BUONACCORSI
Famiglia fiorentina che dette nome a una compagnia mercantile e bancaria attiva nella prima metà del sec. XIV.
Sebbene la presenza di mercanti con il cognome o il patronimico Buonaccorsi sia frequentemente attestata, in Italia e fuori d'Italia, dalla metà del sec. XIII in avanti, non vi è dubbio che occorra operare una distinzione molto netta non solo fra i mercanti Buonaccorsi pistoiesi e romani da una parte, e quelli fiorentini dall'altra, ma anche all'interno di questi ultimi. Se pur non è possibile affermare con certezza l'inesistenza di rapporti di parentela fra i Buonaccorsi fiorentini che conosciamo impegnati nella mercatura nella prima metà del Trecento e, ad esempio, quel Calcanno, socio nel 1262 della compagnia di Iacopo Ghiberti, o quel Bonaccorso, che era nel 1282 "capitaneus universitatis mercatorum Tuscie et Lombardie in senescallia Bellicandri et Nemansi commorantium", è certo che una vera e propria compagnia dei Buonaccorsi non sorse che verso l'inizio del Trecento e non comprese tutti i mercanti fiorentini di questo cognome che ci sono noti. Talora anzi non risulta neppure che portassero questo cognome mercanti che pure sono stati accomunati ai Buonaccorsi: è il casodei fiorentini Tetto di Bonaccorso e dei suoi figli Lippo e Bonaccorso, fattori, il primo degli Acciaiuoli, i secondi dei Bardi, e attivi nell'Italia meridionale fra il 1294 e il 1318: proprio un documento del 1294 (Davidsohn, Forsch., III, p. 48) ce ne dà infatti il vero cognome, "de Alcapacis", probabile corruzione di "de Altopace", lo stesso cognome cioè dei mercanti fiorentini Bandino e Vanni falliti nel 1295 e di un Vieri di Pacino anch'egli fattore dei Bardi intorno al 1310. Altri mercanti che portavano realmente il cognome Buonaccorsi non operarono mai nell'ambito della compagnia omonima, come Cione (attivo intorno al 1296) e Gherardo di Gentile (attivo fra il 1310 e il 1331) che appartennero entrambi ai Peruzzi, o Giovanni e i suoi figli che furono soci degli Acciaiuoli, o Lapo di Giovanni che fu fattore dei Bardi. E ancora: Bonaccorso di Falco, fallito nel 1288; Caruccio di Rinieri ed i suoi figli Bandella e Nieri dichiarati, insieme con altri "cessantes et fugitivi" nel 1309; Bertoldo fattore a Salerno nel 1324 dei Bardi, dei Peruzzi e degli Acciaiuoli. Infine, come si vedrà, gli stessi Buonaccorsi qui considerati prestarono servizio nella compagnia omonima dopo essersi licenziati da altre società.
Mentre Yves Renouard metteva in risalto l'importanza della compagnia dei Buonaccorsi e sottolineava come in certi settori (Italia meridionale, finanza pontificia) fosse stata seconda soltanto ai Bardi ai Peruzzi e agli Acciaiuoli, il Luiso, nel corso delle sue ricerche su Giovanni Villani, cognato di Vanni Buonaccorsi e socio della compagnia, ebbe il merito di chiarire e datare, almeno approssimativamente, le origini della società, distinguendone le attività da quelle dei vari Buonaccorsi presenti in altre compagnie e da quelle dei lucchesi Battosi, con i quali frequenti errori di lettura avevano portato a confondere i Buonaccorsi.
