CALÀ ULLÒA, Pietro, duca di Lauria, marchese di Favale e Rotondella
Nato a Napoli il 15 febbr. 1801 da Giovanni Battista e Elena 0' Raredon, che ebbero dopo di lui Antonio e Girolamo, studiò con buoni risultati alla Nunziatella e poi al liceo del Salvatore. Manifestò ben presto doti di poeta estemporaneo, che gli meritarono a soli sedici anni riscrizione all'Accademia Sebezia e all'Accademia Delfica, e con la stessa precocità diede inizio ad una serie di avventure galanti che lo invischiarono anche in vertenze cavalleresche.
Per le ristrettezze economiche della famiglia, causate dalle vicende politiche e dalla cattiva amministrazione del padre, nel febbraio 1819 si impiegò nella direzione della Pubblica Istruzione, dimettendosene poi volontariamente nel gennaio 1820. Scoppiata la rivoluzione, vide con simpatia il regime costituzionale, e nel '21 fu ufficiale nell'esercito che si oppose con esito infelice alle truppe austriache. Allora il C., che già aveva mostrato la varietà dei suoi interessi culturali pubblicando nel 1820 un Saggio sulle opere di G. B. Say nella "Biblioteca Analitica", si rivolse alla professione forense e frequentò nel 1822-23 lo studio di N. Nicolini; frutto dei suoi studi giuridici furono le Osservazioni sui diversi punti del codice penale, pubblicato anonimo a Napoli nel 1824.
Nel febbraio 1823 aveva sposato la napoletana Luigia Falangola, di quattro anni più anziana, e si ritirò per qualche tempo in campagna, dedicandosi prevalentemente alla letteratura e collaborando a vari giornali. Per i meriti letterari nel giugno 1829 fu nominato, dietro concorso, professore di eloquenza nel R. Collegio militare.
Salito al trono Ferdinando II, anche il C. partecipò alle speranze della classe dirigente nel giovane re e al moto di rinnovamento che investì per qualche anno il regno. Nel '31 pubblicò sull'Ateneo. Giornale di scienze, letteratura, arti ed industria (vol. I, 1831) il saggio Del commercio attuale di alcuni prodotti del Regno di Napoli, quindi collaborò al Progresso (dopo che la rivista era passata sotto la direzione del Bianchini) con articoli di carattere economico-sociale (Della povertà e della mendicità in taluni Stati d'Europa, vol. XII, 1835; Osservazioni sulla conversione delle rendite pubbliche di Giuseppe Ceva Grimaldi, recensione, vol. XIV, 1836) e di carattere giuridico (Dell'esposizione dei reati in Inghilterra ed in Francia, e del quadro statistico dell'amministrazione della giustizia penale nel Regno di Napoli, vol.X, 1835; Delle vicissitudini del diritto penale in Italia, voll.XVI-XVII, 1836; Quadro statistico generale sull'amministrazione della giustizia penale dei reali domini al di qua del Faro per l'anno 1833, vol. XVIII, 1837). Questi ultimi si ricollegavano al suo ritorno alla professione forense, nella quale riuscì a cogliere un clamoroso successo nel dicembre dell'anno 1835 con la difesa di Domenico Veredice, reo di aver ucciso il padre che gli insidiava la moglie. Per la fama conseguita fu chiamato nella magistratura dal ministro N. Parisio: il 26 dic. 1836 fu nominato giudice nel tribunale civile di Avellino e il 31 dic. 1837 fu nominato giudice criminale con le funzioni di procuratore generale presso la Gran Corte criminale di Trapani.
Il trasferimento era dovuto ad una svolta della politica di Ferdinando II. Allarmato per le agitazioni antinapoletane verificatesi nelle maggiori città della Sicilia in seguito al colera, il sovrano nel '37 revocò la relativa autonomia che aveva concesso all'isola, adottando criteri di accentramento. Tra l'altro decise la promiscuità degli impieghi statali tra siciliani e napoletani, ed inviò nell'isola molti funzionari napoletani, al posto di un egual numero di siciliani trasferiti nelle province continentali. Il C. si immedesimò nel compito di controllo e di rigenerazione che i napoletani si attribuivano, ed inviò al ministero il 25 apr. 1838 una relazione Sulle condizioni della magistratura in Sicilia, in cui analizzava le cause del cattivo funzionamento dell'amministrazione giudiziaria nell'isola e ne indicava i rimedi, ed il 3 agosto dello stesso anno delle Considerazioni sullo stato economico e politico della Sicilia, in cui esaminò con ampiezza la situazione dell'isola ed indicò i provvedimenti che gli sembravano opportuni. Promosso il 30 genn. 1840 giudice di Gran Corte civile in missione di procuratore generale presso la stessa Gran Corte di Trapani, e poi il 12 dic. 1844 procuratore generale sostituto con le funzioni di procuratore generale presso la Gran Corte civile di Messina, il C. tornò sul continente solo con la nomina a procuratore generale presso la Gran Corte civile dell'Aquila (23 febbr. 1846); il 16 febbr. 1847 fu trasferito con le stesse funzioni ad Avellino.
