BORGHESIA
Il senso etimologico non dice più nulla del contenuto moderno, attuale della parola; così come il borghese di oggi è altra cosa del burgensis o bourgeois che troviamo mentovati negli atti e diplomi del basso medioevo. Strettamente giuridico, allora, il significato del termine, inteso a definire la condizione di diritto di una particolare classe di persone (v. burgenses). Estremamente lato e complesso, invece, il significato odierno: dove si incrociano e si fondono caratteristiche economiche, sociali, morali, culturali, e anche, almeno in certi limiti, politiche. Il concetto è anzi spesso tutt'altro che chiaro e determinato: si parla di spirito borghese, di abitudini, di mentalità, di ideali borghesi, ma si rimane nel vago. E così borghese viene chiamato colui che ha una certa posizione sociale, intermedia fra la nobiltà e le classi operaie; oppure a questa prima definizione se n'aggiunge un'altra: borghese è colui che non solo ha una determinata condizione sociale, ma gusti e tendenze che sono diverse da quelle di altri strati sociali. Per es. l'amore al vivere quieto e ordinato e una certa ripulsione allo spirito di avventura; l'adesione - in genere - all'ordine politico costituito e la riluttanza a ogni innovazione rivoluzionaria; il geloso attaccamento alla propria fortuna economica e al proprio benessere, che rendono il borghese ostile, in massima, alle dottrine socialmente innovatrici. Ancora, per letterati e artisti il borghese rappresenta molte volte l'uomo amante delle idee tradizionali, ben fermo sulla cultura ricevuta nella scuola, dal gusto un po' grosso, poco proclive quindi ad accettare nuove teorie e dottrine, dubbioso e diffidente di fronte a tendenze artistiche e letterarie che non rispondano ai canoni classici. Borghese diviene così più volte simbolo di una certa aridità e angustia mentale, di pavido conservatorismo culturale, sociale, politico. E di attacchi contro lo spirito "borghese", contro il "filisteismo" risuona il mondo culturale moderno, da Byron a D'Annunzio; e nel gergo di artisti e letterati bourgeoisade finisce per divenire sinonimo di action mesquine, plate, écæurante.
Più che esprimere una semplice differenziazione sociale, l'espressione "mentalità borghese" indica quindi, per noi, tutto un determinato modo di vedere, di sentire la vita e i problemi della vita, che viene, almeno nei termini, strettamente connesso con la "posizione" sociale degl'individui. Di qui l'interesse a ricercarne le origini; a vedere com'esso si sia formato, sviluppato nel corso degli ultimi secoli. Di qui le ricerche che - specie in questi ultimi anni - si vanno facendo per tracciare la storia della borghesia e del borghese. Ma di qui anche il pericolo di fissarsi in un concetto astratto, di cadere nello schematismo sociologico. In realtà, la cosiddetta mentalità borghese, in quelle caratteristiche fondamentali che vedremo in seguito, abbraccia oggi assai più ampio orizzonte; e storia dello spirito borghese non è altro se non storia dello spirito moderno, che ha certo permeato di sé dapprima un certo ceto sociale, gli homines novi, contrapposti alla feudalità e ai chierici, e con ciò alle concezioni medievali; ma non è più oggi identificabile, sic et simpliciter, con un solo, determinato gruppo sociale. E se oggi ancora certi atteggiamenti spirituali e morali fondamentali paiono più strettamente connessi con "la borghesia", classe sociale; in effetto sfuggono al dominio di un'etichetta sociologica, e sono atteggiamenti anche di molti di coloro che combattono la borghesia in quanto ceto sociale. E questo sarà opportuno tener ben presente, a fine di non incorrere in equivoci.
La storia comincia in epoca abbastanza lontana. Manca ancora il nome; e già appaiono i primi elementi della futura borghesia. Piccoli mercanti, che specie nell'Europa nord-occidentale sono il più delle volte girovaghi, frequentano i porti, i mercati, le fiere, i luoghi di pellegrinaggio, racimolano i primi guadagni facendo un po' ogni mestiere e ogni traffico. Ad essi sono ben noti itinera ac viæ publicae diverticula, semite, leges moresque gentium ac lingua (Liber Miraculorum Sancte Fidis, ed. Bouillet, p. 63). In Italia, dove più attiva è allora la vita commerciale, li troviamo già insediati stabilmente in città: comprano case, prati, accrescono con i guadagni il giro d'affari. Ben presto, chiarissima in loro o almeno in parte di loro la tendenza ad elevare la propria condizione sociale, a togliersi dall'inferiorità in cui si trovano di fronte alla feudalità, campagnola e cittadina: ottengono feudi, oppure chiedono e ottengono la dignità cavalleresca, che dalla fine del sec. XIII specialmente, viene più e più volte concessa, a mercanti di Milano, di Firenze, ecc.
