CANIGIANI, Bernardo
Nacque a Firenze il 21 sett. 1524 da Lorenzo di Matteo e da Lucrezia Morelli. Incline alle lettere, ricevette un'educazione molto accurata e per la sua precocità fu ammesso a soli sedici anni nell'Accademia fiorentina dove fu eletto più volte console, tenne diverse letture pubbliche e private commentando poesie del Petrarca (29 genn. 1541; 11 genn. 1543; 1º marzo 1543; 21apr. 1590) e lasciò un'esposizione manoscritta su un sonetto di Vittoria Colonna (Firenze, Bibl. naz., cod. XLII, cl. IX).
Entrò nella vita pubblica e nel febbraio 1550 fece parte degli Otto di balia. Nel 1552 si recò in Francia, forse in missione diplomatica. Nel 1564 fu inviato a Ferrara come ambasciatore residente presso il duca Alfonso II d'Este, con precise istruzioni di: "... ritrar ... il più che potrete ... della natura et humori di quello stato et della vita et attioni del Duca". (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del Princip., f. 2365, c. 61v). Vi giunse il 1º dicembre e due giorni dopo presentò al duca le sue credenziali.
Osservatore attento, paziente e meticoloso, durante i lunghi anni di permanenza nella città (1564-1579) il C. si attenne con scrupolo al compito affidatogli, non esitando ad informare il suo signore persino dei nomi dei detenuti per reati comuni e della disposizione degli invitati alle cerimonie più importanti: il suo carteggio fornisce un quadro minuzioso dell'ambiente in cui operava.
Per la sua vicinanza con Venezia e Milano e per i suoi rapporti con lo Stato pontificio, con Mantova e Savoia, Ferrara costituiva nel XVI secolo un centro di primaria importanza per conoscere tempestivamente gli atteggiamenti politici di questi Stati. La vita che vi si conduceva era quella tipica di una corte italiana del Cinquecento, sul cui scenario sfilano con monotona varietà sempre gli stessi avvenimenti: ricevimenti fastosi, solenni celebrazioni, cacce, giostre, danze, il carnevale, intrighi, gelosie e calunnie, le malattie dei signori, le nascite, le morti. Talvolta il rumore di vicende lontane sembra scuotere questa società brillante ed effimera: la rivolta delle Fiandre; le guerre di religione che insanguinano la Francia; la lotta con i Turchi, coi suoi repentini rovesci di fronte ed i febbrili preparativi dei Veneziani. Ma in un attimo la vita della corte riprende il suo corso e l'eco delle notizie svanisce nel vortice dei festini, dei balli, delle maschere. Di fatto la realtà quotidiana era molto più tragica ed il C. non manca di notarlo incidentalmente: la carestia: "...che colpisce soprattutto ebrei e povera gente..." (f. 2891, 1º agosto 1569), le alluvioni, le terribili pestilenze, gli assalti ai forni e ai carri del pane, l'odio malcelato per un governo dispotico e avido contrastano con l'esistenza felice dei nobili. Ma il fossato tra popolo e aristocrazia è facile a colmarsi: basta una calamità naturale, come il terremoto del 1570, perché in un momento alla gaiezza rinascimentale dei cortei succedano le preghiere, i lamenti e una "...processione con grande spavento e sbigottimento..." (f. 2892, 8 dic. 1570) che accomuna tutti in un unico terrore medievale ("...Quà passiamo con tanta maninconia il carnovale... Andiamo armandoci di prediche... nella compagnia della morte... che poco altro ci è che... non rovini..."; f. 2892, 23 febbr. 1571). Nella cronaca spesso giornaliera del C. l'aspetto più interessante è naturalmente quello che si riferisce alla vita politica di Ferrara e delle corti a lei vicine. Numerose sono le comunicazioni sugli spostamenti di truppe italiane e straniere nel Ferrarese e negli altri Stati, come pure sulle fortificazioni e le flotte allestite dai Veneziani. Il C. non manca di informare il suo signore dei contrasti tra la S. Sede ed Alfonso d'Este: in seguito alle eccessive pretese sui dazi del sale e sul rimborso dei prestiti per il suo acquisto, il papa giunse a vietare al suo vassallo addirittura di imporre dazi, provocando l'ira dell'Estense che ricorse invano presso la corte imperiale (ff. 2888, 7 marzo 1564; 2890, 11 ag. 1567). Quando poi Pio V ebbe pubblicato la bolla che interdiceva l'investitura di feudi ecclesiastici ai figli illegittimi (23 maggio 1567) impedendo così la successione alla casa d'Este, l'ostilità divenne manifesta ed Alfonso tentò ancora senza successo di appellarsi all'imperatore. Irritato dalla concessione a Cosimo de' Medici del titolo di granduca a cui egli stesso aspirava, non tralasciò occasione per intralciare l'opera del pontefice, cercando nuovamente di far intervenire l'imperatore in suo favore: tuttavia anche in questo caso le manovre non ebbero fortuna, nonostante la venuta a Roma di ambasciatori tedeschi (f. 2892, 8 maggio 1570). Anche i rapporti tra Ferrara e l'Impero costituiscono un capitolo significativo: il C. testimonia, in una serie di lettere, che nel maggio del 1566 il duca volle a tutti i costi partecipare alla guerra in Ungheria contro Solimano II, nonostante i malumori dei suoi sudditi ed il parere sfavorevole dell'imperatore stesso, che avrebbe preferito un aiuto in danaro: partito a capo di un piccolo esercito, l'Estense arrivò tardi sul teatro degli avvenimenti e dovette ritornare indietro nel mese di dicembre, con molte perdite e spese senza aver quasi combattuto (f. 2889, lettere dal 6 maggio al 20dic. 1566). Di rilievo sono anche le indicazioni sui diversi rappresentanti della casa d'Este, come ad esempio il cardinal Luigi.