Da Avellino il C. seguì gli avvenimenti succeduti all'elezione di Pio IX e le vicende del '48. Fautore di un governo onesto e provvido di tipo paternalistico, simile a quello realizzato nel decennio francese, egli non partecipò agli entusiasmi dei liberali italiani, anzi, a suo dire, fin dal giugno '47 previde che la sua politica poco accorta avrebbe costretto Pio IX a rifugiarsi a Gaeta (lettera a P. P. Parzanese, Avellino 23 genn. 1849). Fu, quindi, tra i più zelanti esecutori della reazione borbonica, meritando nell'aprile '50 gli elogi del generale Palma, comandante la divisione territoriale di Principato Citra e Ultra, ed ottenendo la promozione a consigliere della Corte suprema di giustizia, in missione di procuratore generale presso la Gran Corte civile di Trani, dove stette dal dicembre '51 all'ottobre '54, quando ottenne il posto nella capitale.
Per giustificare la politica antiliberale di Ferdinando II il C. scrisse anche due opere storiche, Coupd'oeil sur la situation de la Sicile en 1847 et sur la marche de sa révolution (Genève 1850; pubblicata col cognome materno di O' Raredon, "a cura e spese del real governo", come attestò il De Cesare) e De' fatti dell'ultima rivoluzione derivati da' giudizi politici del reame di Napoli (Napoli 1854, messa però in circolazione solo dopo il '70).
In entrambe espresse la sua avversione alle rivoluzioni, che costano solo miserie e lagrime. Nella prima si propose di dimostrare la colpa dei Siciliani, che avevano suscitato loro la tempesta ed avevano persistito in un atteggiamento di sfida, e sostenne che in realtà i promotori dell'insurrezione avevano mirato alla repubblica più che all'unità italiana. Nella seconda giustificò la condanna di uomini colti e stimati con l'enormità degli attentati e dei pericoli per lo Stato: nel '48 "le leggi, i miglioramenti, la civiltà (scopo di quattordici secoli e frutto delle massime della Chiesa) furono sul punto d'essere distrutti. Favore di cielo e prudenza di principe onta e danno d'invasione straniera al reame risparmiarono" (De' fatti…, p. 377).Era la posizione di molti moderati napoletani, come L. Blanch, che legittimavano la reazione borbonica con la necessità di garantire l'ordine pubblico.
Il C., che aveva sempre continuato a coltivare la letteratura, mantenendo corrispondenza con letterati italiani ed europei, nel 1858-59 pubblicò a Ginevra in due volumi Pensées et souvenirs sur la littérature contemporaine du royaume de Naples, un'opera ricca di notizie, con cui si proponeva di far conoscere all'Europa il movimento generale della cultura napoletana, messa in relazione con la vita politica del Regno e con la letteratura europea contemporanea.
Nell'estate del '60, quando Francesco II concesse la costituzione nella speranza di salvare la corona, coerentemente con le sue convinzioni fu contrario al nuovo regime: nel luglio si adoperò per rafforzare l'autorità del re e nell'agosto collaborò attivamente alle manovre del conte d'Aquila tendenti a ripristinare di fatto l'assolutismo con un colpo di mano militare. Fallito ancora il 30 agosto un suo estremo tentativo di formare un ministero deciso a lottare fino all'ultimo contro Garibaldi, il C. lasciò la capitale e si recò a Gaeta, dove fu ministro dell'Interno nel gabinetto Casella; nel novembre fu inviato a Roma e a Parigi per chiedere aiuti, ma la missione non conseguì risultati positivi. Dopo la caduta di Gaeta fu presidente del governo costituitosi in esilio a Roma, e mantenne la carica fino al suo scioglimento, deciso da Francesco II alla fine del '66. Convinto che ormai i Borboni non potevano recuperare il Regno se non con l'aiuto delle grandi potenze ed in seguito ad avvenimenti di portata europea, scrisse in questo periodo vari opuscoli, rivolti a dimostrare all'opinione pubblica europea le colpe e gli errori del governo italiano nel Mezzogiorno e la necessità di ridare al paese la legittima dinastia (Delle presenti condizioni del reame delle Due Sicilie, s.l.1862; Lettres napolitaines, Rome 1863; L'union et non pas l'unité de l'Italie, Italie 1867; L'abdication, le partage et la fédération de l'Italie, Italie 1868; Les prévisions de Gaëte et les promesses d'Ancone, Italie 1869; Lettres d'un ministre émigré, Marseille 1870).
