TRENTIN, Bruno
TRENTIN, Bruno. – Nacque il 9 dicembre 1926 a Pavie, in Occitania, dove il padre Silvio (v. la voce in questo Dizionario), professore di diritto amministrativo presso l’Università di Padova e già deputato al Parlamento, si era rifugiato pochi mesi prima con la moglie Giuseppina Nardari e i figli Giorgio e Franca per sfuggire alla dittatura fascista.
La sua istruzione fu francese, tanto da non usare l’italiano neppure in casa con i genitori e i fratelli, ciò che condizionò la sua infanzia e la sua adolescenza, divise fra l’adesione all’ambiente locale e il rapporto talvolta contrastato con il padre. Trasferitasi la famiglia a Tolosa, dove gestiva un negozio di libri, Bruno rivelò un carattere incline alla ribellione, che lo indusse a comportamenti turbolenti. Dopo la sconfitta della Francia nel 1940, con il regime di Vichy, i suoi impulsi di rivolta – dopo la lettura di Pëtr Kropotkin si definiva anarchico – presero una coloritura politica che gli causò un arresto (compì i sedici anni in carcere). L’intervento della madre valse a restituirgli la libertà e, con l’aiuto degli insegnanti, riuscì a ultimare gli studi.
Nel settembre del 1943 il padre, rappresentante di primo piano di Giustizia e libertà, decise di rientrare in Italia con la famiglia, lasciando in Francia solo la figlia Franca, che si sarebbe sposata di lì a poco. Bruno gli fu immediatamente a fianco nell’attività clandestina in cui entrambi furono subito coinvolti al momento del loro rientro in Veneto, così come nella costituzione del Partito d’azione, in cui ambedue avrebbero militato. Le condizioni di salute di Silvio, sofferente di cuore, resero necessario il suo ricovero in una clinica, dove morì nel marzo del 1944, non prima di aver affidato il figlio più giovane al compagno di partito Leo Valiani. La morte del padre, con il funerale avvenuto nell’anonimato per sfuggire all’attenzione dei nazifascisti, fu un duro colpo perché in quei mesi aveva sviluppato un rapporto di vicinanza e dialogo con il genitore mai intrattenuto in precedenza. Nel periodo seguente il suo impegno nella Resistenza si intensificò ancora di più con la partecipazione a numerose azioni armate. In seguito Valiani lo chiamò a Milano, dove fu coinvolto in numerose operazioni ad alto rischio come gappista, nel quadro della guerriglia urbana. Queste operazioni, in cui si distinse come comandante della brigata Rosselli, gli valsero la croce al valor militare.
Terminata la guerra sentì la necessità di proseguire la propria formazione e, seguendo le orme del padre, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Padova, anche se avrebbe preferito studiare economia. Militando ancora nelle file degli azionisti intraprese alcuni viaggi all’estero, fra cui uno negli Stati Uniti, trattenendosi per un mese e mezzo all’Università di Harvard grazie all’appoggio di Gaetano Salvemini. Si laureò nel 1949 con una tesi su La funzione del giudizio di equità nella crisi giuridica contemporanea (con particolare riferimento all’esperienza giuridica americana), discussa con Enrico Opocher come relatore.
Intanto, era rimasto fino alla fine nel Partito d’azione, confrontandosi con alcuni dei suoi dirigenti maggiori, come Valiani, Emilio Lussu e Vittorio Foa. Quest’ultimo gli fu compagno per vent’anni nella CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro), nel cui Ufficio studi Trentin iniziò a lavorare nel 1949, prima dell’iscrizione al PCI (Partito Comunista Italiano), avvenuta nel 1950. L’adesione al partito di Togliatti non equivalse a un’identificazione piena con l’ideologia comunista, giacché coltivò sempre alcuni elementi di autonomia culturale.
Nell’Ufficio studi della CGIL non ebbe comunque vita facile, giacché i suoi programmi di studio e di ricerca trovarono un ostacolo nella scarsa intesa con il socialista Ruggero Amaduzzi, che ne era il direttore. Gli interessi di Trentin si stavano già allora concentrando sui caratteri portanti del capitalismo contemporaneo, di cui gli importava soprattutto cogliere la dinamica innovativa. Apparteneva insomma alla frangia minoritaria della sinistra italiana che pensava che il neocapitalismo, come avrebbe scritto Foa qualche anno dopo, fosse «una realtà» in divenire (La cultura della CGIL. Scritti e interventi 1950-1970, Torino 1980, pp. 41-44), cui non si applicavano le categorie stagnazioniste ancora ben radicate nei ranghi dell’intelligencija comunista.
Ciò lo condusse a una naturale sintonia con gli impulsi autonomistici che incominciavano a germogliare all’interno della CGIL all’indomani della grave sconfitta subita nel marzo del 1955 dalla FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici) alle elezioni per la commissione interna della FIAT. Trentin si schierò sin dagli inizi con coloro che all’interno della Confederazione ritenevano che il rovescio dei metalmeccanici della CGIL non fosse da imputare in primo luogo alla repressione dei militanti operata da Vittorio Valletta, ma dovesse essere fatto risalire al complesso delle trasformazioni della fabbrica che si stavano compiendo contestualmente al lancio di nuovi prodotti come la Seicento.