Un ulteriore ampliamento delle ricerche del Renouard e del Luiso permette di constatare che la compagnia Buonaccorsi operava già nel 1307 diretta da Lapo Buonaccorsi e da Mando di Bellincia, zio di Villano di Stoldo: la quota della società, 40 fiorini, in una "imposita" di 4.000 fiorini cui vennero sottoposte in quell'anno le ditte fiorentine, è rivelatrice della sua ancor scarsa consistenza. Essa già operava, tuttavia, oltre che a Firenze, anche a Genova e intorno al 1310 a Pisa, dove aveva un fattore. Del 1311 - quando sembra fosse a capo della società Betto Buonaccorsi - sono le prime testimonianze sulla presenza nell'Italia meridionale: è di quest'anno infatti una pergamena datata 11 marzo 1300 (Cod. dipl. barlettano, I, p. 247) in cui si parla d'un mercante "Borghesius" "socius Rubei Ildebrandini de societate Bonaccursorum de Florentia"; si tratta d'un pagamento effettuato a Napoli per l'arciprete della cattedrale di Barletta; ma l'indizione dell'atto è la IX anziché la XIII corrispondente al 1300, e la data esatta dovrebbe essere il 1311 quando realmente cadeva la IX indizione. In un altro atto del 3 maggio 1311 (Davidsohn, Forsch., III, p. 118) compaiono come testimoni, ancora a Barletta, due "mercatores de societate Bonaccursorum de Florentia": "Chele Iohannis" e "Rusticus Duccii". Nel 1314 i Buonaccorsi, grazie a prestiti concessi a Roberto d'Angiò, furono autorizzati a introdurre grani a Napoli e nelle città pugliesi insieme con i Bardi, i Peruzzi e gli Acciaiuoli. L'11 febbr. 1316 il loro fondaco di Molfetta venne saccheggiato per ordine del luogotenente del gran maestro di Gerusalemme; sempre a Molfetta, nel gennaio 1319, i Buonaccorsi denunciavano un cittadino presso il quale avevano depositato 30 once d'oro perché non voleva restituirle; i nomi dei tre fattori dei Buonaccorsi citati ci sono già noti e testimoniano della continuità della presenza della compagnia nell'Italia meridionale: si tratta di "Chele Iohannis", "Burgesius Beniveni" e "Rusticus Duccii".
Verso la fine del secondo decennio del Trecento la società dei Buonaccorsi, ormai diretta da Vanni Buonaccorsi, aveva ancora un raggio d'azione circoscritto: oltre al fondaco di Firenze, nel popolo di S. Stefano all'Abbazia, aveva recapiti o filiali soltanto a Genova, Pisa, Napoli, Barletta e Molfetta; ma la penetrazione nell'Italia meridionale continuava e, se è del 1321 il primo accordo con mercanti dell'Aquila, almeno dal 1319 i Buonaccorsi avevano esteso le loro attività nella terra pontificia di Benevento: ed è probabilmente partendo di qui che la compagnia riuscì ad aprire una breccia nel munitissimo fortilizio del trust Bardi-Peruzzi-Acciaiuoli che dominava la finanza nel Regno angioino.
Che i Buonaccorsi fossero presenti a Benevento è testimoniato da un acquisto di panni per oltre 50 libbre, con pagamento a termine attraverso i Buonaccorsi, effettuato a Firenze da due beneventani presso la compagnia di Francesco del Bene, la partita è registrata sotto la data del 12 luglio 1319, la stessa in cui a Napoli Tingo Alberti e Matteo Villani "mercatores et socii de societate Bonaccursorum de Florentia Neapoli morantes" si impegnavano, con un atto steso "in domo habitationis dicte societatis", a trasferire alla Curia romana una somma di oltre 70 once d'oro per conto del tesoriere papale di Benevento.Le operazioni in campo finanziario per l'amministrazione pontificia di Benevento proseguono negli anni successivi, ma la compagnia non è ancora in grado di assolvere direttamente a tutti i servizi: così, se le somme ad essa affidate sono sempre maggiori, le rimesse di danaro alla Curia romana in Avignone avvengono tramite gli Scali (1319), i Bardi (1321) e i Peruzzi (dicembre 1322, maggio e settembre 1323, marzo 1324). Finalmente, alla metà del 1324, i Buonaccorsi fanno la loro comparsa in Avignone, dove si trasferisce Tingo Alberti, che con Matteo Villani aveva diretto fino ad allora la sede napoletana.
Con l'apertura della filiale di Avignone i Buonaccorsi compiono il grande balzo da società dagli interessi tutto sommato locali e circoscritti a compagnia di livello internazionale, e non a caso la ricostituzione della società avvenne pochi mesi dopo l'arrivo di Tingo Alberti ad Avignone.
