GARRONI, Camillo Eugenio
, Nacque a Genova il 22 maggio 1852 da Vittorio Emanuele, d'una famiglia appartenuta al patriziato della città di Savona, e da Carlotta Oneto. Nel 1868 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Torino e l'anno seguente si trasferì a quella di Genova, dove si laureò nel 1872. Subito dopo entrò, per concorso, nell'amministrazione del ministero degli Interni e vi percorse una brillante carriera: fu commissario governativo ad Ascoli Piceno nel 1885, a Catania nel 1890, a Bologna e poi a Genova nel 1891.
In quest'ultima sede rimase sei mesi, sino al gennaio del 1892, nel corso dei quali ebbe modo di dare impulso ai lavori relativi alla viabilità e al porto, necessari in una città interessata da notevole sviluppo economico e demografico. Ma, soprattutto, esercitò un'azione determinante nel preparare, in occasione delle elezioni amministrative del 1892, una lista "concordata" - nella quale si riconoscevano e si armonizzavano gli interessi dei gruppi industriali e della curia arcivescovile genovese - che portò all'elezione del sindaco A. Podestà.
Nel febbraio 1893, raggiunto il ruolo di direttore di divisione, fu nominato prefetto dell'Aquila, dove rimase sino al 16 luglio di quell'anno, quando fu mandato a ricoprire il delicato incarico di regio commissario straordinario presso il Municipio di Napoli.
Frattanto, grazie ai giudizi lusinghieri espressi sul suo conto da due giolittiani fedelissimi come L. Gagliardo e L. Roux, entrò nelle grazie di G. Giolitti, allora per la prima volta presidente del Consiglio.
Da Napoli passò come prefetto ad Alessandria (19 febbr. 1894), poi a Genova (16 febbr. 1895) e a Messina (1° apr. 1896), infine di nuovo a Genova (16 luglio 1897), dove rimase ininterrottamente per i successivi quattordici anni raggiungendovi grande prestigio e autorità, grazie anche ai suoi rapporti con Giolitti e agli stretti legami col mondo degli affari ligure, tanto che le Camere di commercio locali protestavano energicamente ogni qualvolta si profilava la possibilità di un suo trasferimento.
A Genova il G. si trovò ad affrontare un clima di grande tensione determinato dalle lotte sociali che agitavano in quegli anni la città. Il 18 dic. 1900, su pressione degli ambienti padronali e dei mediatori che controllavano le operazioni di carico e scarico delle navi, sciolse la locale Camera del lavoro, con le sue sezioni di Sampierdarena e di Sestri Ponente, accusandola di propaganda sovversiva. Ne seguì uno sciopero generale esteso a tutta la Liguria che intimorì il governo Saracco: il 21 dicembre il G. ebbe ordine di revocare il provvedimento che pure, dieci giorni prima, era stato autorizzato. Subito il G. rassegnò le proprie dimissioni, informandone confidenzialmente Giolitti; ma fu invece il governo a doversi dimettere, il 7 febbr. 1901, proprio in seguito alla discussione parlamentare sui fatti di Genova nel corso della quale Giolitti difese con forza la libertà delle associazioni sindacali.
Dopo l'ingresso di Giolitti nel gabinetto Zanardelli, la posizione del G. si rafforzò e si precisò. Negli anni seguenti egli affrontò le lotte sociali cittadine assecondando la strategia giolittiana, tesa a evitare scontri frontali col movimento operaio e a incanalarne la protesta nell'ambito della legalità. A partire dal 1901, infatti, il G., trattando spesso con i socialisti locali, in particolare con P. Chiesa, poté controllare efficacemente numerosi scioperi, specie fra i marittimi e i portuali. Nel contempo pilotava le elezioni a favore di Giolitti, e gli garantiva un discreto appoggio da parte dell'opinione pubblica e della stampa locali: una collaborazione premiata, il 12 genn. 1902, con la concessione del titolo marchionale e, il 4 marzo 1905, con la nomina a senatore.
Nel 1910 il G. ebbe poi modo di guadagnarsi una speciale benemerenza presso lo statista piemontese in procinto di tornare al potere, allorché fu tra coloro che più si adoperarono nella complessa operazione che portò la Banca commerciale italiana e alcuni importanti industriali ad acquisire la proprietà del quotidiano romano La Tribuna onde assicurarlo definitivamente ai giolittiani sotto la direzione di O. Malagodi: il G. riuscì, infatti, a convincere il "gruppo genovese" - composto da magnati dello zucchero, dell'acciaio e della marina mercantile, settori strettamente legati alla Commerciale e le cui fortune dipendevano dalle buone disposizioni del governo - a investire somme consistenti in questa operazione.
Poco tempo dopo la conclusione delle manovre relative a La Tribuna, il 30 marzo 1911, Giolitti formò il suo quarto ministero, e il G. ottenne una prestigiosa ricompensa. Il 21 luglio 1911 fu, infatti, nominato ambasciatore a Costantinopoli con una procedura del tutto inconsueta poiché, di norma, i diplomatici provenivano dal ministero degli Esteri.
