così importante - del signore di Verona.
La pressione militare e politica del D. su Padova avvenne contemporaneamente e contestualmente alla fisiologica evoluzione (o degenerazione) dell'establishment "guelfo" che aveva retto quella città nel cinquantennio postezzeliniano. Le ricerche dello Hyde, e l'esistenza di abbondanti fonti cronistiche e genealogiche, permettono di chiarire taluni aspetti del rapporto fra il D. e il ceto dirigente padovano dell'epoca, anche se mancano tuttora analisi monografiche su singole famiglie che tengano conto - caso per caso - dei fattori in gioco (la posizione dei diversi gruppi famigliari all'interno del ceto dirigente padovano, la dislocazione geografica - se verso Verona o verso Vicenza, o no - di beni e castelli, ecc.). Pochissime famiglie padovane avevano tradizioni ghibelline di una certa solidità, ai primi del Trecento: i Paltanieri di Monselice, e qualche podestà di carriera (Caligine, Engelfredi). Ma già nel 1312, agli inizi della crisi politica determinata dall'avvento di Enrico VII e dalla perdita di Vicenza, la consorteria facente capo ai da Lozzo (da Lozzo, Schinelli, da Castelnuovo, A. da Curtarolo), i cui castelli si trovavano negli Ruganei, si schierò col signore di Verona. In particolare Nicolò da Lozzo svolse allora un ruolo di notevole importanza, contribuendo ad orientare in senso filoscaligero anche Guecellone da Camino, signore di Treviso. Amici del D. della prima ora furono pure Geboardo e Rainaldo Scrovegni, "adulescentes locupletissimi", e Traverso Dalesinannini, "iuvenis animosus et acer" di una famiglia in declino, e così i Forzaté, da tempo in cattivi rapporti con il ceto al governo. Vi fu dunque un pur modesto nucleo iniziale di sostenitori del D., che si mantenne - sembra - relativamente stabile nelle complesse vicende degli anni seguenti, e che fece certo parte di quei cosidetti "gibellini" che nel luglio del 1318, "de mandato", secondo il Cortusi, aderirono alla concessione della signoria a Giacomo da Carrara. Secondo il Mussato, del gruppo fecero parte nel 1318, oltre alle famiglie citate, anche i Cane e i da Poiana. L'accenno al mandatum - "etiamconsenserunt omnes de parte Imperii de mandato domini Canis de la Scala" - è importante, perché, pur nell'indeterminatezza dell'espressione, lascia aperta la possibilità dell'esistenza di un rapporto di soggezione formale tale, da far sì che il D. potesse imporre in Padova alla "pars Imperii" un ordine espresso e specifico.
La situazione del ceto dirigente padovano rimase sempre assai fluida, aperta ai complessi giochi in atto fra le principali famiglie cittadine, attorno alle quali si aggregavano le partes. Al riguardo risulta di notevole interesse l'elenco dei "nobiles et burgenses" che in un momento molto particolare, nel quale fu necessario inevitabilmente prendere una posizione netta - cioè durante l'assedio portato dal D a Padova nel 1319-20 - si schierarono, secondo il Cortusi, "contra Paduam cum domino Cane" (ma si veda anche, per un elenco meno ampio pur se coincidente, Mussato, Sette libri inediti..., pp. 52 s.). Vi troviamo - oltre ai citati Scrovegni, Forzaté, Dalesmannini - i da Poiana (i soli dei quali il D. si fidasse ciecamente, "confidebat"; tanto che assegnò loro cospicue podesterie a Monselice, Montagnana, Bassano). Sarebbe interessante, riguardo a costoro, avere una conferma di quanto afferma il genealogista trecentesco De Nono, secondo cui i da Poiana non erano altro che i Paltanieri di Monselice: in tal caso, si avrebbe che l'unica famiglia padovana della quale il D. fosse sicuro era anche l'unica di tradizione ghibellina duecentesca. Il resto dell'elenco del Cortusi ci accerta che nel 1319-20 si schierarono per il D. gruppi famigliari eterogenei, con obiettivi e orientamenti politici assai differenti: molte le famiglie di origine popolare arricchite e in ascesa (Capodilista, Enselmini, Rossi, Altichini, Ronchi, Vitaliani); qualcuna appartenente al ceto dei giuristi (a Lorenzo da Terrasso, il D. affidò nel 1320 la podesteria di Este; inoltre i Partenopei, i Montagnone, i Brugine); altre - tutto sommato di non grande rilievo - della nobiltà magnatizia (sono i da Carturo, i da San Vito, i Caponegro, gli Ongarelli, i Frabiani, tutti citati nell'elenco dei magnati del 1278). Fra tutti spiccava il gruppo dei Maccaruffi. (coi loro amici: Polafrisana, da Vigonza, Terradura), di origine popolare, i cui legami con gli Estensi furono decisivi nel determinare l'isolamento politico di Padova nel terzo decennio del sec. XIV. Maccaruffo, il leader, "cum Carrariensibus contendebat licet impar"; ma la sua adesione tattica al D. (del quale, dice esplicitamente il Cortusi, "numquam fuit amicus"), adesione formalizzata anche con la consegna in ostaggio al D. di un figlio di Maccaruffo - non gli portò, infine, politicamente alcun frutto.