Una parte di questo ceto - i più cospicui tra i mercatores che si sono uniti con l'aristocrazia feudale cittadina nel formare il primo comune - trapassa così nei ranghi della classe feudale, adottandone usi e costumi, spesso anche condividendone la fortuna politica. Ma i vuoti sono largamente riempiti: l'intensa attività economica delle città spinge gli uomini in sempre più forte misura verso il commercio, le operazioni di cambio e di banca - anche, seppure in minor misura, verso l'industria. Ma non solo tra mercanti e banchieri si recluta il nuovo ceto. Esso trova una forte base pur nei giuristi e notai: tra coloro cioè che hanno si può dire in propria mano la vita culturale della città, che sono indispensabili per la redazione degli statuti e per l'amministrazione della giustizia, che costituiscono - com'è noto - in tutte le città una fra le arti o corporazioni più influenti e più forti.
Costituita così di gente d'affari e di gente di legge soprattutto, la nuova classe - pienamente formata nel sec. XIII - domina la vita comunale. Ricca, anzi sempre più monopolizzatrice della ricchezza generale, essa riesce anche a sostituirsi alla feudalità nel possesso delle campagne: la terra passa nelle sue mani, in molta parte, così come l'accrescimento edilizio della città le dà modo di costituirsi una forte proprietà immobiliare entro la cerchia delle mura cittadine. Denaro liquido, palazzi e terre formano la base della sua potenza, economica e politica; la quale è tale che dalle file del ceto escono parecchi dei signori della fine del sec. XIII.
E sorge, fra gli uomini della nuova classe, la coscienza di sé. Distinti dai baroni, essi si staccano anche dalla vilior pars, dalla plebe. Naturalmente ancor più profondo è lo stacco che li divide dai villani, dai rustici, da allora in poi facile oggetto di satira, di scherno e di ingiurie proprio da parte di questi grassi cittadini, divenuti domini terrarum.
Formata socialmente con un primo senso della propria diversità e autonomia di fronte alle altre classi, questa nuova classe fatica tuttavia ancora a crearsi un proprio pensiero, ad organizzarsi una cultura che non sia più né quella ecclesiastica né quella cavalleresca. Su questa via, il cammino è più lento. I sentimenti, gli ideali cavallereschi possono più facilmente essere dimenticati in Italia: ma la tradizione chiesastica del Medioevo continua a premere sugli spiriti. Certo, motivi per la formazione di una nuova coscienza non mancano: le lotte che proprio la borghesia cittadina deve sostenere quasi diuturnamente contro l'autorità vescovile, contro le immunità - tributarie e giudiziarie - del clero, sono primo incentivo a che si formi una coscienza laica, nuova, propria della classe che detiene la fortuna economica e il potere politico. Ma non è facile il sistemare teoricamente, l'organizzare concettualmente e sentimentalmente l'attività pratica: onde il borghese può scrivere e leggere satire sui costumi di frati e di ecclesiastici, può irridere nei conversari o anche negli scritti al malcostume del clero, ma rimanendo sempre dominato dalle concezioni fondamentali che gli vengono dal Medioevo agostiniano e scolastico. Uno spirito per tanti versi così nuovo come quello di Giovanni Villani, tutto compreso della fortuna e della forza della sua classe, rimane, per es., fondamentalmente dominato dal dualismo agostiniano fra bene e male; rimane, persino - cosa invero mirabile - lui, ch'è uomo d'affari, soggiogato teoricamente dall'avversione canonista al traffico del denaro.
