MORANDO, Bernardo
MORANDO, Bernardo. – Nacque a Sestri Ponente il 18 aprile 1589 da Guglielmo e da Mariettina Morando.
Dopo avere compiuto i primi studi nel paese natale presso gli eremiti geronimini della chiesa di S. Maria della Costa, nel 1598 seguì il padre a Genova, dove proseguì la formazione acquisendo conoscenze anche in campo commerciale (la famiglia aveva intrapreso da decenni una florida e consolidata attività in tale ambito). Negli anni genovesi entrò in contatto con Girolamo Preti, con il quale condivise la passione letteraria. Sin da ragazzo si cimentò con la scrittura in versi; della produzione giovanile non è rimasto nulla, ma si ha notizia di composizioni in italiano, latino e greco.
Nel 1604 fu mandato dal padre a Piacenza, dove la famiglia aveva importanti interessi e il nonno paterno Biagio nel 1596 aveva ottenuto la cittadinanza per sé e per i discendenti. Morando vi trascorse tutta la vita, allontanandosene solo per brevi periodi. Non risulta che proseguisse studi regolari, perciò la solida cultura che emerge da molte sue opere deve essere frutto di impegno autodidattico. Divenne ben presto una figura importante nella vita della corte farnesiana, cui lo legavano tanto le attività economiche quanto la produzione poetica, in buona parte dedicata alla celebrazione della dinastia regnante. Nel 1610 uscirono le prime composizioni a stampa, alcune rime per musica Nella nascita del ser.mo principe Alessandro Farnese, pubblicate a Piacenza, come poi sarà per quasi tutte le sue opere.
Tra gli altri testi dedicati a celebrare i principali personaggi del ducato meritano menzione i Componimenti vari per la nascita di Maria Farnese (1615); il Gareggiamento d’Amore e d’Imeneo (1628; epitalamio per orazio Farnese e Margherita de’ Medici); Alcuni sonetti in morte di Ranuzio Farnese (1630); Venere la celeste (1644; epitalamio per le nozze di Giacomo Gaufrido, segretario di stato dei Farnese, e Vetruria Anguissola); le odi Per la promozione al cardinalato di Francesco Maria Farnese (1645) e In morte d’Odoardo Farnese il Grande (1646). A Morando si devono anche le iscrizioni delle statue equestri di Ranuccio ed Alessandro Farnese, realizzate da Francesco Mochi, che costituiscono uno dei monumenti più importanti di Piacenza. Un epitalamio fu invece composto per i nobili genovesi Benedetto Lomellini e Maria Anna Merelli (Amor messaggiero, 1615).
Nel 1610 Morando divenne «direttor primario» degli spettacoli della corte farnesiana, carica che tenne fino alla morte. Delle ricche feste cittadine non si limitò a curare l’allestimento; in molte occasioni, scrisse i testi delle messe in scena, la maggior parte dei quali furono stampati: i balletti Ercole fanciullo (1639), Vittoria d’amore (1641) e Le ninfe del Po (1644); Le risse pacificate da Cupido (1644; come si legge nel frontespizio, è una silloge di poesie scritte per una «Festa a cavallo accompagnata da machine, da musiche e da altri solenni apparati»); i drammi musicali Il ratto d’Elena (1646) e Ercole nell’Erimanto (1651). L’opera più impegnativa di questa produzione fu l’ultima scritta da Morando: Le vicende del tempo (Parma 1652, «drama fantastico musicale diviso in tre azzioni con l’introduzione di tre Balletti, rappresentato nel Gran Teatro di Parma nel passaggio de i serenissimi arciduchi Ferdinando Carlo, Sigismondo Francesco d’Austria et arciduchessa Anna di Toscana »). Per la rappresentazione scenica di tali opere, Morando si valse della collaborazione di importanti compositori, come Sigismondo D’India, Francesco Mannelli e Claudio Monteverdi, che volle musicare la Vittoria d’amore.
Il 9 gennaio 1612 sposò Angelica Bignami, da cui ebbe 13 figli. Pochi gli avvenimenti di rilievo in una vita equamente divisa tra l’impegno per l’accrescimento del patrimonio e del prestigio della famiglia, e il culto delle lettere. Le scarne notizie rilevanti rimaste riguardano soprattutto le tappe della sua ascesa sociale nella città di adozione. Nel 1630, in occasione della peste che colpì l’Italia settentrionale, fu nominato deputato per la parrocchia di S. Nicolò dei Cattanei, con l’incarico di sorvegliare gli ingressi in città e coordinarsi con le autorità municipali per le attività di prevenzione (sul diffondersi del morbo scrisse un memoriale, pubblicato oltre due secoli dopo: La peste del 1630 a Piacenza, a cura di B. Pallastrelli, Piacenza 1867). Nel 1639 era uno dei quattro consoli del Collegium nuxii et mercantiae; nel 1647 fu indicato dal Collegio federale come primo nome in una lista di consoli da nominarsi in un’eventuale situazione di emergenza; il 20 settembre 1649 il duca Ranuccio II gli attribuì il titolo di «nobilis antiquus et originarius », che di fatto lo equiparava ai maggiori rappresentanti della nobiltà cittadina (un analogo riconoscimento gli era giunto l’anno precedente dalla sua città natale); il 10 gennaio 1651 il duca gli concesse il titolo di cavaliere aurato e conte del Sacro Palazzo Lateranense; l’anno successivo, dopo aver acquistato il castello di Montechiaro dal conte Gerolamo Anguissola, ottenne la relativa investitura nobiliare. Nel trattatello Della nobiltà, composto nel 1640 e mai pubblicato in vita (edito a cura di G. Tononi, Pisa 1882), teorizzò la perfetta conciliabilità dello stato nobiliare con le attività economiche, cercando di dimostrare, attraverso la storia dei successi della propria famiglia, che il settore più agiato e intraprendente del ceto mercantile può essere considerato a pieno diritto come un nuovo patriziato.
