DORIA, Brancaleone (Branca)
Nacque a Genova verso il 1235 da Nicolò e da Preziosa, figlia naturale di Mariano [II], giudice di Torres, e sorella di Adelasia, moglie di Ubaldo Visconti, giudice di Gallura.
In una lettera scritta nel 1310 o nel 1311 ed inviata a re Giacomo II, per indurlo all'intervento in Sardegna, il D. dichiarava di aver 74 anni. Nel 1253, inoltre, doveva aver già compiuto l'età legalmente riconosciuta necessaria per agire, se e lui il personaggio omonimo che appare come teste all'atto in cui Percivalle Doria concesse in enfiteusi terre nella "domoculta" genovese (4 dicembre). Suoi fratelli furono Mariano (il primogenito premorto a Nicolò), Rizzardo, Bonifacio, Babilano e Loterengo.
Ancor giovane, verso il 1253 (come suppone il Ferretto [1908]), egli sposò Caterina (ricordata in vari atti notarili, l'ultimo dei quali risalente al 1316, ma mai citata col cognome paterno), presunta figlia di Michele Zanche; il matrimonio sarebbe avvenuto durante un soggiorno di quest'ultimo a Genova. Se il "Michalis de Sasari" ricordato in un documento del 1262 è lo Zanche, come suppose il Falco, costui sposò Simona Doria, da cui potrebbe aver avuto Caterina (sulle leggende fiorite intorno alla moglie dello Zanche si veda A. Boscolo, 1952).
Il primo documento che ricordi certamente il D. risale al 1259, quando egli assistette, insieme con altri membri della famiglia, alla nomina di due procuratori (15 ottobre); nel 1266 vendette due loca nelle Compere salis (18 maggio); nel 1272, insieme col fratello Mariano, ottenne il giuspatronato sulla chiesa che l'abate di S. Fruttuoso di Capodimonte ebbe il permesso dal vescovo di Bosa di costruire a Monteleone Rocca Doria in Sardegna. Nell'isola il padre Nicolò, unendo all'eredità pervenutagli dalla madre Iurgia (o Giorgia), figlia di Comita [II], giudice di Torres, i beni dotali portatigli dalla moglie Preziosa, aveva costituito un grande patrimonio territoriale, comprendente la città di Alghero con la curatoria "de Nulauro", la Nurra ed altre località del Logudoro. Tale signoria era, però, pericolosamente insidiata da varie forze, in primo luogo dalla potenza pisana.
In questi anni (senza che sia possibile precisare meglio la data) è collocato l'assassinio di Michele Zanche, la cui responsabilità è attribuita al D. nel celebre passo dantesco (Inferno, canto XXXIII, vv. 134-147). Lo Zanche, un maggiorente sassarese di origini nobili, ma dedito al commercio, era legato da stretti rapporti d'affari con Genova (una sua figlia, Richelda, aveva sposato Giacomo Spinola) ed in modo particolare coi Doria (nel 1234, esiliato dal giudice di Torres, era stato accolto in città da Manuele, nonno del D., e dallo stesso Nicolò); invitato a banchetto dal genero, egli venne fatto uccidere da questo (secondo il racconto offerto dai commentatori danteschi).
I motivi di contrasto tra i due potrebbero essere stati molteplici: i Doria avevano vaste proprietà vicino a Sassari, dove risiedeva lo Zanche e dove un maggiorente locale, Gomita Grifo, sposò una figlia del D.; si è anche ipotizzato un avvicinamento dello Zanche a Pisa, provocando la reazione doriana; inoltre, il notabile sassarese poteva costituire un ostacolo alla penetrazione della famiglia nel Logudoro. Come si è già detto, la data dell'episodio non può essere fissata con precisione: forse tra il 1262 (se si considera il documento già citato, in cui lo Zanche appare ancora vivo e ammesso che sia lui il personaggio ricordato nell'atto) e il 1282 (quando il dominio doriano, consolidato con l'acquisto di beni dai Malaspina, appare ormai incontrastato). L'Alighieri dovette conoscere l'episodio o attraverso voci che circolavano a Firenze (dove il D. si recò nel 1284) o presso i Malaspina (una loro rappresentante, Orietta, moglie di Corrado, lasciò in eredità beni in Sardegna a Giacomina Spinola, nipote dello Zanche). Ancora più problematica è l'identificazione del "prossimano" che, secondo i versi danteschi ? avrebbe collaborato all'assassinio: forse Barisone, cugino del D., morto nel 1282, come suppone il Ferretto (Branca D., p. XXXII). Occorre, tuttavia, notare che tutto l'episodio (ricordato per la prima volta dall'Alighieri) è talmente oscuro da lasciare spazio all'ipotesi che si tratti di una invenzione nata in ambienti ostili al D., che di nemici personali dovette averne molti a Genova e in altre città.