Quel che si può avvertire di veramente nuovo, nell'atteggiamento con cui questi uomini guardano il mondo, è più sprazzo singolo che non visione d'insieme: è, per es., l'interesse ai fatti economici, l'entusiasmo per la creazione del "fiorino d'oro" (Villani); l'interesse crescente per la natura e i fenomeni naturali. L'arte stessa rimane ancora fuori dell'influsso decisivo del nuovo ceto: al quale poi è avverso Dante, con i suoi rimpianti per l'età in cui cortesia e valore fiorivano - cioè l'età cavalleresca (Purgatorio, XIV e XVI; Paradiso, XV e XVI), con il suo disprezzo per i nuovi Marcelli che sorgono nelle città (Purgatorio, VI).
La conquista di una propria visione del mondo da parte del ceto ch'è "in bono stato", cioè di quelli che noi oggi chiameremmo borghesi, avviene assai lentamente, fra il tre e il quattrocento. Col sec. XV tuttavia già esiste una chiara espressione del nuovo spirito nei libri Della Famiglia di Leon Battista Alberti. L'uomo ha ormai chiare e definite idealità. La "dolcezza del vivere", "il diletto di vedermi le cose mie" gli dànno un senso gioioso, sereno della vita che ripudia totalmente qualsiasi aspirazione ascetica. Non che la religione non sia ancora formalmente venerata, professata: il cittadino di bono stato è ortodosso, assiste alle sacre funzioni, fa parte di confraternite religiose. Ma è, nei più dei casi, una religione alquanto esteriorizzata, si potrebbe dire una religione domenicale: senza che più l'animo dell'uomo sia pervaso da quel senso intimo, profondo di Dio, che aveva invece assai più dominato l'animo dei feudatarî e dei cavalieri; senza che più il senso del peccato, della miseria umana - così tipiche della mistica medievale - sopravvenga a impedirgli di gioire della vita. Le donne borghesi, certo, rimangono ancora assai più attaccate al verbo di Dio; la più utile delle cose, per loro, continua ad essere l'anima (Lettere di A. Macinghi Strozzi, Firenze 1877, p. 276). Ma non mancano neppure in esse i segni della religiosità puramente esterna; i predicatori devono affannarsi a riprovare la tiepidezza di fede di molte delle loro ascoltatrici, la mondanità eccessiva dei loro costumi e della loro vita.
Fervore religioso intiepidito. E già nel pensiero dell'uomo nuovo la fortuna appare a sostituire, di fatto, la volontà di Dio: confuso e spesso equivoco concetto, di una forza cieca che non è ben definita e non può essere neppur definibile. Ma è tuttavia, in esso, l'affermarsi di un nuovo modo di vedere il mondo, che si stacca sempre più dalle concezioni del Medioevo. Virtù e fortuna: astratto l'uno, indeterminato, pieno di equivoci l'altro. Ma pure concetti base del nuovo pensiero che si viene formando e che è, finalmente, qualcosa di proprio della nuova classe, non più il pensiero del Medioevo feudale-cristiano.
Su questo sentimento gioioso della vita, su questa consapevolezza della propria virtù che solo la fortuna può limitare, il cittadino di bono stato lavora. Attende ai traffici; i suoi ragionamenti sentono "della masserizia"; le sue preoccupazioni si volgono "alla industria del guadagno", assai più ancora che non alla vita pubblica, la quale a parecchi appare rovinosa per le faccende private. C'è un certo affievolirsi del senso politico, come d'altronde avveniva anche presso gli umanisti; c'è invece una cura attenta e sollecita del proprio benessere, alquanto egoisticamente inteso, che conduce persino a deprecare un troppo intenso sprofondarsi nella vita d'affari. Guadagnare, sì; ma senza che guadagno e lavoro divengano proprio i fini supremi ed esclusivi dell'esistenza. Guadagnare invece per poter vivere comodamente; per rendere più agiata, più sicura l'esistenza propria e della famiglia.