Già in questa fase dunque il D. sembra essersi limitato a sfruttare i contrasti interni al ceto dirigente padovano, contrasti che hanno una loro dinamica, sulla quale la pressione del D. solo parzialmente interferisce. Dopo il fallimento dell'assedio del 1319-20 egli confermò questo atteggiamento più attendista, lasciando che i fuorusciti "facessero il lavoro per lui" (Hyde), come dimostrano i disordini e le rivolte di castelli del distretto promosse negli anni 1322-27 da Corrado da Vigonza, Filippo da Peraga, Nicolò da Carrara: avvenimenti che con i torbidi interni del 1325 fecero maturare le condizioni per l'acquisto indolore di Padova, mediante accordo con Marsilio da Carrara. Nel complesso dunque un atteggiamento, da parte del D., più prudente e pragmatico negli anni successivi al 1320, il che quadra anche con le scelte da lui compiute in altre aree. Il caso padovano - così come le ricerche dello Hyde permettono di ricostruirlo - ribadisce comunque su un piano generale l'indispensabilità delle ricerche di carattere prosopografico-famigliare, interne ad un contesto cittadino, per lo studio dell'evoluzione politica anche nei primi decenni del sec. XIV.
Minori informazioni abbiamo, rispetto al caso padovano, sui suoi rapporti, ad esempio, con le famiglie trevigiane. Allo stesso modo è difficile per noi dare un senso preciso alla politica del D. nei confronti di Brescia che era per lui abbastanza importante, tale da indurlo a divenire formalmente capo di una pars di quella città (i cui aderenti cacciati nel 1316, "Veronam confugere omnes, bonaque sua et in eius districtu per publicum instrumentum Cani cesserunt"), e da determinare nel 1317 il suo radicale diniego alle proposte dei legati pontifici.
Rispetto ai casi ora citati, è qui significativo infine ribadire la radicale diversità del rapporto fra potere cittadino, fuorusciti politici e territorio che si venne ad istituire a Verona rispetto a quanto accadde nelle altre città della Marca (e a Brescia, e nelle città emiliane). Come aveva già affermato il Simeoni nelle sue ricerche sull'origine della signoria scaligera, a partire dal 1272-75 chi era fuoruscito da Verona fu fuoruscito per sempre, irrimediabilmente privo di contatti con i castelli del territorio, impossibilitato ad incidere - se non come carne da cannone, completamente subalterna alla città ospitante - nella vita politico-militare della città o del distretto di origine. Lo dimostrano del resto le poche vicende sinora studiate di famiglie guelfe veronesi. I Lendinara (si vedano gli studi dello Hyde) si "padovanizzano" completamente, nei rami espulsi. Nei primi decenni del Trecento, fra i pochi che ebbero un minimo credito politico vi furono Vinciguerra Sambonifacio e Pescaresio Dalfini da Peschiera, che si presentarono alla corte di Enrico VII. Ma un esame delle liste dei "Veronenses rebelles et inobedientes sacri Imperi et auxiliatores Paduanorum" del 1313 e dei "rebelles prefacti domini vicarii" elencati nella pace dell'aprile 1318 fra il D. e il Comune di Treviso, che li dovrà espellere (un nucleo si trasferì probabilmente a Piacenza, ove troviamo fuorusciti veronesi nel 1323), se dimostra, da un lato, che i fuorusciti veronesi erano un'entità ancora riconoscibile, conferma dall'altro come essi fossero completamente estranei al contesto locale: al punto che è in qualche misura sorprendente che il D. li faccia inserire nominativamente in questa pace, come se si trattasse di un pericolo reale. Ma agiva forse, se è consentita un'ipotesi non documentabile, la "memoria storica" della famiglia Della Scala, giacché troviamo in queste liste oltre ai banditi del 1269 (in parte almeno, fossili politici: Crescenzi, Turrisendi, Dalle Carceri, ecc.) anche tutti i "banniti pro morte nobilis et magnifici domini Mastini de la Scala" (1277) e i banditi per aver congiurato nell'ultimo ventennio del Duecento contro il padre del D., Alberto.