Nell'azione promossa da Roma per il recupero del Regno egli fu avverso alla riutilizzazione dei briganti e ad ogni forma di lotta che poteva alienare al sovrano l'animo dei sudditi; per questa stessa ragione volle che Francesco II non sconfessasse la costituzione concessa nel '60 e non assumesse un atteggiamento reazionario. Così si trovò esposto agli attacchi degli assolutisti, che formavano la maggioranza alla corte del re in esilio, e dovette soffrire una meschina guerra, di cui si lamentò nelle sue memorie e con gli amici (cfr. lettera al Brofferio del 21 ott. 1863).
Dopo porta Pia ottenne di ritornare a Napoli, dove visse in disparte, dedicandosi a studi di storia napoletana, tra i quali ricordiamo Marie Caroline d'Autriche et la conquête du royaume de Naples en 1806, Paris 1872, e Annotamenti intorno alla Storia del Reame di Napoli di P. Colletta, Napoli 1877.
Morì a Napoli il 21 maggio 1879.
Fonti e Bibl.: Il C. lasciò molte opere manoscritte. Ricordiamo: Delle rivoluzioni nel reame di Napoli (Napoli, Biblioteca naz., Mss., XI F 42-43; altra redazione a Roma, Museo centrale del Risorgimento, Manoscritti, 670-673), da cui sono stati tratti Ilregno di Francesco I, a cura di R. Moscati, Napoli 1933, e Il regno di Ferdinando II, a cura di G. De Tiberiis, Napoli 1967; Napoli, Bibl. naz., Manoscritti, XIF 39: Ricordi. Dall'entrata di Garibaldi a Napoli all'assedio di Gaeta.Il fondo Ulloa della Deputazione napoletana di storia patria è andato in gran parte perduto in seguito agli ultimi avvenimenti bellici: tra quello che resta è di qualche interesse il manoscritto XIX A 9: Mes idées et ma corréspondance, lettere e considerazioni dal 4 dic. 1866 al 28 marzo 1867; sono perdute Le memorie della mia vita sino all'anno 1843, che furono utilizzate da G. Doria nella introd. a P. Calà Ulloa, Un re in esilio. La corte di Francesco II a Roma dal 1861 al 1870, Bari 1928, tratto dal manoscritto Il mio esilio, anch'esso perduto. Le notizie biografiche date dal Doria sono state qui completate e in parte rettificate con i dati contenuti nell'Archivio di Stato di Napoli, Ministero Grazia e Giustizia, Magistrati, fascicolo 435, Ulloa Pietro:ivi è confermata la data di nascita riferita da C. De Cesare, Della vita e delle opere di P. U., Bari 1852; Vi è anche acclusa la lettera di elogio del generale Palma, Salerno 22 apr. 1850. Tra le molte lettere del C. ricordiamo quelle a P. P. Parzanese (1849-1851) in Bibl. naz. di Napoli, Carte Lo Parco, busta 3, e quelle ad A. Brofferio (1828-1863) nel Museo centrale del Risorgimento di Roma (busta 388). Sul C. cfr. anche M. Menghini, L'ultimo ministro di Francesco II, in Esercito e nazione, VII(1929), estratto; E. Pontieri, Ferdinando II di Borbone e la Sicilia: momenti di politica riformatrice, in Ilriformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell'Ottocento, Roma 1945, che contiene le due relazioni del C. del 1838; E. Cione, Napoli romantica, Napoli 1957, passim;A. Saladino, L'estrema difesa del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1960, passim.Recentemente del C. sono stati ristampati il lavoro su Maria Carolina (trad. di U. Pannuti, introd. di A. Rosada, Napoli 1968) e Delle presenti condizioni del reame delle Due Sicilie, in G. De Tiberiis, Le ragioni del Sud, Napoli 1969.