Non è, quindi, quella del cittadino di bono stato del '400 italiano, la mentalità capitalistica. Il precetto del lavoro per il lavoro, della produzione per la produzione, che caratterizza il grande capitalismo moderno, non si lascia avvertire nei pur operosi mercanti e banchieri di Firenze, di Milano e delle altre città italiane. Il senso della dolcezza del vivere è troppo forte perché si possa accettare - in anticipo - la dura vita dell'uomo d'affari moderno. Tipico al riguardo il desiderio della villa, del riposo agreste, che negli umanisti conduce a un rivivere di poesia bucolica; che nei mercanti e banchieri si riduce all'acquisto e al geloso mantenimento delle possessioni fuori le mura. A questa vita, agiata e comoda, dà lustro un'intelligenza ornata di buone lettere, amante delle arti e dei dotti conversari. Non per nulla siamo nell'età dell'umanesimo trionfante, delle esperienze pedagogiche di un Guarino Veronese o di un Vittorino da Feltre.
Così, ossequioso verso la religione, ma in sostanza non più dominato dallo spirito religioso; desideroso di ricchezze. ma senza che l'industria del guadagno debba impedire totalmente l'otium; contento di qualche carica pubblica, ma non disposto a rimettere l'anima nelle cose di stato; sollecito di una certa attività spirituale, il cittadino di bono stato è compiuto. Tipico esempio di borghese, che appare prima che da noi la parola sia di uso comune.
La parola doveva trionfare sull'esempio della Francia, del paese cioè in cui la borghesia e il borghese dovevano trovare, sia pure alquanto più tardi che in Italia, la loro classica fortuna.
Anche qui, mercanti e uomini d'affari concorrono a formare il nuovo ceto; ma a partire dal sec. XVI predomina forse il funzionario pubblico, l'uomo di leggi, il rentier. Una caratteristica infatti della storia francese, già dall'inizio del sec. XVI, è l'arricchirsi continuo dei quadri della burocrazia regia; la fortuna dei legisti; l'affievolirsi del senso degli affari in antichi mercanti o industriali che rinunziano alla libera attività, e investono il denaro nelle rentes di vario genere, quando non acquistino cariche e uffici pubblici.
È già conscia di sé stessa, questa borghesia; sa di rappresentare una forza ben distinta dalla feudalità e dal clero, come dal petit peuple; e ha - assai più che non i boni uomini del Rinascimento italiano - interessi e senso politico. I quali interessi politici s'accrescono potentemente nel lungo periodo delle guerre di religione, e finiscono con l'infondere, alla fine delle varie Ligues e delle guerre civili, il sentimento delle necessità nazionali, dell'unità della nazione. Forte base, questa, per la fortuna della Francia. E vi s'unisce, proprio per opera di quei legisti che formano come l'élite dirigente, un notevolissimo senso del diritto: lo stato che un tipico rappresentante della borghesia del sec. XVI, Bodin, costruisce, è lo stato di diritto, ben diverso dallo stato di forza che il Rinascimento italiano ha concepito e creato.
Ma, per altri riguardi, assai meno moderna rimane la forma mentis del bourgeois francese di fronte a quella del suo contemporaneo italiano. L'influsso del pensiero medievale vi è rimasto più profondo; le preoccupazioni per la salvezza dell'anima sono più forti, in massima, e proprio secondo le dottrine medievalistiche. Tipico, al riguardo, l'impero che la Sorbona esercita sulle coscienze; tipica la riprovazione delle dottrine machiavelliane, come dottrine atee. E la riforma calvinistica lungi dall'indebolire, rafforza potentemente il senso "cristiano" della vita: ogni pensiero e ogni affetto umano si devono piegare di fronte alla majesté di Dio.
