BONAVENTURA da Siena
Il suo casato e le vicende della sua vita prima del soggiorno in Spagna non sono noti. Egli appare nel 1264 alla corte del re di Castiglia, Alfonso X il Savio, a Siviglia. Alfonso aveva accettato nel 1257 il titolo di "rex Romanorum"; ed un gruppo di Toscani, venuti da Siena e Pisa (ghibelline) e da Firenze (guelfa), era accorso alla corte di Siviglia: i ghibellini per indurlo ad intervenire in Toscana ed i guelfi (l'ambasciata fiorentina del 1260 guidata da Brunetto Latini) "per sommuoverlo dal passare" (G. Villani). Quando fu palese che Alfonso non aveva più volontà di assumere la dignità imperiale, il gruppo dei Toscani si disperse ed alcuni di essi ottennero funzioni alla corte castigliana. Così B. già nel maggio 1264 compare con il titolo di "notarius atque scriba domini regis". Due anni dopo, il 10 maggio 1266, in tale sua qualità, redige l'atto per il quale l'infante don Fernando, figlio di Alfonso X, delega Enrico il Toscano, portero mayor della corte (e, dunque, altro emigrato compatriotta di B.) insieme con Juan Martinez, vescovo eletto di Cadice, come suoi procuratori per la stipula del contratto del proprio matrimonio con Bianca, figlia di Luigi IX, re di Francia.
Ancora più tardi, in un documento del 18 genn. 1284 il re Pietro III d'Aragona conferisce la dignità di suo familiare "familiarem nostrum", "et de domo et familia nostra") ad un Filippo Bonaventura da Siena, già al re segnalato dal cardinale Latino Malebranca, il negoziatore (insieme con Brunetto Latini) della "pace del Cardinal Latino" del 1280 tra guelfi e ghibellini a Firenze. L stato supposto che il Filippo Bonaventura da Siena di questo documento non sia B., ma un suo figlio, e che il cardinale Malebranca abbia così voluto presentare al sovrano aragonese il figliuolo di una persona che era localmente conosciuta come un fedele del re di Castiglia, quale era od era stato Bonaventura.
Ma l'attività di B. è principalmente connessa con la dibattuta questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia. Tale questione fu posta essenzialmente dall'arabista spagnolo M. Asin Palacios (1919), che segnalò possibili analogie tra la visione dell'oltretomba di Maometto nella letteratura araba e il poema di Dante. Tali analogie, tuttavia, sembrarono storicamente inaccettabili in quanto né Dante conosceva l'arabo né altro legame era dimostrabile tra gli scrittori arabi ed il poeta fiorentino. Il problema assunse un nuovo aspetto nel 1949 con l'edizione dell'opera di B. perché da essa apparve che, se mai, si trattava in realtà piuttosto di una eventuale relazione tra letteratura spagnola (e non più araba) e poesia italiana per il supponibile intermediario del notaio toscano. Infatti il re Alfonso X aveva fatto tradurre da Abrāhām Alfaquim, medico ebreo della corte, dall'arabo in castigliano il Kitāb al-Mirāg ("Libro dell'Ascensione" o "Libro della Scala"), narrazione popolareggiante del viaggio di Maometto nell'oltretomba e descrizione delle gioie del paradiso e dei tormenti dell'inferno. Il gusto e la curiosità per simili opere nell'ambiente culturale medievale spinsero il re Alfonso a dare incarico a B. di tradurre ulteriormente il Libro della Scala dal castigliano in latino e in francese. Di tali versioni abbiamo oggi: per il latino due codici (nella Biblioteca Vaticana e nella Bibliothèque Nationale di Parigi) e per il francese un codice unico nella Bodleiana di Oxford.
Nella breve introduzione alle sue traduzioni B. spiega come, "de mandato eiusdem domini (regis Alphonsi)" e "avidus in cunctis domini mei toto posse obedire mandatis", ha eseguito l'opera anche perché appaiano "non minus abusiva quam derisoria" le asserzioni di Maometto e quindi "Christi fidei veritas comparata mendaciis plus delectet". Ma questo intento apologetico concorreva con l'ansia di conoscere l'escatologia degli avversari musulmani, di cui altra testimonianza è data dal fatto che pochi anni dopo sarà tradotta dal catalano in castigliano, latino e francese la notizia che Raimondo Lullo sullo stesso argomento aveva inserito nel 1272-73 nel suo Libre del Gentil.
È stata recentemente posta da J. Monfrin la questione se la traduzione francese del Libro della Scala sia davvero opera di Bonaventura. Secondo questa ipotesi, B. avrebbe soltanto tradotto dal castigliano in latino l'opera; e successivamente un altro autore, rimasto ignoto, avrebbe poi eseguito la traduzione dal latino in francese, conservando anche a questo secondo lavoro il nome di B. come autore. Tuttavia tale ipotesi non appare, allo stato attuale, accettabile. Gli argomenti addotti in favore di essa sono, infatti, non specialmente validi: la mancanza totale (o quasi totale) di italianismi nel francese del Livre del'Eschiele non può dirsi determinante in quanto la versione francese ci è conservata in un codice unico, scritto, per di più, nei domini anglonormanni; e d'altra parte si spiegherebbero male, se non venissero appunto da uno straniero, come era B., le scuse che per la redazione egli presenta a "toux celx qui droit françois savent", anche se parallele alla riserva che per il latino B. fa "de insufficientia et elocucionis ruditate". Così il fatto che le due redazioni, latina e francese, sono strettamente aderenti e si scostano negli stessi punti dal castigliano, sembra piuttosto un argomento confermativo che esse due siano opera di B. anziché prova del contrario; ed anche qui va considerata l'assenza di tradizione manoscritta, perché abbiamo dell'originaria traduzione in castigliano soltanto gli estratti inseriti in un codice unico dell'Escuriale.