Nel 1275 il D. volle il matrimonio del figlio primogenito Bernabò con Eleonora, figlia di Federico Fieschi, fratello del cardinale Ottobono, capo dei guelfi genovesi fuorusciti. Le nozze, che avvenivano in un momento di scontri violenti tra il governo genovese (guidato da Oberto Doria) e Carlo d'Angiò, segnalano il prevalere di politiche personali, all'interno della famiglia Doria, al potere in città. Morto l'8 genn. 1276 Nicolò, gli eredi, guidati dal D. e affiancati da Orietta, vedova di Mariano, tutrice dei figli Saladino e Nicolò, procedettero alla divisione dei beni paterni, almeno per ciò che riguardava i possessi in città e nelle Riviere (3 maggio): al D. toccarono il palazzo di rappresentanza della famiglia, situato nella piazza di S. Matteo, la metà del pedaggio riscosso sui passanti per il borgo, una quota del pedaggio di Gavi, poderi e case a Santa Margherita Ligure. In questi anni egli risiedette a Genova per curare i suoi affari, che rivelano in lui non solo un abile mercante, come lo erano i Doria suoi parenti, ma anche un attento percettore di rendite immobiliari; del resto, in lui è possibile già cogliere la transizione dal ruolo di "mercante cittadino" a quello di "signore montano", destinato a caratterizzare molti membri della famiglia nel secoli successivi.
Del 1278 è il primo documento che lo segnala in Sardegna, come risulta da una lettera a lui inviata dal generale dell'Ordine dei camaldolesi; forse si recò nell'isola per aiutare Barisone, in lotta col Comune di Sassari, che gli aveva tolto il castello di Mondragone. Nel 1281 egli era nuovamente in Sardegna, intento a tutelare i suoi possessi: il 24 luglio, nel porto di Castelleone, insieme coi nipoti Saladino e Nicolò, concesse all'abate di S. Fruttuoso di Capodimonte e alla chiesa di S. Matteo alcune esenzioni fiscali sulle merci imbarcate da questi enti ecclesiastici nel porto sardo. Ritornato a Genova, il 14 febbr. 1282 comperò da Corrado Malaspina Casteldoria, Castelgenovese e la curatoria dell'Anglona nel Logudoro, dove lo "Stato" del D. divenne l'entità territoriale più consistente. Nell'isola egli fece ritorno l'anno dopo, in un momento di gravi difficoltà, perché Alghero, centro della signoria doriana, era assediata dalle truppe pisane alleatesi col giudice d'Arborea. La città si arrese, per cui molti genovesi, forse anche il D., furono costretti ad abbandonarla, avendo salva la vita. Nel 1284, secondo l'elenco dei Doria che parteciparono alla battaglia della Meloria (costruito posteriormente e in gran parte inattendibile), egli fu presente allo scontro navale (6 agosto); si recò, poi, a Firenze, dove, per tutelare gli interessi familiari, assistette alla firma dell'accordo tra Genova e la città toscana in funzione antipisana (13 ott. 1284).
Ritornato a Genova, continuò ad occuparsi dei suoi affari ed affidò al figlio Bernabò il compito di amministrare i beni sardi, nominandolo procuratore, per firmare una tregua con Mariano [II] di Bas, giudice di Arborea (17 maggio 1285). Nel 1287 prese a nolo dal fratello Babilano la nave "S. Niccolò", fornita di 35 marinai e numerosi balestrieri, per recarsi a Bonifacio e poi in Sardegna, a Castelgenovese ed a Sassari (17 settembre). La spedizione indica le difficoltà sempre vive per il D. nel difendere la sua signoria davanti alla pressione del Comune di Sassari, di Mariano d'Arborea e di Pisa. Queste incertezze dovettero spingere i vari rami doriani a giungere ad un accordo col Comune genovese, incaricato di tutelarne gli interessi nelle trattative di pace con la sconfitta Pisa.