Nel giugno 1321 il D., appoggiandosi ad un esponente locale, Gorgia de Lusia pretendente all'episcopio, approfittando delle controversie fra Collalto e da Camino, si impadronì di Feltre con l'aiuto di Siccone da Caldonazzo. Contemporaneamente, sfruttando le controversie civili scoppiate in Belluno in occasione dell'assassinio di Guecellone da Camino, iniziò la penetrazione nel territorio bellunese, acquisendo le fortezze di Avoscano e Sommariva; poco dopo gli si sottomisero i conti di Cesana, ai quali la giurisdizione fu riconcessa in feudo. Le dedizione di Belluno al D. avvenne nell'ottobre del 1322; la città fu affidata a Bernardo Ervari.
Le vicende del dominio scaligero su Belluno e Feltre - poco studiate in epoca moderna - si presentano assai interessanti per l'immediato ed esplicito collegamento ricercato dal D. con il ceto nobiliare locale (agli Avoscani fu affidato Agordo, ai Doglioni Alpago, poi assegnata ad Endrighetto da Bongaio, che fu dal D. creato cavaliere nella curia del novembre 1328), per la riforma istituzionale in senso filonobiliare attuata nel 1326, per il pronto controllo anche in questo caso acquisito dall'episcopio. Non irrilevante fu l'apporto militare dei nobili bellunesi alle ultime imprese militari dello Scaligero.
In questi anni successivi al 1321 tratto saliente della politica del D. fu il tempestivo abbandono di un rigido "ghibellinismo" ed un più pragmatico accostarsi alle proposte politiche del legato papale, in particolare dopo che la battaglia di Mühldorf aveva tolto di mezzo Federico il Bello (cui il D. era pur sempre legato) e posto in primo piano Ludovico il Bavaro, col quale non risulta che il D. abbia avuto ancora per qualche tempo rapporti. Questo atteggiamento ebbe anche qualche riflesso concreto (1322: pressioni sul Comune di Lodi perché si sottomettesse al conte Enrico di Fiandra anziché ai Vistrarino, filoviscontei). Degli stessi ghibellini bresciani, dopo un tentativo dell'autunno 1321, il D. non risulta più interessarsi attivamente.
La prospettiva di una riconciliazione con la Curia sfumò nel drammatico confronto diplomatico dell'aprile-maggio del 1323 a Mantova, quando, durante le trattative fra Bertrando del Poggetto e i rappresentanti scaligeri e bonacolsiani per la remissione della scomunica, apparvero gli inviati del Bavaro che indussero il D. e Passerino Bonacolsi a schierarsi con l'Impero ed a portare aiuto a Milano assediata. Nel giugno fu stipulata una lega fra Verona, Mantova, Ferrara e l'imperatore; nel gennaio del 1324 il D. fu presente, a Palazzolo sull'Oglio, ad un convegno degli "operantes contra Ecclesiam", e partecipò poi all'assedio di Monza. Ma ancora pochi mesi più tardi, e forse di nuovo nel 1327, il D. ebbe contatti con la Curia.