Tali orientamenti avevano un inevitabile riflesso politico, che toccava anche gli equilibri di partito. Trentin fu subito dalla parte di Giuseppe Di Vittorio e dei dirigenti CGIL che assunsero un atteggiamento critico dinanzi all’invasione dell’Ungheria da parte dell’URSS nell’autunno del 1956. Dunque dovette anche lui sottostare all’aspra intemerata che Giorgio Amendola e Mario Alicata riserbarono ai responsabili di un comportamento giudicato trasgressivo e fu costretto perciò, al pari degli altri, a ripiegare sulla linea ufficiale. Non seguì l’amico Antonio Giolitti quando questi l’anno seguente, al congresso del PCI, manifestò le proprie critiche alla condotta del vertice del partito, sancendo il suo distacco.
Diversamente da Giolitti, la sua velata dissidenza nei confronti dell’ideologia ufficiale comunista prese una piega di sinistra, piuttosto che volgere in senso riformista come avrebbe fatto il parlamentare piemontese. Trentin proseguì nella sua linea di ricerca e di contrasto al neocapitalismo, muovendo nella direzione di una sottolineatura del ruolo diretto del conflitto di classe, visto come la leva più importante per trasformare sia la fabbrica sia la società. Nel frattempo cresceva il suo prestigio nei ranghi del PCI, in cui aumentava la considerazione di cui godeva il giovane intellettuale. Entrò a far parte degli organismi direttivi della federazione comunista di Roma, del Consiglio comunale della città (1960-73) e poi del comitato centrale del partito. Nel 1958 divenne vicesegretario della CGIL.
La sua fama si affermò definitivamente quando svolse una delle principali relazioni introduttive al convegno dell’Istituto Gramsci dedicato, agli inizi del 1962, alle Tendenze del capitalismo italiano, che si contrapponeva alle argomentazioni sostenute da Giorgio Amendola e alla logica politica della strategia delle alleanze. In quello stesso anno venne nominato segretario generale della più importante categoria industriale della CGIL, la FIOM, mentre nel 1963 fu eletto alla Camera dei deputati, che lasciò alla fine della legislatura nel 1968.
Divenne il dirigente destinato a guidare i metalmeccanici nella stagione in cui il sindacato fu all’apice del suo potere e della sua influenza sociale. Prese in carico la FIOM non appena finì la lunga fase di pace sociale, con gli scioperi dell’estate del 1962 e il loro sviluppo contrattuale nel 1963. Ma tutto sommato si trattò di un momento di lacerazione che il mondo delle imprese si convinse di aver ricomposto già nel 1964-65, durante quel passaggio, che fu rubricato come «congiuntura» e mise fine al miracolo economico, con una stretta creditizia che colpì investimenti e occupazione, riducendo gli organici delle fabbriche. Era un grave errore di prospettiva: in realtà, la ripresa della produzione e dei consumi addensava nei luoghi di lavoro una massa operaia molto concentrata, omogenea per condizioni di lavoro e livelli di reddito, per giunta scontenta delle condizioni di residenza e di lavoro caratteristiche delle grandi città industriali.
Fu durante l’‘autunno caldo’ del 1969 che giocò per intero la sua partita: sulla base di un’interpretazione in chiave gramsciana del movimento dei delegati e della sua importanza, decise che essi – e i consigli di fabbrica che li raccoglievano – sarebbero dovuti diventare la rappresentanza di base del sindacato nei luoghi di lavoro, sostituendo non solo i vecchi commissari interni (che non rappresentavano il sindacato, ma i lavoratori, pur essendo eletti sulle liste presentate dalle varie organizzazioni di categoria), ma le stesse sezioni sindacali. Era una scelta, condivisa anche dai gruppi dirigenti di FIM-CISL in primo luogo, e UILM-UIL, formati da giovani sindacalisti dagli orientamenti militanti e aggressivi, che non venne accolta senza contrasti, riluttanze ed esitazioni sia dai vecchi dirigenti della CGIL (come l’ex segretario generale Agostino Novella) sia dallo stesso PCI. Tuttavia, convinto delle ragioni dell’unità sindacale, Trentin non mutò il suo orientamento.
Lasciati i metalmeccanici nel 1977, quando il loro potere era ancora al massimo, diventato membro della segreteria della CGIL, non ebbe un ruolo particolare nelle vicende del 1980, che videro la dura sconfitta sindacale alla FIAT. Tutti pronosticavano per lui la successione a Luciano Lama alla segreteria generale della CGIL. La scelta cadde invece su Antonio Pizzinato, un ex operaio lombardo, il quale non si ritrovò a proprio agio alla guida di una confederazione che, dopo Lama, catturata in un difficile scenario economico e divenuta teatro dello scontro fra il PCI di Enrico Berlinguer e il PSI di Bettino Craxi, era alla ricerca di una nuova prospettiva. Così, quando Pizzinato finì con il dimettersi nel 1988, venne necessariamente la volta di Trentin.