Il distacco dal bozzolo religioso medievale avviene lentamente, attraverso i sec. XVII e XVIII: ma è allora un distaccarsi continuo, progressivo, per cui alla fine il borghese tipico sarà razionalista, amico dell'enciclopedismo e delle lumières de l'esprit. A poco a poco esso borghese, avvezzo ormai a ragionare e discutere su tutto quanto concerne la sua attività pratica, di negozî e di leggi, di politica e di educazione, finisce col richiedere i conti anche alla fede che sinora ha professato senza discussione: egli vorrà entrare en contestation avec Dieu (Massillon); vorrà ragionare, alla stessa stregua dei dottori in teologia, sul perché e sul come della parola di Dio. Eccoli questi monsieurs, queste honnêtes gens che trattano con disdegno l'umile peuple, eccoli costruirsi una propria dottrina o meglio un proprio modo di concepire il mondo e la vita, in cui Dio ha ancora, formalmente, la sua parte: ma una parte ridottissima, quasi puramente decorativa. Le leggi vere dell'azione, il borghese le cerca altrove. È un'antitesi che la chiesa si sforza di colmare, ma senza riuscirvi. Giacché non è un'antitesi che verta solo su particolari: per es., sull'attività economica su cui potevano gravare ancora i divieti medievalistici (usura, ecc.). Qui, all'accordo pratico si poteva giungere; effettivamente ci si giungeva. Ma era proprio su dottrine fondamentali che l'antica fede e il bourgeois non erano più in accordo. Pieno di fiducia in sé, nelle proprie forze, nella propria attività, non può esso borghese sentire ancora l'insegnamento che lo richiama alla caducità e alla morte; bramoso di onori, di potenza, di ricchezza, non può sottostare ai precetti dell'umiltà; avvezzo al calcolo sottile, all'affare ragionato, discusso, vagliato, ripugna all'idea di una Provvidenza che lo domini dall'al di là; felice, infine, pieno di ottimismo nella vita che gli dà fortuna e benessere, gli è impossibile sentire ancora il peccato. Svaniscono così i precetti fondamentali del cristianesimo.
Per riprendere quest'uomo che si svia, gesuiti e giansenisti lavorano a tutt'uomo, con due programmi diversissimi, ma sostanzialmente volti a dare alle esigenze del nuovo ceto una prima risposta. Ma è un tentativo che nel complesso non riesce. Il borghese sfugge sempre più alla chiesa: dottrine cartesiane e propaganda dei "libertini" lo conquidono, fino a quando - col sec. XVIII - le lumières dei filosofi vengono a dargli un compiuto sistema teorico e pratico.
Ottimista fondamentalmente, il borghese trova la fonte dei mali e della corruzione solo nei cattivi ordinamenti sociali e politici, nelle regole nefande della ragion di stato: è pertanto avverso alla politica, considerata come intrigo perpetuo di diplomatici e di principi, come segreto di gabinetto o d'alcova; e si affisa nel mito del diritto naturale, e venera la "natura" come stato di innocenza e di bene, e idealizza i popoli semplici e primitivi, felici perché lontani dalle guerre, dalla diplomazia, dalle lotte di religione. Legge, questo borghese, avidamente, le Lettres Persanes del Montesquieu, le Histoires de voyages, le Bibliothèques orientales; ammira nell'Oriente l'umanità dei costumi, la tranquillità di vita; trova in Confucio l'ideale del saggio legislatore. E, tutto preso com'è dall'idea d'un progresso al vertice del quale stanno la completa libertà religiosa e l'annullamento dei privilegi nobiliari e chiesastici; dominato dalla nuova fede nella ragione, in una ragione astratta secondo i cui dettami egli si sforza di vivere e di pensare, rifiuta la storia delle guerre e della diplomazia ed esige invece la storia della civilisation: storia cioè del progresso delle arti e delle lettere, dei commerci e delle industrie, storia del trionfo dell'idea di tolleranza religiosa e dell'idea di libertà civile. Qui egli si trova a suo agio, poiché contempla la storia della sua stessa ascesa. Eroi diventano per lui non più i cavalieri medievali e i grandi condottieri, questi uomini per la cui azione il en coute trop cher à tous les autres (Montesquieu), ma un Jacques Cœur, il borghese del sec. XV.
Cosị ę formato il borghese. Talora decisamente avverso alla chiesa, pun̄ rimanerle tal'altra formalmente sottomesso: ma anche in quest'ultimo caso la sua forma mentis è ormai del tutto lontana dall'insegnamento cristiano.
Modo di sentire e di concepire la vita in cui s'esprimeva chiaramente la volontà del nuovo ceto di spezzare e spazzare via i vecchi ordinamenti - sociali, politici, morali - su cui s'era appoggiata e in parte rimaneva appoggiata tuttora la supremazia dei due ordini privilegiati: nobiltà e clero. Uscir fuori dal bozzolo medievale, crearsi una nuova filosofia, significa per il borghese rifiutare in primo luogo la distinzione gerarchica delle classi, caratteristica del Medioevo; significa affermare la propria uguaglianza con i due stati privilegiati. Di qui l'enorme forza pratica di idee ch'erano poi per altro verso astratte, antistoriche - talora anche puerili.
