ATTOLICO, Bernardo
Nato a Canneto di Bari il 17 gennaio 1880 da Lorenzo, si laureò in giurisprudenza presso l'università di Roma nel novembre 1901, e due anni dopo conseguì la nomina a professore di economia e finanza negli istituti tecnici. Entrato nel Commissariato dell'emigrazione, fu destinato nel 1907 negli Stati Uniti d'America come ispettore d'emigrazione, poi nel 1911 venne incaricato di una missione speciale in Canadà, e l'anno successivo fu richiamato in Italia quale ispettore d'emigrazione per l'intemo del regno. Sempre nel 1912 venne incaricato del servizio di assistenza per i profughi dalla Turchia. A questi anni risalgono alcuni brevi scritti dell'A. in tema di emigrazione, nei quali affrontava specialmente il problema della preparazione professionale degli emigranti e della lotta contro il loro analfabetismo.
Alla vigilia della guerra, nel 1914, fu nominato segretario della Commissione reale per i trattati di commercio, incarico che costituì una svolta per la sua carriera. Entrata infatti l'Italia in guerra, l'A. fu inviato a Londra quale rappresentante del ministero di Agricoltura, Industria e Commercio presso la Commission internationale de ravitaillement. Nel 1916 diveniva rappresentante italiano nel Wheat Executive di Londra; richiamato a sua domanda in servizio militare, fu ancora destinato a Londra quale capo della delegazione civile italiana per gli acquisti di guerra. Successìvamente, in connessione con tale incarico, l'A. rappresentò l'Italia nel War Purchase and Executive e nell'Albed Maritime Transport Executive.
Questi incarichi, assolti con competenza ed efficienza, dovevano esercitare una imprevista influenza sullo sviluppo della carriera dell'Attolico. In effetti, oltre a formarsi una preziosa esperienza internazionale, egli venne a trovarsi, a partire dall'autunno 1917, nella ricerca di aiuti economici e di approvvigionamenti all'Italia dopo Caporetto, in contatto diretto con il ministro del Tesoro F. S. Nitti, che lo appoggiò in modo particolare. Così che, quando Nitti divenne presidente del Consiglio, decise di utilizzare l'A. anche per compiti di carattere diplomatico.
L'A. intanto era stato, nel 1919, nominato consigliere tecnico della delegazione italiana alla Conferenza della pace e quindi delegato supplente dell'Italia nel Conseil supréme economique della stessa Conferenza, facendosi particolarmente apprezzare dai rappresentanti alleati. Nel settembre 1919 veniva infine inviato come commissario generale per gli affari economici e finanziari italiani negli Stati Uniti.
L'incarico aveva un preciso significato nel quadro della politica del nuovo governo Nitti, poiché nel pensiero del presidente del Consiglio l'A., pur non avendo pel momento mansioni diplomatiche, doveva, per le sue qualità tecniche e per la conoscenza del mondo anglosassone, contribuire a stabilire in America quella nuova linea di politica estera - superamento del patto di Londra, sulla base di una piena collaborazione ideologica ed economica con Washington - che Sonnino aveva sostanzialmente e lungamente avversato.
Nel consiglio dei ministri del 20 nov. 1919 l'A. veniva nominato inviato straordinario e ministro di 2ª classe: entrava dunque nella carriera diplomatica, con un rango elevato, a soli 39 anni.
Tale ingresso doveva naturalmente suscitare qualche reazione negli ambienti tradizionali di palazzo della Consulta. Nessuno avrebbe potuto prevedere allora che questo giovane capo missione, il quale non aveva percorso la tradizionale trafila del concorso ordinario, sarebbe finito per divenire uno dei rappresentanti più autorevoli e stimati della "carriera". Solo col tempo la sua personalità e le sue attitudini di diplomatico avrebbero potuto consentirgli di affermarsi così decisamente in un ambiente tanto difficile.