Partecipò alla costituzione della piacentina Accademia degli Spiritosi, voluta dai Farnese, tenendo anche il discorso per l’inaugurazione, il 3 settembre 1655 (pubblicato lo stesso anno, col titolo La fontana artificiosa, overo le glorie dell’arte). Fu inoltre membro di due delle più importanti accademie del tempo: gli Addormentati di Genova e gli Incogniti di Venezia. Ebbe intensi rapporti con molti dei principali letterati contemporanei; un volume manoscritto (Parma, Biblioteca Palatina, Parmense, 298) attesta scambi epistolari, tra gli altri, con Claudio Achillini, Anton Giulio Brignole Sale, Gabriello Chiabrera, Angelo Grillo, Gian Vincenzo Imperiale, Agostino Mascardi e Fulvio Testi.
Fedele alla tradizione della sua famiglia, Morando fu particolarmente devoto. Dopo la morte della moglie divenne sacerdote (come quattro dei suoi figli); non si conosce la data dell’ordinazione, avvenuta comunque tra l’inizio del 1652 e la metà del 1654. Compose diverse opere di carattere religioso, tra cui l’unica pubblicata in vita è la raccolta di Divozioni poetiche (Parma 1639).
Morì a Piacenza il 6 marzo 1656. Gli furono rese solenni onoranze funebri; nell’occasione, Carlo Bassi tenne un’orazione, dal titolo Le ombre dissipate (pubblicata in volume insieme con una miscellanea di poesie «nell’istesso soggetto»).
La sua fama in campo letterario è legata soprattutto al romanzo La Rosalinda (Piacenza 1650). Il successo dell’opera è testimoniato dall’alto numero delle riedizioni (almeno 23 fino al 1726; le prime due allestite nello stesso anno della princeps, a Milano e a Venezia), e dal fatto che ne sono stati tratti tre drammi musicali da Antonio Marchi, Francesco Folchi, e da un anonimo, rappresentati rispettivamente negli anni 1693, 1694 e 1699 (quest’ultima data non è del tutto sicura). Il romanzo ebbe una traduzione in francese, a opera di Gaspard- Moïse-Augustin de Fontanieu (Grenoble 1730), da cui fu tratta una versione anonima in inglese (London 1733). Nell’avviso ai lettori Morando mette l’accento, oltre che sulla verosimiglianza, sulla varietà del suo romanzo. La ricerca della varietà porta tra l’altro all’inserimento nel racconto di non poche liriche, pronunciate dai protagonisti, e di digressioni discorsive, veri e propri trattatelli su vari aspetti religiosi e politici. Il carattere non puramente narrativo della Rosalinda è confermato dalla presenza a conclusione dell’opera di un ricco indice delle «cose notabili» probabilmente interpretabile come segno di un «gusto enciclopedico, o meglio collezionistico, da museo» (Getto, 1962, p. 198). Anche all’interno della stessa narrazione è possibile rintracciare momenti molto diversi tra di loro, che comportano l’adozione di stili eterogenei (vengono ripresi elementi tanto dalla tradizione della letteratura epica quanto da quella amorosa). Le vicende, svolte secondo una trama complicatissima, ricca di colpi di scena e bruschi cambiamenti di prospettiva che rimandano al modello dell’Orlando furioso, sono ambientate in anni recenti, e hanno come sfondo eventi reali (tra cui, come segnala l’«Autore a chi legge», «le turbolenze dell’Inghilterra», ossia le contese civili tra Carlo I e gli anglicani, e «i movimenti del Turco»). Le tematiche principali affrontate direttamente o adombrate nel testo si riallacciano agli interessi sempre manifestati da Morando: emergono così forti istanze religiose, di chiara impronta controriformistica, e la rivendicazione orgogliosa del proprio ceto d’origine. Nella rappresentazione della società sono mescolati ambienti borghesi e aristocratici: per Morando, tra le due classi non si manifestano più differenze sostanziali quanto a ideali e stili di comportamento.
Pochi anni dopo la morte, venne stampata per la cura di due suoi figli un’edizione delle Opere (Piacenza 1662), divise in quattro tomi (Fantasie poetiche; Poesie dramatiche; Poesie sacre, e morali; Rosalinda). La raccolta comprende numerosi componimenti fino ad allora inediti o dispersi in pubblicazioni miscellanee, il che permette in particolare di restituire visibilità alla produzione lirica (contenuta nelle Fantasie, distinte in amorose, eroiche e varie), tutt’altro che secondaria nel quadro della scrittura di Morando. Si tratta di una poesia che si situa schiettamente nel filone marinista, di cui condivide temi, immagini e strutture retoriche e linguistiche. Notevole il fatto che la gran parte delle liriche sia corredata da un’introduzione in prosa volta a chiarire i concetti espressi nei versi; lo stesso avviene anche per le poesie sacre.
La fortuna di Morando conobbe un’eclissi pressoché totale tra Settecento ed ottocento. La ripresa d’interesse, cominciata a cavaliere tra otto e Novecento, ebbe una tappa fondamentale nella celebre raccolta dei Lirici marinisti di Benedetto Croce (Bari 1910), in cui lo spazio assegnatogli è pari a quello dedicato a poeti considerati fino ad allora ben più importanti. Presente in tutte le principali storie e antologie letterarie, l’unica altra edizione moderna di opere è le Vicende del tempo, a cura di V. Bonito, Bari 1997.
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