Il 20 dic. 1287, insieme coi nipoti Saladino e Nicolò, in cambio del riconoscimento da parte di Genova della esistenza di uno Stato doriano in Sardegna (la "terra nobiliuni de Auria"), egli concesse libertà di commercio ai mercanti genovesi, cui venne anche permesso di nominare propri consoli in materia giudiziaria, esclusi i delitti capitali; gli stessi accordi vennero sottoscritti nei giorni successivi dagli altri membri della famiglia, che vantavano proprietà nell'isola. Il 3 apr. 1288 il Comune pisano si impegnò a risarcire il D. ed altri mercanti genovesi dei danni patiti ad Alghero.
Nello stesso anno egli acquistò da Rainerio dei signori di Quiliano vari appezzamenti di terra posti nella castellania ed un quarto del castrum; i tempi, però, non erano ancora maturi per la creazione di una signoria montana, perché il 4 marzo egli fu costretto a rivendere tali beni al Comune genovese, ricavandone un cospicuo guadagno. Negli anni seguenti egli appare impegnato nell'investire i suoi capitali nell'acquisto di proprietà a Sassello, destinata a diventare il centro del suo Stato montano.
Si unì, poi, ai Malaspina, a Sassari ed al giudice di Gallura (forse nel 1295), per attaccare Mariano [II] di Arborea, alleato di Pisa; la spedizione ebbe, però, esito negativo. Nel 1299, attraverso un suo procuratore, protestò davanti al vicario genovese in Corsica, residente a Bonifacio, per la cattura di alcuni suoi sudditi (26 giugno). Nel frattempo, la situazione sarda era stata rimessa in movimento dalla decisione papale di investire dell'isola Giacomo II d'Aragona (5 apr. 1297). Inoltre, a Genova la pluriennale alleanza tra i Doria e gli Spinola, che aveva garantito un lungo periodo di tranquillità interna, fu incrinata da rivalità, che stavano spaccando le stesse due famiglie detentrici del potere; al ramo doriano, di cui era capo Oberto, si oppose proprio il D. con il figlio Bernabò. La nuova situazione, che si era creata per la Sardegna, spinse il D. a premere perché fossero legittimati i suoi possessi nell'isola.
Infatti, sua madre Preziosa, morta nel frattempo, era figlia naturale del giudice di Torres, il che avrebbe potuto creare serie difficoltà al D.; approfittando dell'atteggiamento ostile di Bonifacio VIII alla ghibellina Genova, egli ottenne dal papa una dichiarazione in cui si confermava che il defunto giudice Mariano aveva provveduto a legittimare, con diritto di successione, la figlia, nata "ex incestuoso consorcio" (18 dic. 1299). L'alleanza col papa fu, però, di breve durata: l'anno dopo, accusato di aver inviato una flotta in Sicilia per aiutare Federico III, il D. fu scomunicato con la sua famiglia.
In seguito, pur continuando a occuparsi del suo Stato sardo (il 21 dic. 1303 era a Castelgenovese, dove presentò al vescovo di Bosa il nuovo priore della chiesa di Castelsardo), egli si impegnò attivamente per allargare i suoi domini rivieraschi. Il 20 luglio 1303 Auria, figlia di Rainerio dei signori di Lerma, acconsentì alla vendita fatta dal padre al D. della sua quota sul castello; altri consignori del luogo si accordarono con lui per cedergli le proprie quote, pagate 2.000 lire di genovini; occupato il castello, che si aggiunse all'altro centro montano controllato dal D., Sassello (passato a lui dagli Aleramici), il D. aiutò il figlio Bernabò a formarsi una sua signoria a Molare (30 dic. 1303). L'anno seguente Tommaso Malaspina si impegnò a dare una sua figlia, Isabella, in sposa ad uno dei figli di Bernabò, vendendogli metà di Molare (21 marzo). Tuttavia, il D. preferì continuare a risiedere a Genova piuttosto che nei suoi castelli montani. Nel 1305, morto nel frattempo Tommaso Malaspina, egli provvide ad annullare la promessa di nozze fatta l'anno prima e stabilì il matrimonio tra Brancaleone, figlio emancipato di Bernabò, ed Isotta, sorella di Isabella e di Isnardo Malaspina; in cambio della dote, il D. e Bernabò cedettero alla coppia le loro quote sul castello di Molare (17 dicembre).