L'ideale del borghese è la vita calma, ordinata, non turbata dalle passioni, non scossa dal senso dell'eroico e dell'avventura: una vita di aisance materiale e morale, da cui siano al possibile bandite le preoccupazioni. Loin d'ici le chagrin et le souci, c'est en raccourci, toute ma philosophie, come diceva un tempo una canzonetta assai in voga.
E quando si avverte l'aridità d'una vita cosiffatta, quando nuovamente si prova il bisogno di emozione, di quell'emozione che dovrebbe essere bandita dalla raison; venuta meno la salda fede dei padri, mancando una forte passione politica a cui l'uomo dedichi "l'anima sua", si cade in un sentimentalismo di maniera ch'è caratteristico degli ultimi anni che precedono la Rivoluzione. L'idillio tenero alla Paul et Virginie, l'abbandono sentimentale alla Greuze, servono al borghese per placare la mal sopita sete di emotività; così come il vago misticismo delle logge massoniche serve da surrogato al senso del divino che s'è perduto.
Il grosso pericolo in cui questo borghese s'era cacciato, era l'aver escluso dal proprio essere tutto ciò che non fosse dettato da raison. La tragedia rivoluzionaria, le guerre napoleoniche, l'età del Romanticismo dovevano dare una rude scossa al "tipo ideale", buttando a terra molti dei suoi idoleggiamenti, mostrando il vuoto e l'inconsistenza di varî dei suoi precetti. Il cosiddetto "irrazionale", che il borghese del '700 aveva cercato di espellere dalla scena del mondo, ritornava trionfante; e piegava nuovamente a sé gli spiriti, che nuovamente ritornavano alla fede con un'esasperazione mistica e sentimentale, significativa della violenza della reazione. Poeti e scrittori e filosofi cari alle folle borghesi del primo Ottocento, davano loro nuovamente il senso dell'individuale - prima ottenebrato dalla universale raison -, il senso del divino, il senso del cosiddetto irrazionale. E riappariva il senso politico; anzi, questa borghesia trovava una delle sue più possenti leve ideali nella coscienza di nazione, accompagnata - non sempre, ma spesso - dal senso di libertà politica. Un po' in tutta Europa, crisi di misticismo, ardore religioso, ardore patriottico segnano la via dei borghesi.
Pure, le tracce profonde dell'illuminismo rimanevano. Rimaneva, malgrado tutto, l'ideale della vita ordinata e scevra di troppo gravi turbamenti: onde i borghesi si trovarono fuori del trionfo pieno di quella stessa mentalità capitalistica, di cui pure avevano nei secoli precedenti costituito il prodromo. E si trovarono, fermi in fondo sempre su di un certo disdegno per il bas peuple, ostili ad ogni esperimento e tentativo - anche il meno ardito - di elevazione delle classi inferiori. E, riluttanti a tutto ciò che potesse avere sapore d'avventura, poterono anche giudicare pazzie imprese e guerre che dovevano invece dar loro maggior fortuna. Soprattutto, nonostante le crisi mistiche, rimaneva molta fede nella raison, quale il sec. XVIII l'aveva concepita. L'ideale di progresso, d'umanità, così come gli illuministi l'avevano foggiato, rimase vivo in moltissimi borghesi: particolarmente nella borghesia di Francia, sempre a fondo razionalista. Il fastidio quasi di dover ammettere l'intervento del divino nei fatti degli uomini, ha resistito alle nuove fluttuanti esperienze religiose: donde il favore, l'entusiasmo con cui tra il ceto borghese le dottrine del positivismo sono state accolte. Anch'esse semplificavano, schematizzavano, escludevano l'irrazionale, ponevano dei come e dei perché che l'uomo poteva più immediatamente e più facilmente afferrare. Caratteristico, per vero, quest'innesto del positivismo sul razionalismo, che ha come risultante la forma mentis del borghese moderno, in quei paesi almeno dove o un pensiero nuovo, o addirittura un rivolgimento generale nella dottrina, nella pratica e nei sentimenti, non hanno inferto un decisivo colpo alla vecchia ideologia.