Nella Marca intanto proseguiva la contrapposizione con Treviso in una continua alternanza di attacchi dei fuorusciti sostenuti dal D., di tregue negoziate da Federico il Bello (1321) o dal duca di Carinzia (1322-23), di precari accordi in Padova (1323). Nel 1324 il D. evitò abilmente, con forte esborso di denaro, l'attacco dell'esercito tedesco comandato dal duca, riuscendo anche a conquistare alcuni castelli (giugno 1324-gennaio 1325). Nel giugno 1325, con la mediazione di Ludovico il Bavaro, si giunse ad un ennesimo armistizio. Il D. partecipò di persona alle operazioni della lega ghibellina nel Modenese (assedio e conquista di Sassuolo: luglio) ed inviò truppe veronesi alle battaglie di Altopascio e Zappolino.
Non è escluso che la sua assenza da queste ultime imprese sia dipesa dalla crisi interna della signoria veronese, verificatasi nel luglio con il contrasto tra Federico Della Scala ed Alberto e Mastino, figli di Alboino, per la eventuale successione al D. caduto allora ammalato: Federico fu esiliato; non pochi suoi aderenti e amici furono giustiziati, e i due nipoti del D., ormai ventenni, o quasi, furono di fatto designati alla successione. Non compaiono, in questa occasione, gli illegittimi del Della Scala.
Le notizie sull'attività del D. nel 1326 sono scarne e incerte. Sembra che egli, prima che venisse decisa la discesa in Italia di Ludovico il Bavaro, abbia avviato trattative con Roberto d'Angiò e con Giovanni XXII. All'arrivo del Bavaro a Trento nel gennaio del 1327, il D. adottò una linea dura: nelle trattative con Ludovico egli offrì 200.000 fiorini, oltre che "servicium et amorem", per il vicariato di Padova, minacciando altrimenti di accordarsi con la Chiesa. Al rifiuto e alla successiva alleanza in funzione antiscaligera fra Ludovico ed Enrico di Carinzia pose riparo la mediazione di Obizzo d'Este. Al suo rientro in Trento il D. si presentò con un imponente esercito; ma nonostante che una fonte veronese affermi che in tale occasione "quodcumque voluit, obtinuit", egli conseguì solo la conferma del vicariato su Verona e Vicenza, e una tregua biennale con Enrico di Carinzia. Si ripeteva così in un certo senso la situazione venutasi a creare nei rapporti con Federico il Bello, con l'adesione all'Impero a condizionare e limitare la libertà d'azione dello scaligero.
Un'analogamente ostentata potenza e ricchezza - per apparire "potior Lombardus", come scrive l'Azario - il D. esibì a Milano, in occasione dell'incoronazione, quando probabilmente egli profittando dei cattivi rapporti fra i Visconti e il Bavaro "cogitavit habere principatum ambrosianae urbis". Ma dopo il convegno di Orzinuovi (agosto 1327) si limitò a sostenere, con il contigente più forte fra i signori ghibellini, la spedizione del Bavaro a Roma.
È stata più volte rilevata la scarsità delle informazioni disponibili sull'attività politico-diplomatica del D. pure dall'estate 1327 alla metà del 1328, un periodo nel quale il D. maturò scelte decisive per la storia scaligera e veronese. Ci si riferisce ovviamente, soprattutto, alla "sostituzione" operata dal D. - col mezzo di un contingente militare guidato da Guglielmo Castelbarco - di Passerino Bonacolsi, vicario imperiale in Mantova, con Luigi Gonzaga, esponente di una famiglia in notevole ascesa patrimoniale e politica, che fu insediato come capitano della città il 16 ag. 1328.
È ben possibile, come è stato ipotizzato dal Rossini, che il D. - frenato nelle sue aspirazioni verso Oriente (ma di poche settimane più tardi è il suo ingresso in Padova) e verso Brescia - abbia rivolto su Mantova la propria ambizione; o che, come vogliono le fonti gonzaghesche, il Bonacolsi si fosse collegato a Enrico di Carinzia e agli altri nemici dello Scaligero. Allo stato attuale delle conoscenze la decisione del D. appare, comunque, quanto meno legata ad una errata valutazione della situazione interna mantovana. Le conseguenze di ciò, come rilevò il Simeoni, sulla politica estera dei successori del D. furono tutt'altro che trascurabili, per la progressiva autonomia politica da Verona che la signoria gonzaghesca mostrò durante il dominio di Mastino (II).