Il ministero degli Affari Esteri gli affidò compiti tecnici in un organismo nuovo: la Società delle nazioni. Nell'ottobre 1920 l'A. venne inviato a Ginevra, ove assunse la direzione della sezione transito del Segretariato della Società. Dopo due soli mesi, nel dicembre, venne destinato dallo stesso organismo internazionale quale alto commissario a Danzica, ove rimase sino a tutto il gennaio 1921, per ritornare a Ginevra quale direttore della sezione armamenti della Società delle nazioni. Nel 1922 l'A. venne nominato vicesegretario generale della Società, posto che tenne con particolare autorità e competenza per circa quattro anni. Sin dal 17 apr. 1924 era promosso inviato straordinario e ministro plenipotenziario di la classe, ma solo nel febbraio 1927 assunse la direzione di una ambasciata, con la promozione al grado di ambasciatore e la destinazione a Rio de Janeiro. Come capo missione la personalità dell'A. ebbe modo di affermarsi più compiutamente. Dopo una permanenza di soli tre anni in Brasile, venne trasferito a Mosca (12 maggio 1930). Qui l'A. riusciva a conciliare il suo ideale, di affidare la risoluzione delle controversie internazionali a piani di garanzie supemazionali e ad accordi bilaterali, con il particolare momento della politica estera fascista, e poteva così negoziare e portare a felice conclusione la stipulazione di un patto di amicizia italo-sovietico (2 sett. 1933) preceduto (6 maggio) da accordi economici.
L'A. entrava così nel vivo della politica internazionale europea, della quale aveva fatto larga esperienza nell' "osservatorio" ginevrino, e si trovava d'altra parte a dover seguire le direttive della politica estera fascista: ne era sino ad allora, salvo l'affare di Corfú mentre era a Ginevra, rimasto ai margini. Durante la permanenza in Russia, per l'inconciliabilità tra i due regimi, fascista e comunista, il suo compito non fu facile: tuttavia seppe sfruttare, in un indirizzo generale di politica distensiva e di intese in Europa, sia l'azione del commissario agli Esteri M. Litvinov per un inserimento dell'URSS nella vita intemazionale, sia la tendenza di Mussolini ad appoggiare ogni accordo coi paesi dell'est europeo per un sistema di sicurezza.
Il 26 luglio 1935 l'A. succedeva a V. Cerruti nella direzione dell'ambasciata di Italia a Berlino.
Anche nella nuova sede l'attività dell'A. si volse alla ricerca di un miglioramento delle relazioni fra il paese presso il quale era accreditato e l'Italia; ispirandosi a un classico principio della diplomazia europea, egli volle considerare lo stato hitieriano come erede e continuatore dell'impero guglielmino e della repubblica di Weimar, e pertanto trattare con esso per inserirlo in un sistema di garanzie fra le potenze europee. I negoziati che portarono alla sottoscrizione degli accordi di Berlino (ottobre 1936), dai quali ebbe vita l' "asse Roma-Berlino", furono uno dei primi risultati del suo lavoro e dei suoi scopi: cointeressare l'Italia alle vicende medioeuropee e acquisire l'amicizia di un paese di crescente importanza come la Germania. Ciò non gli impediva di riferire ampiamente a Roma sulle condizioni interne create dal nuovo regime.
Meno sensibile però ai problemi ideologici che orientavano gli atteggiamenti dei due dittatori, l'A. credette di poter allargare l'azione diplomatica dell'Asse sino a fame partecipe l'Inghilterra: un accordo del Terzo Reich con questa fu, sino allo scoppio del conflitto, una sua fervida speranza, anche quando ciò non rientrava più nelle direttive della politica di Mussolini. L'impostazione volutamente priva di carica ideologica che l'A. si sforzava di dare all'avvicinamento italo-tedesco gli fece osteggiare decisamente, nell'ottobre 1937, l'iniziativa di Ribbentrop, allora ambasciatore tedesco a Londra, per un allargamento all'Italia del patto nippotedesco "anticomintem". La sua avversione non era tanto dettata dal modo usato da Ribbentrop di trattare direttamente con Roma scavalcando i normali canali diplomatici, quanto piuttosto dalla preoccupazione a vedere avviata una politica estera su rapporti tra regimi e non fra Stati.