La potenza economica e politica da lui raggiunta dovette far si che a Bernabò si alleasse Opizzino Spinola, deciso ad impadronirsi del potere in città. Costui approfittò dei disordini scoppiati tra la popolazione per farsi eleggere, insieme con Bernabò, capitano del Comune (7 genn. 1306); Bernabò, di cui si è spesso sottolineato il ruolo subalterno rispetto allo Spinola, dovette continuare ad ubbidire al padre, vero padrone della città insieme con Opizzino. Nello stesso anno, nel quadro dell'intensa attività diplomatica tessuta dalla corte aragonese, a Genova fece tappa Vanni Gattarelli (un guelfo pisano messosi al servizio di re Giacomo) con l'incarico di sondare l'atteggiamento dei due Doria. Benché fosse intenzione dell'ambasciatore di procedere con cautela (si conoscevano le simpatie dello Spinola per gli Angiò), il D. e suo - figlio vollero dare carattere pubblico alla trattativa e si impegnarono ad appoggiare il re d'Aragona nella conquista della Sardegna, in cambio del riconoscimento dei loro possessi (che erano disposti ad infeudare alla Corona) e del castello di Monteacuto; le trattative, in funzione antipisana, furono incoraggiate dal re (lettera del 10 genn. 1307).
Questa alleanza si raffreddò per la decisa opposizione aragonese al paventato progetto di matrimonio tra un figlio di Bernabò e Giovanna, la giovane e sfortunata erede del Giudicato di Gallura. Tale proposito, se attuato, avrebbe posto le basi per una potente signoria nel Logudoro ed in Gallura controllata dai Doria e tale da opporsi ad una eventuale conquista aragonese; da qui la netta opposizione di Giacomo, che si adoperò per far fallire le trattative. A queste difficoltà si aggiunse per il D. la scelta di campo operata da Opizzino Spinola a favore di Carlo II d'Angiò, con cui fu firmato un accordo, mentre Bernabò era assente dalla città (6 nov. 1307). Per controbilanciare il peso che lo Spinola stava acquistando, il D. si decise a riprendere i contatti con Giacomo Il. Nel 1308 giunse a Genova l'ammiraglio aragonese Bernat de Sarriá, per incontrarsi coi due Doria. Il loro atteggiamento (secondo un informatore del re, Cristiano Spinola) era ambiguo: fingendo fedeltà a Giacomo, essi miravano a perdere tempo per mantenere i loro possessi sardi. Tuttavia, la situazione politica sia in città sia nell'isola era tale da spingere i due ad un accordo col re; se, infatti, le trattative tra il Sarriá e il governo genovese non ebbero successo per la freddezza dimostrata dallo Spinola, si giunse ben presto alla firma di un accordo coi due Doria. L'11 giugno 1308 essi si impegnarono ad aiutare la Corona aragonese nella conquista della Sardegna con trecento cavalieri, a loro spese nelle operazioni militari in Logudoro; si dichiararono, però, indisponibili per uúa eventuale conquista di Sassari, finché la città fosse rimasta in mano genovese; in cambio, chiesero la conferma dei loro possessi, sottomettendoli alla Corona aragonese come feudi di diritto catalano, e la cessione dei castelli di Monteacuto e Goceano. Tale accordo fu ribadito in un colloquio tra i Doria ed un'altra ambasceria aragonese, giunta a Genova alla fine di agosto, con l'incarico di rinsaldare l'alleanza, offrendo appoggio al progetto matrimoniale con Giovanna (ormai privata di ogni effettivo controllo in Gallura dal Comune pisano). Il 21 settembre Giacomo II confermò al procuratore dei Doria, Benedetto da Lerici, gli accordi stipulati coi Sarriá; il 16 ottobre il testo fu ratificato definitivamente anche dai Doria. Esso, tuttavia, perse la sua efficacia per la sfavorevole evoluzione degli avvenimenti genovesi.