Accanto al suo ruolo di informatore il C. svolgeva compiti di normale attività diplomatica, incontrandosi periodicamente con esponenti della corte e col duca. Nei confronti degli altri ambasciatori manteneva, conformemente alle istruzioni, un atteggiamento di prudente rispetto, privilegiando soprattutto le relazioni coi rappresentanti sabaudo e veneziano: con quest'ultimo anzi i rapporti erano continui, anche per ragioni commerciali, poiché Venezia intendeva assicurarsi cospicui rifornimenti di grano in vista della lunga guerra contro gli Ottomani. Il C. funse ripetutamente da mediatore, ragguagliando il suo signore sulle variazioni dei prezzi. Da un punto di vista più strettamente personale il soggiorno ferrarese non fu certo tranquillo: sofferente a più riprese per malattie ai reni, il C. andò incontro a spese notevolissime che, pur essendo legate alle sue funzioni, non sempre gli furono rimborsate. Nel terremoto del 1570, poi, perdette gran parte dei suoi averi e si trovò a lungo in condizioni assai precarie. Inoltre nel 1571 fu implicato in un'amara contesa col fratello, che approfittando della sua assenza voleva vendergli la casa, situata in via dei Bardi. La lite si trascinò per circa un anno ed alla fine le proteste del C. furono accolte.
L'esperienza più importante a Ferrara fu comunque l'amicizia con Torquato Tasso, presentatogli probabilmente dal padre nel gennaio del 1567. Il C. seguì con affettuosa premura la carriera del poeta: il 22 dic. 1571 comunicò al Granduca che il Tasso aveva tenuto il discorso inaugurale dell'Accademia ferrarese, lodandone lo stile; nel novembre 1575 rilasciò al poeta diretto a Roma una lettera commendatizia per p. Vincenzo Borghini; nel gennaio 1576 chiese al granduca, in nome del Tasso, un privilegio di 20 anni per la nuova versione della Gerusalemme, allora appena terminata, ottenendolo in breve tempo. Assistette nel febbraio del 1577 alla rappresentazione di una commedia del Tasso, in cui questi recitava nella parte del prologo e ne diede notizia al granduca l'11 marzo dello stesso anno: si trattava di un componimento scherzoso che ricalcava moduli della commedia dell'arte ed il cui testo non ci è purtroppo pervenuto. L'aggravarsi della malattia mentale dell'artista non pregiudicò le relazioni col C., che però sottolineò a più riprese i peggioramenti di "quel poverino del Tasso" (f. 2895, 26 novembre 1577); quando poi questi cercò di passare al servizio dei Medici nel 1578, egli interpose i suoi buoni uffici a Firenze, spiegando anche le penose condizioni in cui versava: rinchiuso nell'ospedale di S. Anna il poeta non poté tuttavia usufruire dell'intervento dell'amico.
Alla fine del maggio 1577 il C. venne inviato in missione presso la corte imperiale: il 1º giugno era a Innsbruck, dove incontrò l'arciduca Ferdinando (3 giugno); il 10 raggiunse Monaco per parlare con l'arciduca Carlo. Agli inizi di novembre era di ritorno nella sua sede, in cui nel frattempo era stato sostituito dal figlio Lorenzo. Coadiuvato da quest'ultimo rimase ancora a Ferrara sino al marzo del 1579, rientrando successivamente a Firenze.