Il 23 sett. 1324 Vanni Buonaccorsi, suo figlio Niccolò, Rosso Aldobrandini e Giovanni Villani, in loro nome e anche come rappresentanti di Michele Buonaccorsi e di Bandino di Lapo Buonaccorsi (della medesima contrada di Vanni e Niccolò), di Aldobrandino di Banco, nipote di Rosso, e di Matteo Villani, fratello di Giovanni, strinsero società, per tre anni a datare dal 1º maggio 1325, "in arte et ministerio pannorum Francigenorum, cambii, lane, artis lane et aliorum mercimoniorum et mercantiarum". Come le consorelle e probabilmente come le stesse precedenti società costituite dai Buonaccorsi, la compagnia era tutt'altro che specializzata e forse soltanto ora acquistavano un certo rilievo le attività bancarie.
I trasferimenti ad Avignone del denaro delle decime o di altri censi per conto dei collettori, dell'amministrazione papale di Benevento, dell'abate di S. Sofia di Benevento, dell'abate di S. Lorenzo d'Aversa ecc. si infittiscono nel corso del 1324 e degli anni seguenti. Ben presto i Buonaccorsi sono anche in grado di far pervenire direttamente le somme loro affidate alle amministrazioni cui il pontefice le assegnava, soprattutto quella della Marca anconetana. Si ebbero così rimesse di denaro a Bologna e si aprirono nuove filiali a Macerata e a Perugia: i Buonaccorsi si affiancavano ormai alle grandi compagnie, di cui erano stati fino a poco prima clienti, nei servizi per la finanza pontificia.
Almeno nei primi tempi della loro attività nel Regno i Buonaccorsi non furono altrettanto introdotti presso la corte angioina; tuttavia la loro ramificata presenza nell'Italia meridionale costituì senza dubbio il presupposto della larga utilizzazione che della compagnia fece a Firenze Carlo d'Angiò al tempo della sua signoria sulla città (1326-27). Nel luglio 1327 si affidava ai Buonaccorsi l'esazione del denaro dovuto per la prestanza di 60.000 fiorini del 1327 e per ogni altra imposta; nell'ottobre dello stesso 1327 essi furono incaricati dell'esazione, in tre dei sei sestieri, della tassa disposta per la costruzione delle mura del terzo cerchio; in occasione di un mutuo volontario (la restituzione avvenne nel giugno 1328) Vanni Buonaccorsi sottoscrisse ben 600 dei 10.000 fiorini occorrenti.
Quando Vanni venne a morte, sul finire del 1331, lasciando al figlio Simone la direzione della società, i Buonaccorsi erano ormai in grado di dividersi con i Bardi, i Peruzzi e gli Acciaiuoli anche il controllo delle finanze angioine. Tassati a Napoli per 200 once d'oro in occasione del prestito forzoso del 19 apr. 1328, il 3 giugno 1332 essi ottennero di poter aprire nella capitale "cambium unum de novo... tenendum, habendum et exercendum in civitate... ubicumque ipsum exercere voluerint"; il 27 giugno dello stesso anno venivano pagati ad Avignone dai Buonaccorsi i 15.000 fiorini del censo ordinario di re Roberto, e negli anni successivi il pagamento avveniva, per eque parti, a mezzo dei Bardi, dei Peruzzi, degli Acciaiuoli e dei Buonaccorsi. Ormai anche i Buonaccorsi prestavano somme ingenti al sovrano che li ricambiava con i consueti privilegi commerciali.
La fiducia accordata loro dalle grandi amministrazioni laiche ed ecclesiastiche fa conquistare alla compagnia una clientela sempre più vasta: soprattutto nel Regno i vescovi e gli arcivescovi pagano a loro mezzo i censi dovuti alla Sede apostolica; aumentano rapidamente i depositi dei "regnicolae" e degli stranieri.