Al riguardo non è stato sinora osservato, ci sembra, che il successivo diploma del Bavaro (Marcaria, aprile 1329) concede il vicariato mantovano al D. "et filiis suis": si può dunque ipotizzare che il D., mentre aveva designato i nipoti Alberto (II) e Mastino (II) alla successione a Verona, Vicenza e Padova, pensasse per Mantova agli illegittimi, per uno dei quali, Francesco, aveva combinato un matrimonio cospicuo, con una Rossi di Parma. La supposizione ci sembra non irragionevole; e, se altrimenti suffragata, potrebbe forse spiegare qualche aspetto di questi complessi rapporti con Mantova nel 1328-29.
Poco più tardi giungeva ad una svolta anche la lunga vicenda dei rapporti fra il D. e Padova. Egli non aveva cessato, negli anni 1325-28, di sostenere i fuorusciti, come Corrado da Vigonza (1326), Paolo Dente e Nicolò da Carrara, in discordia col cugino Marsilio, capitano della città. Nell'autunno 1327 buona parte del territorio padovano era nelle mani degli estrinseci. L'inconsistenza degli aiuti tedeschi convinse Marsilio a trattare direttamente col D., che scaricò Nicolò da Carrara e rinsaldò l'accordo con Marsilio mediante il matrimonio fra Mastino (II), suo nipote, e Taddea, una nipote del Carrarese. Il 10 settembre il D. entrò in Padova, ponendovi due fedelissimi quali Bernardo Ervari e Spinetta Malaspina rispettivamente come podestà e "capitaneus forensis militie". Qualche mese più tardi, la conquista di Padova e le nozze tra Mastino (II) e Taddea furono celebrate in una curia cavalleresca memoranda, di cui le cronache parlarono ancora a distanza di decenni; in tale occasione il D. creò ben trentotto cavalieri.
La leadership di Marsilio da Carrara venne in tal modo saldamente assicurata ed egli ricevette i beni di famiglie cospicue come i Dente, i Terradura, gli Altichini, i Malizia, i Maccaruffi, vale a dire di non poche famiglie eminenti di tradizione "popolare". Padova era dunque sì inserita nello Stato scaligero, ma sulla base di un collegamento verticistico con una famiglia eminente del ceto signorile locale, il cui prestigio veniva anzi rafforzato, quale era appunto quella dei da Carrara: ciò, in coerenza con l'azione politica svolta per un ventennio dal D., azione tutta tesa ad usare abilmente le fazioni cittadine.
Le scelte compiute dal D. dopo la conquista di Padova appaiono ispirate perciò ad una estrema moderazione: alla presentazione che gli venne fatta del "vexillum populi", il D. lo restituì immediatamente a Marsilio, creandolo vicario della città fra il tripudio generale e pur conservando "species quaedam principatus", come scrive il Vergerio, vennero rifiutati i denari raccolti attraverso una colletta ai cittadini. Vennero rispettate altresì le consuetudini in materia di mercati e di fiere.
Che il governo del D. su Padova sia stato "iugum mitissimum", come afferma (qualche decennio più tardi) il veronese Marzagaia, è esplicitamente sostenuto anche dai cronisti padovani (ad esempio, il Cortusi: "victis inimicis pepercit"). E v'è indubbiamente del vero nelle osservazioni del Cessi laddove parla, riguardo al governo del D. su Padova nel 1328-29, del suo "intuito" politico nel compiere le scelte predette, giacché conquistata Padova egli si troverà di fronte "al maggiore ostacolo, di dover cioè reggere le sorti di un territorio che ha interessi opposti ai suoi", essendo Padova, dal punto di vista commerciale ed economico, legata a Venezia. Infatti nel biennio 1328-29 il D. si studiò di "non inasprire la inevitabile preponderanza, che Venezia con suo commercio erasi assicurata nel territorio padovano"(Cessi). Con la città lagunare il D. aveva del resto sempre mantenuto, e mantenne allora, buoni rapporti, come dimostrano le deliberazioni dei Consigli veneziani - salvo qualche avvertimento per Treviso - e come conferma la concessione al D. della cittadinanza de intus e de extra (marzo 1329).