Quello che doveva essere il coronamento di una carriera si rivelò invece il periodo più difficoltoso e personalmente doloroso per Trentin. La pubblicazione postuma dei suoi Diari (Roma 2017) ha posto a nudo una dimensione psichica di sofferenza impressionante, un carico devastante per un uomo che non aveva cercato la responsabilità che gli era stata data. Nelle sue note personali, descriveva un sindacato che stava perdendo il senso di se stesso, smarrendosi nelle lotte di fazione interne e in comportamenti opportunistici, mentre la politica e la vita pubblica italiane esibivano uno scadimento senza rimedio. Nei suoi appunti privati non risparmiava alcuno, nemmeno se stesso, con un tormento psicologico che trovava rari momenti di conforto, soprattutto nella lettura e nella passione per la montagna, per le scalate che lo distoglievano dalla sfera di una quotidianità lavorativa avvertita come sempre più estranea ai suoi bisogni interiori. Nacque allora l’esigenza di sviluppare una dimensione riflessiva di ampio respiro. Così i suoi pensieri vennero a catalizzarsi attorno all’asse dei rapporti fra il lavoro e la ricerca di una condizione di libertà, perseguita attraverso un impiego sempre più cosciente delle facoltà e delle competenze dei lavoratori. Erano i temi che presero forma compiuta con l’elaborazione del libro a cui teneva di più, tra quelli che scrisse, La città del lavoro, pubblicato nel 1997, quando non aveva più responsabilità all’interno della CGIL.
Gli ultimi anni della sua segreteria furono particolarmente complicati. Anzitutto perché, per esclusivi motivi di responsabilità, come sempre disse, nell’estate del 1992 firmò obtorto collo un accordo per il raffreddamento della dinamica salariale che aboliva la ‘scala mobile’. Era il momento di una drammatica crisi finanziaria e a sollecitarlo a quell’accordo fu il presidente del Consiglio Giuliano Amato. Trentin disse sempre che la firma gli era stata estorta, tanto che diede immediatamente le dimissioni dalla CGIL, peraltro respinte.
Di tutt’altro segno il protocollo sottoscritto con il governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi nel luglio del 1993, che fissava i termini di politica dei redditi, trasferendo la contrattazione sindacale al livello centrale e riducendo assai i margini di quella decentrata. Nella sostanza, l’accordo voluto da Ciampi non era così differente da quello di Amato, ma fu diverso il metodo che valorizzava il principio della concertazione, cui Trentin diede il suo pieno assenso.
Lasciò la CGIL nel 1994. Il suo partito dopo la fine del PCI, Democratici di sinistra, lo elesse al Parlamento europeo di Strasburgo nel 1999. Memore del federalismo teorizzato dal padre, si appassionò alle questioni europee, stringendo legami d’amicizia con un socialista atipico come Jacques Delors, mentre continuava a ragionare sul lavoro e sul nuovo processo di emancipazione che avrebbe voluto veder avviato. Ormai fuori dai confini del marxismo, su cui aveva riflettuto tutta la vita, gli stavano sempre più a cuore le ragioni delle libertà.
Trentin era stato sposato, in prime nozze, con Luciana Rampazzo, con la quale aveva avuto Antonella (1954) e Giorgio (1963). In seconde nozze aveva sposato la giornalista francese Marcelle Padovani.
Nell’estate del 2006 ebbe un incidente di bicicletta mentre si trovava in vacanza nelle amate Dolomiti. Gliene derivò una lunga e dolorosa infermità che lo condusse alla morte, avvenuta a Roma il 23 agosto 2007.
Le sue spoglie sono sepolte nel mausoleo del PCI presso il cimitero romano del Verano.
Opere. Tra le sue numerose pubblicazioni si segnalano i volumi: Da sfruttati a produttori. Lotte operaie e sviluppo capitalistico dal miracolo economico alla crisi, Bari 1977; Il sindacato dei consigli, intervista di B. Ugolini, Roma 1980; Lavoro e libertà nell’Italia che cambia, Roma 1994; La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo, Milano 1997; La libertà viene prima. La libertà come posta in gioco nel conflitto sociale, Roma 2005. Fondamentali per il periodo in cui fu segretario generale della CGIL i suoi Diari 1988-1994. Gli anni della segreteria generale della CGIL, a cura di I. Ariemma, Roma 2017.
Fonti e Bibl.: Materiali per un suo profilo biografico si trovano in I. Ariemma, La sinistra di B. T. Elementi per una biografia, Roma 2014. I più significativi contributi storici su di lui sono in B. T. e la sinistra italiana e francese, a cura di S. Cruciani, Roma 2012. Dedicati invece ad analisi e spunti relativi alle questioni da lui sollevate in La città del lavoro sono i numerosi saggi raccolti in Il lavoro dopo il Novecento. Da produttori ad attori sociali. La città del lavoro di B. T. per un’altra sinistra, a cura di A. Gramolati - G. Mari, Firenze 2016.