L'opposizione si inalberò, e sulle colonne dell'Illustrazione italiana "il dittatore Giolitti" venne accusato di aver messo a riposo senza motivi plausibili il precedente ambasciatore, E. Mayor des Planches, "sostituendolo con un diplomatico improvvisato", per di più in una sede delicatissima cui facevano capo gravi problemi internazionali come quelli relativi all'Albania, alla Tripolitania e al Marocco: "un atto di nepotismo politico - seguitava il settimanale - verso un funzionario che è stato sempre il più fedele interprete della politica interna giolittiana e che ora, in omaggio a tale politica, bisognava togliere da Genova, dove la politica stessa vuol dare qualche pegno di tangibile arrendevolezza ai socialisti". In realtà quella nomina obbediva ad altri criteri: la necessità di avere nei punti chiave, alla vigilia della guerra di Libia, personaggi di assoluta fiducia; e, nel caso specifico del G., l'opportunità di sfruttare i suoi agganci col mondo imprenditoriale per favorire la penetrazione economica italiana nell'Impero ottomano. Visto che gli obiettivi dell'Italia nel Mediterraneo orientale "richiedevano un'opera di coordinamento fra interessi politici e finanziari", il G. "poteva adempiere a questo compito meglio di qualsiasi veterano del corpo diplomatico", come poi di fatto avvenne (Webster, p. 453).
Intanto, però, lo scoppio della guerra di Libia impedì la partenza del G. per Costantinopoli, dove egli giunse solo alla fine delle ostilità. Tra il 1912 e il 1914 divenne uno dei più influenti diplomatici accreditati presso il governo ottomano ed ebbe un ruolo fondamentale, a partire dal gennaio 1913, nel portare avanti il programma di penetrazione economica italiana in Asia Minore, nell'area circostante la città di Adalia che il G. aveva segnalato come ben collocata dal punto di vista strategico e capace di offrire notevoli opportunità di affari alle industrie italiane, in particolare nel settore minerario, per il quale all'inizio del 1914 egli chiese e ottenne la collaborazione dell'Ilva.
Nella primavera del 1914 il G. aveva messo a punto un programma che prevedeva la formale richiesta al governo ottomano di concessioni per linee ferroviarie, installazioni portuali e impianti idroelettrici; e aveva suggerito di tener separata tale richiesta dalla questione dello sgombero del Dodecaneso per "togliere alle concessioni ogni e qualsiasi carattere politico" (I documenti diplomatici italiani, s. 4, XII, p. 236). Ma il governo italiano si mosse in direzione opposta complicando la trattativa, che peraltro fu vanificata dal precipitare della situazione internazionale nell'estate del 1914.
Il G. aveva avuto sentore in anticipo dello scoppio della guerra grazie alle confidenze dell'ambasciatore tedesco a Costantinopoli, Hans von Wangenheim, che egli sostenne di avere reso note al governo italiano il 16 luglio 1914, prima dell'ultimatum austriaco alla Serbia; ma il dispaccio, per motivi mai ben chiariti, o non giunse a destinazione o non venne preso in considerazione (S. Sonnino, divenuto ministro degli Esteri nel novembre, in una relazione stilata nel settembre 1915, dopo il ritorno del G. da Costantinopoli, affermò invece che questi non ne aveva mai avvertito il governo: cfr. ibid., p. 180; da ciò nacque un forte suo risentimento nei confronti di Sonnino). Riguardo alla posizione dell'Italia, egli si schierò subito a favore della neutralità, vedendo in essa una saggia linea di condotta che avrebbe permesso di tutelare gli interessi italiani in Asia Minore e nei Balcani, evitando inutili massacri. Dopo l'entrata in guerra dell'Italia rimase in sede fino all'agosto 1915 (la dichiarazione di guerra dell'Italia venne da lui consegnata al governo ottomano il 20 agosto), ma obtorto collo e tempestando il ministero di richieste per essere richiamato.
Fino all'ultimo nei suoi dispacci batté sul tasto del non intervento, suggerendo anzi che l'Italia promuovesse iniziative di pace dalle quali, oltretutto, avrebbe potuto trarre compensi territoriali; e ancora alla metà di maggio del 1915 scriveva a Giolitti che le dimostrazioni interventiste erano promosse "in massima parte da gente o prezzolata od in mala fede" (Dalle carte di G. Giolitti, III, p. 163). Rimase poi sempre persuaso che l'entrata in guerra fosse stata un atto improvvido da cui il paese era uscito rovinato, anche perché la vittoria dell'Intesa aveva distrutto quell'equilibrio europeo che solo, a suo avviso, poteva garantire all'Italia una certa importanza internazionale.
Durante gli anni del conflitto il G. si tenne in disparte come il suo grande protettore, fu poi tra coloro che aderirono al banchetto elettorale di Dronero e, quando Giolitti ritornò al potere, occupò nuovamente un posto di grande responsabilità: nel settembre 1920 fu nominato "alto commissario" e inviato a Costantinopoli - allora in regime di occupazione alleata - per reggere la città unitamente ai rappresentanti di Francia e Inghilterra.