Questo giudizio sembra nelle sue linee generali condividibile, riconducendosi in fondo allo accennato sostanziale squilibrio fra economia veronese e politica scaligera: che sembra orientata dunque più da un abile sfruttamento della debolezza indotta nelle città vicine dalle lotte di fazione, piuttosto che da una "fisiologica" esigenza di espansione supportata da una preminenza economica, o da una particolare necessità di strutturare in termini di organizzazione statuale sovracittadina tali processi. È comunque, questa, una linea interpretativa degna di essere approfondita, per vagliarla, si presentano forse più lunghe e difficili, - e di esito incerto, da un punto di vista documentario - le ricerche di carattere storico-economico indirizzate ad apprezzare e dimensionare in modo corretto l'indubbia crescita dell'economia veronese (nel settore laniero e tessile in genere, oltre che in quello tradizionale del commercio atesino), ma anche a sottolineare la sua debolezza sul piano finanziario e bancario, che non quelle di carattere prosopografico e politico alle quali sopra si faceva cenno.
Ciò comporterebbe, di riflesso, anche un progresso delle conoscenze sull'attività amministrativa interna, che la ricerca ha approfondito solo per alcuni aspetti istituzionali (ad esempio, le riforme statutarie). È certo vero, come si sostiene comunemente, che il ceto dirigente veronese, anche nelle sue componenti mercantili ed artigiane, aderì pienamente alla politica scaligera; ma non per questo le modalità di questo rapporto, il modo con il quale si portò a compimento lo svuotamento degli organismi comunali ed altri temi di rilievo (come la politica urbanistica) non sono suscettibili di approfondimenti ulteriori, cui solidi studi eruditi offrono base di partenza.
La città era affidata in questi anni alle podesterie di fidatissimi milites, come Federico Della Scala, Francesco Della Mirandola, e poi, per oltre un quindicennio (1314-30), ad Ugolino da Sesso. L'autorità del dominus, di cui non sono ovviamente rare assenze anche prolungate (nelle cronache padovane è, ad esempio, ripetuta menzione dei suoi soggiorni a Vicenza, durante le guerre con Treviso e Padova), si fa comunque sentire in modo incisivo sull'amministrazione cittadina: già dal 1323 almeno è attestata l'esistenza di un liber ambaxatarum (del quale non si hanno tracce con i predecessori), il che prova l'esistenza di una codificata prassi di emanazione di ordini immediatamente esecutivi (ambaxate) diretti al podestà, ai funzionari della Domus mercatorum. Della Domus il D. conserva la podesteria a vita, segno esteriore ma non insignificante del ricercato collegamento con il ceto mercantile e artigianale cittadino, secondo la tradizione scaligera. Tra i provvedimenti più importanti presi, dominante il D., nella amministrazione cittadina va ricordato appunto il rifacimento degli statuti della Domus mercatorum e delle arti, realizzato nel 1319 da una commissione di dieci sapientes, nominati su mandato del Della Scala. Più tardo di un decennio (1328) è il rifacimento degli statuti comunali, in sostituzione di quelli risistemati nell'ottavo decennio del Duecento: in essi la preminenza politica del vicarius, come viene costantemente designato il D., è sancita e codificata in modo definitivo.
Ricordiamo ancora, fra gli altri, due aspetti importanti della vita cittadina in grado di influenzare l'attività politico-amministrativa del Della Scala. Il primo, noto nelle sue linee generali, è il buon rapporto con le istituzioni ecclesiastiche urbane (nel senso che esse sono soggette al controllo fermo del potere signorile, anche quando sedi abbaziali o altre non siano occupate da membri della famiglia): la scomunica, ad esempio, non influenzaaffatto i rapporti fra il D. e un vescovo come Tebaldo (1298-1331) che pure non fu privo di una sua personalità. Il secondo, molto meno noto, riguarda la politica fiscale adottata in ambito cittadino dal D., e si ricollega all'accennato problema della sperequazione fra l'esiguità territoriale dello Stato scaligero al tempo del D., il gettito fiscale che ne poteva derivare e la pratica ampiamente attestata di larghissime spese adottata dal D., in pace e in guerra.