Durante la sua permanenza presso gli Estensi il C. non aveva trascurato le sue ambizioni politiche e il 4 ag. 1568 era stato eletto senatore. Tuttavia la sua sicura esperienza lo accreditava per un'altra attività: così alla fine del 1579 fu inviato ambasciatore residente in Spagna, dove soggiornò sino all'aprile 1583.
Il carteggio dalla nuova sede è certo meno fitto di quello ferrarese, ma senza dubbio di maggior rilievo: da un osservatorio come quello spagnolo, al centro della politica internazionale egli poteva seguire gli avvenimenti con una prospettiva ben più ampia. Spicca su tutto in quegli anni l'annessione del regno di Portogallo, coi suoi retroscena e le sue conseguenze: il C. informa, non senza manifestare simpatie per la monarchia spagnola, che l'opposizione portoghese al nuovo sovrano aveva salde radici popolari, mentre il clero e parte della nobiltà appoggiavano Filippo II. L'invasione fu preceduta da intense trattative per evitare spargimenti di sangue, ma alla fine l'impetuosa volontà del re e degli aristocratici spagnoli prevalsero ed il Portogallo fu occupato militarmente, nonostante l'ostilità di Francia e Inghilterra. A tale impresa non mancò lo strascico dell'opposizione dei nobili più conservatori e di gran parte della popolazione che appoggiò numerose congiure. Oltre a quest'episodio, il C. fornisce indicazioni "sulle manovre diplomatiche di altri Stati (principalmente Francia e Savoia) e su diversi personaggi della corte, come ad esempio il duca d'Alba, di cui viene puntualmente registrato il declino dopo il momentaneo trionfo alla testa dell'impresa lusitana.
Naturalmente al C. non vengono meno le capacità di attento osservatore ed anche in queste lettere abbondano i particolari e la cronaca quotidiana. A contatto con una realtà così diversa da quella italiana, però, ogni particolare acquista significato: lo sfarzo esasperato e lugubre della corte e delle chiese, le favolose ricchezze delle colonie, le rivolte dei moriscos in Andalusia, la cupa diffidenza e la tragica severità dell'Inquisizione, l'ambiguo fascino per la funerea figura di Filippo II.
Nel corso di un breve soggiorno fiorentino, mentre ancora era ambasciatore a Madrid, il C. contribui a fondare l'Accademia della Crusca (1582) assieme ad A. Graziani, G. B. Deti, B. Zanchini e B. de' Rossi: in essa egli prese il nome di Gramolato.
Dopo il ritorno definitivo a Firenze nell'estate del 1583, le notizie sulla sua vita si diradano: nel novembre 1587 fu inviato ancora una volta a Ferrara per presentare le condoglianze dei Medici per la morte di Alfonso marchese di Montecchio. Nel gennaio 1594 partecipò ad una lunga seduta (24-27 gennaio) del Senato fiorentino, sostenendo che non sipoteva legiferare in materia di manomorta ecclesiastica senza il consenso della S. Sede. Nel 1599 pubblicò a Verona un componimento comico in versi (Il Gramolato Accademico della Crusca a messer Bernardo Vecchietti. Canzone a ballo, Verona, Fr. dalle Donne & S. Varguaro, 1599).
Morì il 15 sett.1604 e fu sepolto nella chiesa di S. Felicita.
Fonti e Bibl.: Una vita ms. anonima del C. è conservata alla Biblioteca nazionale di Firenze, cod. XLII, cl. IX, ad Indicem. La sua corrispondenza diplomatica è nell'Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, filze 665, 2888-2896. Una lettera ed alcuni estratti di altre missive da Ferrara sono in Carte Strozziane, s. 1, XLI, n. 9, CXX. Nel British Museum di Londra èun epistolario con Piero Vettori (cfr. D. Giannotti, Lettere a P. Vettori, a cura di R.Ridolfi-C. Roth, Firenze 1932, pp. 166, 178, 181). S. Salvini, Fasti consolari dell'Acc. fioren., Firenze 1717, pp. 100 ss.; G. Manni, Serie de' senat. fiorentini, Firenze 1722, p. 24; A. Solerti, Vita di T. Tasso, I, Torino-Roma 1895, pp. 117 s., 121, 136, 181, 215, 219, 246, 256 s., 279, 285; M. Del Piazzo, Gli ambasciatori toscani del Principato (1537-1737), Roma 1953, pp. 26 s., 80, 109, 134; A. D'Addario, Aspetti della Controriforma a Firenze, Roma 1972, p. 541.