Infatti, tra i due capitani del Comune, Bernabò Doria ed Opizzino Spinola, la rottura divenne insanabile. Nel novembre Bernabò fu deposto e catturato; mentre lo Spinola divenne padrone della città, il D. riuscì a fuggire nel castello di Lerici, di cui si era impadronito. Qui venne assediato dalle truppe fedeli allo Spinola. Una ambasceria, affidata a Lanfranco Spinola, per promettere al D. l'impunità in cambio della consegna di Lerici al governo genovese, fallì o non fu effettuata; fuggito anche Bernabò nei suoi possessi montani, i due Doria ripresero la lotta.
Il 28 nov. 1309, tramite il figlio, il D. acquistò da Manfredo di Saluzzo un quarto dei castelli di Murazzano e Farigliano nella diocesi di Alba. Sconfitto lo Spinola il 10 giugno 1310, il D. poté far ritorno in città, dove divenne (secondo il Villani) il vero arbitro, almeno di fatto della situazione politica. Da Genova (15 luglio) scrisse di nuovo al re d'Aragona per sollecitarlo ad intervenire in Sardegna. Quando Enrico VII entrò a Genova il 21 ott. 1311, vi fu accolto trionfalmente dai Doria, fedeli seguaci dell'Impero. Durante il suo soggiorno in città, è probabile che vi siano stati colloqui tra Enrico ed il D., aventi per oggetto la Sardegna.
Negli anni seguenti il D. continuò a risiedere a Genova, nonostante il cambiamento di regime avvenuto nel 1313 in seguito alla conclusione del governo del vicario imperiale Uguccione Della Faggiuola; dal suo palazzo posto in piazza S. Matteo egli diresse gli affari della sua signoria, giunta a notevoli proporzioni: ai territori sardi si univano, infatti, numerosi castelli nell'entroterra della Riviera di Ponente (Sassello, Lerma, Quiliano, Tagliolo, Molare, Mioglia) ed in quella di Levante (Lerici e Pertusola, presso La Spezia). Inoltre, egli continuò ad allargare i suoì possedimenti immobiliari in città, a curare i trafficì commerciali e a mettere a frutto i suoi poderi (il 2 apr. 1315 concesse ad un colono nella località sarda di Terranova una superficie di terreno, che potesse essere lavorata da tre paia di buoi, secondo le consuetudini dell'isola).
Nel 1315 ebbe nuovi colloqui con emissari aragonesi, uno dei quali ricevette da lui un prestito in fiorini d'oro; l'anno seguente, dalla sua villa di Cornigliano, si oppose al tentativo degli Spinola di assalire Genova dalla Valpolcevera. Il 27 genn. 1317 concesse a Manfredo Del Carretto procura perché vendesse a Manfredo di Saluzzo le quote sui castelli di Murazzano e Farigliano comprate in precedenza. Nel settembre dello stesso anno, ritornati al potere in città i guelfi, il D. fu costretto alla fuga da Genova, dove non fece più ritorno. Nel gennaio dell'anno seguente era a Lerici per cercare di allearsi con Pisa, portando aiuto ai ghibellini esuli, che avevano occupato Savona. Questa alleanza, tuttavia, non si concretizzò per le divergenze di interessi che dovevano esistere tra le due parti sulla Sardegna. I ghibellini fuorusciti scelsero a loro capo Stefano Visconti, che attaccò Genova, ma fu costretto ad arrestarsì nel borgo di Pré; qui, egli nominò il D., assente, suo procuratore per recuperare l'importante centro strategico di Bonifacio in Corsica, finanziandone la campagna militare (17 ott. 1320). Il D., benché assai vecchio, si gettò ancora una volta nella lotta; l'anno seguente, riuscì ad occupare il castello con la tolleranza dei suoi abitanti, che vi videro l'occasione per ottenere sostanziosi vantaggi. Infatti, l'11 febbr. 1321 il D. concesse al borgo nuovi statuti. Egli approfittò della situazione per oc cuparsi dei suoi possessi sardi, da cui doveva mancare da molti anni. Passato a Castelsardo, si adoperò per placare un certo malcontento che era stato alimentato, durante la sua assenza, dalla cattiva amministrazione dei suoi rappresentanti: uno di loro, prete Nicolino, priore di Castelsardo, era stato ucciso da alcuni elementi locali, che il D. graziò il 10 marzo 1321 trovandosi ancora a Bonifacio. Nel maggio si recò a Casteldoria, dove, forse per legittimare una situazione già esistente di fatto, creò un embrione di libero Comune e si adoperò per incentivare la produzione agricola.