Ai primi di luglio del 1329 il D. iniziò la guerra contro Treviso, priva ormai di appoggi che non fossero le mal sopportate guarnigioni di Enrico di Carinzia, e travagliata dai contrasti interni alla sua classe dirigente. Già nel 1327 il D. aveva completato l'accerchiamento prendendo Ceneda.
A Treviso il D. sembra aver progettato di applicare, "mutatis mutandis", lo stesso schema adottato a Padova, appoggiandosi cioè ad una cospicua famiglia signorile, quella dei Tempesta, con la quale aveva una lunga consuetudine di rapporti (peraltro alterni). A Guecellone Tempesta vennero conferiti, una volta conquistata la città, il capitaniato militare in Treviso, cospicui diritti daziari e la giurisdizione su Noale. Peraltro anche i Camposampiero, i Bonaparte e Gerardo da Camino conservarono i loro diritti, rendendo evidente la centralità del rapporto con la nobiltà locale nell'istaurazione del dominio scaligero in Treviso. Nella difficile dialettica fra esigenze militari (compatibili con l'appoggio della nobiltà) e fiscali (soddisfacibili solo con l'apporto delle strutture amministrative del Comune urbano) della signoria veronese si eserciterà nel decennio successivo, in Treviso, Pietro Dal Verme, dal D. nominato podestà della città.
Treviso fu conquistata il 17 luglio. Il D. vi fece ingresso il 18, ma, dopo brevissima malattia, vi morì il 22 luglio 1329. Il suo corpo, trasportato a Verona, fu sepolto in quello che era destinato a divenire il cimitero "di famiglia", nella contrada di residenza dei Della Scala (S. Maria Antica). Ivi, verso il 1335, Mastino (II) fece erigere la celebre statua equestre di Cangrande.
Il D. non ebbe, come si è detto, discendenti legittimi. La recente ricostruzione genealogica compilata dal Sancassani, confermando ed ampliando i dati dei vecchi genealogisti (Canobbio, Torresani), ha individuato otto discendenti illegittimi del D.: quattro figlie (Margherita, figlia di una Passione, famiglia in età comunale autorevole; Franceschina, monaca in S. Michele di Campagna; Giustina e Lucia Cagnola) e quattro figli, tre dei quali noti perché implicati in congiure familiari vere o presunte: Ziliberto - tale era il nome di un prestigioso collateralis del D. - che fu canonico di Verona dal 1323 e Bartolomeo: imprigionati nel 1329 da Mastino (II); Alboino, morto più tardi, nel 1354, in occasione della congiura di Fregnano contro Cangrande (II).
Non si tocca, in questa sede, il tema così ricco di implicazioni del "Cangrande di Dante" (Arnaldi), di quello che il D. può avere storicamente incarnato dal punto di vista politico per il mondo ghibellino del Trecento. Basti qui ricordare che l'apprezzamento per le sue doti di capo militare, e per la sua "magnificenza" - per il "non curar d'argento né d'affanni" -, è assolutamente generalizzato nelle fonti coeve. A titolo di pura esemplificazione, si può citare, al riguardo, l'aggettivazione - denotante una contenuta ma obiettiva ammirazione - che gli dedica en passant (con significativa occasionalità: al di là, cioè, di specifici luoghi nei quali si sofferma sulle sue doti) un cronista coevo che certo non lo amò né gli lesinò critiche, Albertino Mussato: "impiger", "irremissus", "sedulus", "acer et inexorabilis", "superbus in armis". In un altro cronista padovano, il Cortusi, è non diversa ammirazione per il D. come combattente: oltre che genericamente "fortis et audax", egli "licet impar bellum sumit" ed è "sepe consuetus ante omnes occurrere inimices"; e infine "bella semper per se gessit".