Della questione storico-letteraria circa la eventuale conoscenza da parte di Dante dell'opera di B. e quindi della possibile concorrenza di questo motivo della visione islamica con gli altri più diretti motivi di ispirazione della Commedia non è questo il luogo per trattare. Ma è importante per definire tale relazione l'esame della diffusione delle traduzioni del Libro della Scala nell'Europa medievale. Tale diffusione fu assicurata dal fatto che il Libro della Scala, nella traduzione latina di B., fu creduto un libro sacro dei musulmani (mentre è solo un'opera di pietà popolare) e, come tale, fu aggiunto - almeno nei due codici a noi pervenuti - alla così detta Collectio Toletana, formata dalle traduzioni, fatte eseguire a Toledo nel 1143 da Pietro il Venerabile abate di Cluny, del Corano e di minori opuscoli religiosi attinenti all'Islam. Così il testo latino di B. conclude la Collectio nel codice Vaticano.
Il cod. Vaticano (Vat. lat. 4072) è un Avignonese, per quanto non si trovi registrato negli elenchi della Biblioteca dei papi in Avignone. L'identificazione con il manoscritto che fu preso in prestito dalla Biblioteca Vaticana il 6 dic. 1484 da Filippo Gara (un membro della famiglia savonese dei Gara imparentata con i Della Rovere e quindi col papa Sisto IV) è da ritenersi dubbia, potendo l'annotazione egualmente riferirsi all'altro codice (Vat.lat. 4071) che contiene la Collectio Toletana senza il Libro della Scala. Piuttosto, invece, sembra meno incerta l'ipotesi già formulata dal cardinale F. Ehrle che il codice 952 dell'inventario avignonese del 1369 (che è quello 685 dell'inventario di Gregorio XI del 1375) conteneva l'opera attribuita (erroneamente) a S. Pedro Pascual Sobre la seta mahometana e quindi il riassunto del testo castigliano del Libro della Scala.
Nell'ambiente letterario della Toscana del Trecento il Libro della Scala (qui verisimilmente piuttosto nel latino, od anche nel francese, di B., che nel testo castigliano) è espressamente citato da Fazio degli Uberti nel Dittamondo (libro V, cap. XII, vv. 94-99): "Ancor nel libro suo che Scala ha nome, / Dove l'ordine pon del mangiar loro, / Divisa e scrive quivi d'ogni pome; / Vasellamenti ancor d'argento e d'oro, / Delicate vivande e dolci stima / Su per le mense, ove faran demora" i beati del paradiso: citazione che può riferirsi al XXXVII capitolo dell'opera di B. ("la mensa dei beati" e "frutti degli alberi del quinto cielo"). Assai più tardi, ancora cita il Libro della Scala (che conosce probabilmente nel testo latino di B.) il minorita fra' Roberto Caracciolo da Lecce, che scriveva lo Specchio della Fede tra il 1481 e il '95. Meno significativa è invece la citazione del Libro della Scala nel Commentoal Dittamondo che Guglielmo Capello scrisse per Niccolò III d'Este (dal 1435 al 1437), perché tale citazione deriva soltanto dal Dittamondo stesso. I riferimenti al Libro della Scala in Spagna, dallo stesso Alfonso X il Savio (nel suo Setenario) a Francisco Eiximenis (nel suo El Crestia, del 1381-1384) ed ad Antonio de Torquemada (nel Jardin de florescuriosas della metà del Cinquecento) sono da riportare ovviamente al castigliano e pertanto non concernono direttamente le due traduzioni di Bonaventura.
Bibl.: R. Caracciolo, Specchio della Fede, Venezia 1495; G. Villani, Cronica, Firenze 1823, II, p. 100; F. Ehrle, Historia Bibliothecae RomanorumPontificum Avenionensis, Romae 1890, pp. 360, 501; G. Daumet, Mémoire sur les rélationsde la Franceet de la Castillede 1225 à 1320, Paris s. d.; A. De Fabrizio, Il Mirag di Maometto..., in Giorn. storico d. letter. ital., XLIX (1907), pp. 299-313; A. M. Bertola, I dueprimi registri diprestito della Biblioteca Vaticana, Città del Vaticano 1942, p. 32; M. Asin Palacios, La escatologia musulmanaen la Divina Comedia, Madrid-Granada 1943; E. Cerulli, Il libro della Scala e laquestione delle fontiarabo-spagnoledella Divina Commedia, Città del Vaticano 1949; J. Monfrin, Les sources arabes de la DivineComédie …, in Bibliothèque de l'Ecoledes Chartes, CIX (1951), pp. 277-290; E. Garcia Gómez, Paseando por elJardin de Flores Curiosas de Antoniode Torquemada, in Al Andalus, XX (1955), pp. 222-224; E. Cerulli, Dante e l'Islam, in XII Convegno "Volta": Oriente ed Occidente nel Medio Evo, Roma 1957.