Ma se l'Italia meridionale è più che mai il vero centro degli interessi dei Buonaccorsi, il credito acquistato ad Avignone apre la strada ad una nuova scalata, questa volta a livello europeo. Il 23 luglio 1332 il nunzio apostolico in Inghilterra depositava presso un fattore dei Biliotti 8.000 fiorini: il 26 agosto la somma era pagata ad Avignone; ma i Biliotti corrispondevano soltanto 2.000 fiorini, gli altri 6.000 erano versati dai Buonaccorsi. Il 28 novembre il nunzio depositava in Inghilterra altri 4.000 fiorini, non più ai Biliotti ma ad Asserico Portinari, "mercator societatis Bonaccursorum"; 3.000 sterline da trasferire ad Avignone sono divise l'11 marzo 1333 fra i Bardi, i Peruzzi e i Buonaccorsi; nell'agosto-settembre altro deposito e altro trasferimento: il rappresentante dei Buonaccorsi è questa volta Andrea Portinari. Seguirono negli anni successivi, fino al 1340, altri trasferimenti, per una cifra complessiva di oltre 35.000 fiorini: i Buonaccorsi si sarebbero affermati in Inghilterra (dove naturalmente trafficarono anche lana) proponendo alla Camera apostolica un cambio sterline-fiorini più vantaggioso del consueto, costringendo le altre compagnie ad allinearsi.
Mentre nella penisola i Buonaccorsi raggiungevano la Valle padana operando a Milano e aprendo una filiale a Venezia, dall'Inghilterra si allargavano alla Francia e alle Fiandre, con l'importante filiale di Bruges.
Il maneggio del denaro è soltanto l'attività più appariscente, e meglio documentata, di quelle svolte dai Buonaccorsi. Essi furono anzitutto dediti al commercio: nel fondaco di Molfetta, saccheggiato nel 1316, avevano allume, bronzo e olio; nel 1320 commerciavano bestiame; intorno al '30 Rosso Aldobrandini vendeva a re Roberto un Corpus iuris per la cifra di 60 once; nel 1331-32, sempre al re, si vendettero oggetti d'oreficeria e pietre preziose; nel corso del 1335 si inviarono in Abruzzo da Barletta 25.000 salme di grano; sempre a Barletta il fondaco dei Buonaccorsi dispensava spezie; grosse importazioni di grano vennero fatte a Napoli, ecc. Ma i Buonaccorsi commerciavano più che altro in lana, in panni e in tessuti preziosi: il 7 marzo 1329 Matteo Villani spediva da Firenze a Rosso Aldobrandini in Napoli sei salme di panni fiorentini e francesi; sempre dai Buonaccorsi la corte angioina fu rifornita di panni fiorentini e fiamminghi nel 1331; nel maggio 1335 il re Roberto acquistava da loro una pezza di panno di Bruxelles per 10 once; dai Buonaccorsi furono fatte, insieme con altre minori, le forniture di drappi fiamminghi per la corte papale negli inverni 1335-36 e 1337-38; e rilevanti partite di lana s'importarono dall'Inghilterra nelle Fiandre.
All'aprirsi del quinto decennio del secolo, pur essendo assai lontani, più rispetto al volume di traffico che non allo sviluppo della rete commerciale, dalla potenza delle altre tre grandi compagnie, i Buonaccorsi avevano ormai una posizione di rilievo non solo in campo economico e finanziario, ma anche in campo politico.
Nel 1337 avevano anticipato al Comune di Firenze la cifra necessaria all'acquisto, da mercanti pisani, di 300 moggia di grano; nello stesso anno avevano partecipato a un mutuo di 12.000 fiorini al Comune: i sottoscrittori erano 33 e i Buonaccorsi prestarono 500 fiorini. Il Villani, che ne sapeva qualcosa, li include fra i "gran prestatori al Comune". Non minore era la loro influenza a livello per così dire diplomatico: quando nel 1338 Roberto d'Angiò progettava una nuova spedizione contro la Sicilia, una richiesta di aiuto fu portata a Pisa (dove la compagnia aveva interessi) da Aldobrandino di Banco e da Nerio Balducci della società dei Buonaccorsi; quando nel maggio 1342 gli Ebrei della Provenza offrirono al re due preziosi bacili d'argento, fu Matteo Villani a presentare personalmente l'omaggio.
La miglior conferma del prestigio raggiunto dalla compagnia - ormai diretta da Bandino e Bettino Buonaccorsi - viene da una "imposita" del 1341 per il porto di Talamone: la più alta quota di contribuzione toccò a tre sole ditte: i Bardi, gli Acciaiuoli e i Buonaccorsi.