Fonti e Bibl.: Per le edizioni di fonti e la letteratura sino al 1895, si rinvia alla bibl. contenuta nell'opera di H. Spangenberg, C. I. D., I-II,Berlin 1892-1895, a tutt'oggi punto di riferimento irrinunciabile per gli studi sullo Scaligero. Tra quelle successive a tale opera si ricordano qui: Codice diplom. cremonese (715-1334), a cura di L. Astegiano, II, Torino 1898, p. 49; A. Mussato, Sette libri ined. del "De gestis Italicorum post Henricum VII",a cura di L. Padrin, Venezia 1903, ad Indicem; C. Cipolla, La storia scaligera secondo i documenti degli archivi di Modena e di Reggio Emilia, Venezia 1903, pp. 25-32; Documenti per la storia delle relaz. diplom. fra Verona e Mantova nel sec. XIV, a cura di C. Cipolla, Venezia 1907, ad Indicem; Acta Aragonensia, a cura di H. Finke, Berlin-Leipzig 1908, I, pp. 269, 369 s., 373 s., 379, 458; III, p. 521; Alberti de Bezanis abb. s. Laur. Cronica, in Mon. Germ. Hist., Script. rer. Germ., III, a cura di O. Holder-Egger,Hannoverae-Lipsiae 1908, pp. 84, 86, 93, 96; Constit. et acta publica, ibid., Legum sectio IV, a cura di I. Schwalm, IV, ibid. 1909-1911, pp. 529, 981 s., 1032 s.; V, ibid. 1909-13, pp. 339, 429, 440, 446, 449 s., 455 s., 467, 512, 581 s., 588; VI, 1, ibid. 1914-27, pp. 52 s., 75 ss., 159, 162 s., 172, 408, 474, 482; Gli antichi statuti delle arti veronesi secondo la revisione scaligeradel 1319 …, a cura di L. Simeoni, Venezia 1914, pp. XXIX, XXXIX, XLV, 3; Nova Alamanniae. Urkunden, Briefe undandere Quellen...,a cura di E.E. Stengel, I, Berlin 1921, pp. 93,95; Regesta Habsburgica. Regesten der Grafen von Habsburg …, III, Die Regesten derHerzoge von Österreich sowie Friedrichs des Schönen als Deutschen Königs von 1314-1330, a cura di L. Gross,Innsbruck 1924, pp. 73, 93, 98 s., 102, 105, 110 s., 114 s., 117 ss., 122, 127, 132, 137, 195 ss., 231; Chronica Mathiae de Nuwenburg, in Mon. Germ. Hist., Script. rer. Germ., n. s., IV, a cura di A. Hofmeister, Berlin 1924, p. 117; Glistatuti veronesi del 1276 con le correz. e le aggiuntesino al 1323, a cura di G. Sandri,I-II, Venezia 1940-59, ad Indicem; Die Kärntner Geschichtsquellen, a cura di H. Wiessner, I, 1310-25, Klagenfurt 1963, pp. 121, 149, 154, 179, 199, 209 s., 232 ss.; II, 1326-35, ibid. 1965, pp. 22 ss., 32, 49, 74; Idocumenti, a cura di G.Sancassani, in Dante e Verona, Verona 1965, pp. 5 ss., 9, 75-79,81, 97 s. e passim; Le deliber. del Cons. dei rogati, (Senato), Serie Mixtorum, I, a cura di R. Cessi-P. Sambin,Venezia 1960, ad Indicem; Consiglio dei Dieci, Deliberaz. Miste, reg. III-IV (1325-35), a cura di F. Zago, Venezia 1968, ad Indicem; G. Bolognini,rec. a Spangerberg, C. ... in Arch. stor. ital., s. 5, XIII (1894), pp. 125-49 (al vol. I); e ibid., XXI (1898), pp. 196-208(al vol. II);Id., Una questionedi cronologia scaligera nella Divina Commedia, in Atti e mem. dell'Accad. di agric., sc. e lett. di Verona, s. 3, I (1898), pp. 126-33; G. 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