Vi rimase due anni segnati da grandi difficoltà e pericoli, tra l'attacco greco alla Turchia e la rivoluzione kemalista, la cui carica innovativa il G. non riuscì a cogliere, considerandola nulla più che una riedizione del movimento dei Giovani Turchi e una manifestazione di quella ch'egli chiamava "la Turchia incivile e fanatica" (I documenti diplomatici italiani, s. 5, I, p. 363). Anche a causa di questa incomprensione la sua seconda permanenza a Costantinopoli risultò meno fruttuosa della precedente.
Di carattere scettico ed esponente tipico di quella categoria di alti funzionari che incarnava la continuità dello Stato al di là di ogni mutamento politico, il G. non fu particolarmente colpito dall'avvento al potere di B. Mussolini. Rimase al proprio posto, affermando di essere ambasciatore non del governo italiano ma del re e sostenendo: "Se Sua Maestà accetta Mussolini, non vedo perché non dovrei accettarlo anch'io" (Quaroni, Il marchese G.). Col nuovo presidente del Consiglio trovò anzi un'intesa sulla necessità di aprire al più presto la conferenza per la pace con la Turchia e quando, nel novembre 1922, tale conferenza ebbe inizio a Losanna il G. vi fu inviato come capo della delegazione italiana.
Qui si adoperò perché fosse riconosciuto il principio della parità dell'Italia nei confronti delle altre potenze alleate, perché fossero salvaguardate le posizioni economiche acquisite nei territori dell'Impero ottomano già prima della guerra, con l'aggiunta anzi di nuove concessioni petrolifere, e garantito il possesso italiano del Dodecaneso.
A parte una breve permanenza a Londra nel marzo 1923, sempre per questioni relative alla pace con la Turchia, il G. rimase a Losanna sino alla firma del trattato, il 24 luglio 1923. Dopo di che scelse di abbandonare la carriera diplomatica, ottenendo da Mussolini la nomina ad ambasciatore onorario e ministro di Stato. Nel 1924, alla vigilia delle elezioni del 6 aprile, d'intesa con Giolitti si prodigò a favore dei candidati liberali in Liguria illudendosi che, con l'appoggio al fascismo, potesse essere garantita la sopravvivenza "di quel partito liberale che deve rimanere per non lasciare campo libero ai popolari ed ai fascisti" (Dalle carte di G. Giolitti, III, p. 417). Ma per i liberali e i giolittiani non c'era più spazio, e la stagione politica del G. era ormai definitivamente conclusa. Si ritirò dunque a vita privata mantenendo però una certa attività sotterranea: straordinario conoscitore degli apparati statali e degli uomini in essi operanti, legato a mille personaggi che negli anni della sua carriera prefettizia erano stati da lui collocati nei più diversi uffici, conservò a lungo il potere di raccomandare e di risolvere affari delicati.
In particolare fece opera di efficace mediazione in due vicende che interessavano Savona, città d'origine della sua famiglia: nel 1926 fu tra coloro che ne favorirono l'elevazione a capoluogo di provincia; e, due anni dopo, concorse a evitare che la locale Cassa di risparmio - la quale intendeva salvaguardare la propria autonomia - venisse assorbita da quella di Genova.
Il G. morì a Genova il 22 maggio 1935. Nel 1928 aveva aggiunto al proprio il cognome Carbonara (Spreti, Appendice II, p. 131: r.d. di autorizzazione).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Università, 1141, f. 18; Genova, Arch. storico del Comune, lista di leva del 1852; Ministero degli Affari esteri, I documenti diplomatici italiani, s. 4, XII; s. 5, I-V, VIII; s. 7, I, ad indices; Relazione del R. Commissario straordinario march. avv. C.E. G. al Consiglio comunale di Genova, Genova 1892; L'Illustrazione italiana, 30 luglio 1911, pp. 98-100; 5 sett. 1920, p. 307; G. Giolitti, Memorie della mia vita, Milano 1922, pp. 445, 505; L. Einaudi, Le lotte del lavoro, Torino 1924, pp. 70, 75; A. Robatto, La grande Savona nel pensiero di s.e. C. G., Savona 1927; A. Salandra, La neutralità italiana 1914-15, Milano 1943, pp. 115 s.; L. Albertini, Venti anni di vita politica, pt. 2, L'Italia nella guerra mondiale, I, Bologna 1951, pp. 40, 254, 381 s.; P. Quaroni, Il marchese G., in Corriere della sera, 31 dic. 1953; Dalle carte di G. Giolitti. Quarant'anni di politica italiana, Milano 1962, ad indicem; G. Giacchero, Genova e Liguria nell'età contemporanea, Genova 1970, p. 525; R.A. Webster, L'imperialismo industriale italiano 1908-1915, Torino 1974, ad indicem; S. Sonnino, Carteggio, a cura di P. Pastorelli, Bari 1974-75, ad indices; L. Garibbo, I ceti dirigenti tra età liberale e fascismo, in La Liguria, a cura di A. Gibelli - P. Rugafiori, Torino 1994, pp. 230, 234, 237; Chi è? Diz. degli Italiani d'oggi, 1931, p. 344; V. Spreti, Enc. storico-nobiliare italiana, III, p. 371; M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d'Italia, ad indicem.