Questa abile attività (che nascondeva anche difficoltà economiche crescenti per le notevoli spese che il D. dovette sobbarcarsi) ebbe come obiettivo principale quello di rinsaldare il controllo dei possessi sardi in un momento cruciale per le sorti dell'isola. Il progetto di invasione della Sardegna, a lungo accarezzato da Giacomo II e non ancora concretizzatosi, stava ricevendo nuova linfa dalle sollecitazioni in tal senso di Ugo di Arborea, succeduto al padre Mariano nonostante la tenace opposizione pisana. Il D., almeno all'inizio, preferì legarsi alla coalizione che sulla carta si presentava superiore alla potenza pisana.
Già nel marzo 1321 la città toscana fu costretta ad intavolare trattative con lui, per ottenere dietro riscatto la liberazione dei prigionieri che il D. aveva catturato al largo della Corsica. L'anno seguente Pisa armò tre galere, che vennero affidate a Gherardo Buzzacarino; egli bruciò il castello di Cinarca e ne occupò un altro appartenente al Doria. Tuttavia, Alaone Doria, vicario di Corsica "pro extrinsecis", prese in ostaggio i mercanti pisani presenti nell'isola ed obbligò l'ammiraglio a restituire il castello (settembre 1322). Sbarcata la flotta aragonese in Sardegna e postasi nel luglìo del 1323 all'assedio di Villa Iglesias, il D., che aveva seguito il corso degli avvenimenti da Alghero, si affrettò col figlio a prestare omaggio all'infante Alfonso. Tuttavia, quando la resistenza pisana fu piegata, i Doria dovettero guardare con preoccupazione al nuovo scenario che si era creato nell'isola: le larghe concessioni fatte ai baroni aragonesi, la posizione di prestigio raggiunta dal giudice di Arborea, l'alleanza tra la Corona ed il Comune di Sassari, erano tutti fattori pericolosi per la sopravvivenza di uno Stato doriano autonomo. La famiglia cercò di occupare Sassari, ma senza esito (settembre 1324); Filippo di Saluzzo, nominato governatore dall'infante Alfonso, al momento della partenza di quest'ultimo dall'isola, aprì una inchiesta su due membri della famiglia Doria, Branca e suo fratello Vinciguerra, accusati di ribellione.
L'identificazione del Branca Doria ora ricordato con il D. è dubbia, dato che per quest'ultimo nessun documento parla di un fratello di nome Vinciguerra; è probabile, allora, che, nella confusione onomastica della famiglia, il ribelle sia un altro personaggio. I più autorevoli esponenti dei Doria intervennero per intercedere a favore dei due congiunti, ma l'inchiesta, per ordine del re, venne continuata dal successore di Filippo, Berenguer Carroç, che in Sassari ne ordinò la decapitazione. Il 17 marzo 1325 il Comune sardo condannò un "Branca de Nurra" all'esilio perpetuo, confiscandone i beni e proibendo matrimoni coi suoi figli. Tuttavia, in una lettera precedente, scritta da Savona (7 gennaio), Paolo Montaldo, assessore del governatore, annunciò l'avvenuta decapitazione dei due fratelli.
Molto probabilmente il D. morì subito dopo (da qui la confusione nelle ricostruzioni biografiche); infatti, il 3 agosto dello stesso anno, Eleonora Fieschi, vedova di Bernabò, donò una casa che era appartenuta al D., delle cui proprietà ella dovette essere in parte erede. Dal matrimonio con Caterina il D. aveva avuto numerosi figli: Bernabò, Lazzaro, Percivalle, Oberto, Babilano, Violante ed Agnesina (secondo alcuni genealogisti).
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