Ma la grande crisi che travolse a partire dal 1342 quasi tutte le maggiori aziende fiorentine era ormai alle porte e i Buonaccorsi furono tra i primi a cadere, o meglio fra i primi a essere sottoposti alla procedura fallimentare dopo un precipitoso ritiro dagli affari avvenuto fra il maggio e il giugno 1342. Altre compagnie, come ad esempio i Peruzzi, si erano ritirate ancor prima dei Buonaccorsi, ma evidentemente esse godevano di una fiducia che questi ultimi, nonostante la rapidissima ascesa, o forse proprio per questo, non venne accordata. Nel luglio 1342 cominciarono le prime citazioni davanti al tribunale della Mercanzia e alla fine del mese i Buonaccorsi erano già stati condannati come "cessantes et fugitivi". L'elezione a signore di Gualtieri di Brienne, duca d'Atene, poté far sperare ai Buonaccorsi un aiuto per uscire dalla loro difficile posizione, ma le pressioni esercitate dagli Angioini per un rapido rimborso dei debiti lasciati dai Buonaccorsi nell'Italia meridionale costrinsero il duca d'Atene, fin dal novembre 1342, a far aprire la procedura fallimentare a carico di costoro e addirittura con norme estremamente favorevoli ai creditori stranieri. Come reazione a questi provvedimenti il governo dei grandi e dei mercanti succeduto alla cacciata del duca d'Atene sospese temporaneamente il procedimento fallimentare dei Buonaccorsi che non venne riaperto, e su nuove basi, che nell'ottobre 1341 contemporaneamente a quello dei Peruzzi. Da questo momento le trattative per il loro fallimento cominciarono a intersecarsi con quelle per tutti gli altri contemporanei fallimenti fiorentini, con particolare riguardo al problema della soddisfazione dei creditori forestieri che costrinse il governo di Firenze a ripetuti interventi per la disciplina della materia fallimentare. La provvisione che ratificò l'accordo - a livello d'un rimborso del 50% - fra i Buonaccorsi e i loro creditori tardò fino al 29 marzo 1349. Se siamo ampiamente informati delle modalità procedurali del loro fallimento, scarse e frammentarie sono invece le notizie sulla soddisfazione dei crediti e sulla stessa gravità del fallimento: i Buonaccorsi erano creditori di altre compagnie, ad esempio i Peruzzi; non sembra avessero debiti verso la Camera apostolica, anche se dovevano ingenti somme agli arcivescovi di Otranto e di Benevento; soprattutto - ed è forse questo un indice della spericolatezza della compagnia - i Buonaccorsi e i loro soci (ricorderemo che Giovanni Villani fu incarcerato nel 1346) non avevano quegli estesi possedimenti fondiari e immobiliari con i quali si erano garantite le maggiori compagnie. Nel 1350 i Buonaccorsi erano ancora assediati, a testimonianza di Clemente VI, da una "moltitudo creditorum", e di essi e dei loro soci nessuno riuscì più a recuperare posizioni di un qualche rilievo in campo mercantile.
Se la storia esterna della compagnia dei Buonaccorsi può essere ricostruita con sufficiente approssimazione, l'assoluta mancanza di fonti dirette, aziendali, e la stessa povertà delle indicazioni che si traggono dall'unico contratto di costituzione di società che ci sia rimasto, non permettono un'indagine sulla storia interna che vada al di là di qualche ipotesi sulla struttura della compagnia. Innanzitutto il peso e l'influenza del gruppo familiare che alla società diede il nome furono probabilmente molto inferiori a quelli esercitati dai Bardi, dai Peruzzi e dagli Acciaiuoli nelle rispettive compagnie. I nomi dei due fratelli Villani, Matteo e Giovanni, i nomi di Rosso Aldobrandini, di suo nipote Aldobrandino di Banco, di Tingo Alberti, ecc., ricorrono nei documenti con una frequenza anche superiore a quella dei Buonaccorsi. È quasi certo che questi ultimi avevano conferito le quote più rilevanti del capitale sociale, ma l'esperienza commerciale dei soci estranei alla famiglia sembra dominante. In realtà costoro erano, e rimasero, nel mondo economico fiorentino, degli outsiders:sebbene popolani, e forse perché di orientamento ghibellino, non erano mai arrivati al priorato, né vi pervennero per tutto il tempo in cui durò la loro compagnia; in seguito la famiglia non ebbe più alcuna occasione di emergere nella vita economica e politica della città.