Ma siffatta mentalità non è più esclusiva della borghesia, come ceto sociale. Ché, anzi, proprio per l'influsso della borghesia - cioè del ceto socialmente, politicamente, culturalmente dominante nell'Europa del sec. XIX - tale mentalità ha permeato largamente di sé parte della vecchia nobiltà, e specialmente gran parte degli strati inferiori della popolazione. Il lavoratore si è contrapposto al borghese, nell'Europa del sec. XIX: ma quanti punti di contatto tra la mentalità dell'uno e quella dell'altro; quale influsso del secondo sul primo! I miti di progresso e d'umanità, di fratellanza e d'uguaglianza, che ai borghesi del sec. XVIII avevano servito di arma contro le vecchie classi privilegiate, sono ritorti dagli agitatori socialisti del sec. XIX contro la borghesia stessa e divengono ancora arma di lotta, con altro bersaglio. Ma per ciò appunto quanta affinità tra gli uni e gli altri!
La forma mentis del borghese ha permeato di sé assai più ampio strato sociale; si è imposta, anche quando pareva combattuta; e, se prima aveva potuto costituire veramente la forma mentis caratteristica d'un determinato ceto sociale, ora si dissolve come tale, perde le sue peculiarità "classiste".
Bibl.: Una bibliografia per la voce borghesia potrebbe importare un ammasso enorme di citazioni, ove si volesse aver riguardo al processo di formazione delle singole borghesie, nei singoli paesi. Ma poiché questo processo di formazione è un po' la storia stessa delle varie nazioni, così anche per la bibliografia si rinvia alle voci specifiche francia, italia, ecc. Solo si ricordano, per comodità pratica, alcune fra le opere più importanti che quel processo di formazione hanno studiato: A. Thierry, Essai sur l'histoire de la formation et des progrès du tiers état, voll. 2, Parigi 1853; Ch. Normand, La bourgeoisie française au XVII siècle, Parigi 1906. V. anche, per il sec. XVI, L. Romier, Le royaume de Catherine de Médicis, Parigi 1922, I, p. 1-49. In genere W. Sombart, Der moderne Kapitalismus, 5ª ed., Monaco-Berlino 1922 e i numerosissimi rimandi ivi. Cfr. anche G. D'Avenel, Histoire économique de la propriété ecc., V, Les classes riches et bourgeoises, nuova ed., Parigi 1919; H. Sée, La vie économique et les classes sociales en France au XVIIIe siècle, Parigi 1924. Sull'uso del termine bourgeois, E. Kredel, Hundert französische Schlagwörter u. Modewörter, Giessen 1926, pp. 42-45.
Sullo spirito "borghese" si è cominciato a lavorare veramente solo da pochi anni: da quando cioè Max Weber con il saggio Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus (in Archiv für Sozialwissenschaft u. Sozialpolitik, 1904 e 1905), ora in Gesammelte Aufsätze zur Religionssociologie, I, Tubinga 1920, diede il primo grande esempio d'una ricerca vertente non più sul fatto economico esteriore, ma sullo spirito stesso con cui la vita economica veniva concepita. Uscì quindi l'opera di W. Sombart, Der Bourgeois, Berlino 1913 (trad. francese, Parigi 1926) che ha valore soprattutto per l'indagine dello "spirito economico", di cui la mentalità borghese si è venuta permeando. Della posizione del borghese di fronte alla Chiesa, nella Francia dei secoli XVII e XVIII, si occupa invece B. Groethuysen, Origine de l'esprit bourgeois en France, Parigi 1927, in un'analisi ricca di dati e interessante. Sono, sull'argomento, le due opere più notevoli.
Si può anche ricordare, tuttavia, per i Paesi Bassi nella fine del Medioevo, J. Huizinga, Herbst des Mittelalters, trad. tedesca, 2ª ed., Monaco-Berlino 1928, specialmente pp. 76 segg. Giudizî acuti e ricca messe di notizie, per il Settecento francese, in A. Gerbi, La politica del Settecento, Bari 1928; e sulla borghesia francese nella prima metà del sec. XIX, cfr. l'aspro, troppo aspro e unilaterale giudizio di E. Treitschke, La Francia dal primo Impero al 1871, trad. ital., Bari 1917, I, p. 177 segg.
Da tener presenti le critiche che il Croce ha mosso al concetto stesso di borghesia, Di un equivoco concetto storico. La "borghesia", in Atti della R. Accademia di scienze morali e politiche di Napoli, 1927.