Risiedevano all'inizio nel popolo di S. Stefano all'Abbazia, sestiere di porta S. Pietro e nulla si sa di preciso delle loro origini. Dopo Lapo e Betto, eponimo della società fin che visse fu Vanni che ci è attestato sempre a Firenze, con l'eccezione di un soggiorno napoletano intorno al marzo 1324, quando ci si apprestava ad aprire la filiale avignonese. A Firenze Vanni ebbe qualche incarico nel settore specifico delle sue competenze: nel 1322 fece parte degli Otto consiglieri della Mercanzia per i privilegi commerciali dei Fiorentini a Pisa e si faceva rappresentare da Matteo Villani alla seduta del 2 settembre; nel 1326 era fra i consiglieri della Mercanzia. Secondo il Renouard, Vanni sarebbe talora indicato con il titolo di "ser", col quale si designavano quasi sempre i notai; il "ser" sarebbe poi tradotto nei documenti pontifici con "magister": l'asserzione tuttavia si fonda sulla supposta identificazione di Simone di Vanni con il "Simon magistri Fagni" che era fattore dei Buonaccorsi ad Avignone (Renouard, Les rélations, p. 510 n.): in realtà conosciamo diversi figli e nipoti del "magister Fagnus" attivi nelle compagnie fiorentine.
Contrariamente a quanto si è ritenuto, Vanni era ancora in vita nel 1331: il 9 febbraio otteneva da Giovanni XXII indulgenza plenaria in articulo mortis; il27 ottobre il papa gli concedeva facoltà di erigere una cappella.
Quasi nessuna notizia abbiamo su Simone di Vanni: nel febbraio del 1326 era a Firenze fra i consiglieri della Mercanzia per l'arte della lana, probabilmente la stessa cui era iscritto suo padre. Nel 1329-30 diresse la filiale avignonese della compagnia; rientrato in patria assunse la direzione della compagnia alla morte del padre e probabilmente non si mosse più da Firenze; incerta è la data della morte, avvenuta comunque prima del fallimento perché i titolari della compagnia già nel 1341 erano Bettino e Bandino Buonaccorsi.
L'altro figlio di Vanni, Niccolò, nel 1322 era a Napoli con Tingo Alberti; in seguito visse a lungo a Firenze, dove partecipò alla costituzione della società nel 1324; nel 1332-33 andò a dirigere la filiale napoletana (nell'agosto 1332 era a Benevento). Lo ritroviamo nel 1336 a Venezia e nel 1339 ad Avignone; fu anche fattore della Camera apostolica e come il padre ottenne da Giovanni XXII indulgenza plenaria in articulo mortis.
Bettino, figlio di un Michele che la tradizione vuole ftatello di Vanni, era uno dei soci della compagnia costituita nel 1324. È probabile che suo padre fosse l'omonimo fattore dei Bardi inviato a Rodi - via Genova - nel 1314 -, poi rappresentante della società con l'elevatissimo stipendio di 200 libbre annue proprio in quella Barletta (vi morì nel 1317) che fu una delle prime piazze in cui si siano affermati i Buonaccorsi e dove Bettino rappresentava la compagnia ancora nel 1325-28. Soltanto molto più tardi, forse quando la società era ormai intitolata al suo nome, Bettino divenne, nel 1341-42, direttore della filiale avignonese dei Buonaccorsi.
Bandino di Lapo, secondo la tradizione primo cugino di Vanni, nel 1324, pur essendo fra i soci fondatori, era assente da Firenze; vi era ancora tuttavia all'inizio dello stesso anno. Era a Perugia con Aldobrandino di Banco nel 1328; fu ad Avignone fra il 1330 e il 1333 e a Bruges fra il 1338 e il 1340. Nel 1341 la compagnia risulta intitolata anche al suo nome.
Attivo nell'Italia meridionale intorno al 1328 fu Torrigiano di Lapo, che dieci anni dopo era a capo della filiale veneziana.
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