La posizione dell'A. a Berlino diveniva più difficile allorché, con i mutamenti nelle alte gerarchie naziste, avvenuti il 4 febbr. 1938, lo stesso Ribbentrop assumeva il portafoglio degli Esteri, mentre veniva allontanato il von Neurath, esponente della tradizione della Wilhelmstrasse; si iniziava così anche il suo cauto e diffidente atteggiamento nei confronti del crescente espansionismo nazista. Mentre continui e frequenti contatti con gli esponenti del gruppo dirigente nazista e con lo stesso Hitler gli permettevano di inviare a palazzo Chigi lucidi rapporti sui veri obbiettivi delle politica tedesca, l'A. continuava a mantenersi in relazione con i rappresentanti ancora in carica della vecchia tradizione diplomatica tedesca, in particolare col sottosegretario von Weizsácker, oltre che con i diplomatici più in vista a Berlino, il britannico Henderson, il belga Davignon, il francese Coulondre.
In questa linea si inserisce l'attività svolta dall'A. in occasione della crisi dei Sudeti. Il risultato della Conferenza di Monaco (settembre 1938) è probabilmente legato alle informazioni che l'A. seppe raccogliere alla Wilhelmstrasse circa gli obiettivi perseguiti dalla Germania in Cecoslovacchia: fu precisamente un appunto dell'A. a Mussolini quello che forni la base delle proposte presentate dal capo del governo fascista a Monaco. Hitler, che nel frattempo aveva mutato avviso ed era maggiormente propenso a risolvere con le armi la crisi, non osò respingere il progetto di Mussolini e la Conferenza fu così avviata su di un binario pacifico.
L'allineamento italiano con gli orientamenti nazisti si era intanto andato pronunciando, manifestandosi anche con certe forme di rapporti come, ad esempio, l'intensa spola di alti e meno alti funzionari fascisti fra Roma e Berlino, mentre il ministro degli Esteri Ciano era sostanzialmente deciso all'alleanza con la Germania e poteva controllare l'azione dell'ambasciatore attraverso il primo consigliere d'ambasciata a Berlino, M. Magistrati, proprio cognato. Nel periodo tra l'autunno del 1938 e la primavera dei 1939, pur scrivendo pagine di riflessiva e talora spietata critica verso la politica del Reich, l'A. seguiva l'indirizzo di Roma, e considerava con favore l'idea dell'alleanza con la Germania, ritenendo che un accordo formale avrebbe conferito al governo italiano un titolo giuridico per frenare le pericolose iniziative di Hitler. Era, questa purtroppo una semplice illusione, e l'A., quando si accorse dell'errore, fu il più efficace sostenitore della necessità di separare la politica fascista da quella nazista.
Nella preparazione del "patto d'acciaio" l'A. si sforzò di non allontanarsi dal terreno dell' "egoismo nazionale", facendo apparire come condizioni dell'alleanza la questione economica e quella dell'Alto Adige, anche al di là delle istruzioni ricevute; e per questa seconda soprattutto lavorò intensamente. Ma già in questa fase dei negoziati, verso la fine dell'aprile, l'A. denunciava a Roma come imminente l'azione tedesca contro la Polonia: era l'inizio di una serie ripetuta e crescente di avvertimenti e di allarmi sui preparativi di guerra, proprio mentre palazzo Chigi si era tranquillizzato credendo di aver allontanato con la alleanza il pericolo di una conflagrazione.
Dal giugno all'inizio di agosto l'attività dell'A. è tesa a convincere da una parte Ciano della gravità della minaccia, dall'altra ad impostare con gli ambasciatori occidentali una azione comune per il mantenimento, della pace. Sfruttando le proprie relazioni dell'epoca ginevrina, e la particolare conoscenza del problema di Danzica, egli cautamente insisteva presso i Polacchi per un atteggiamento non rigido verso la Germania. Solo coll'incontro di Salisburgo con Ribbentrop (11-13 agosto), Ciano comprese le ragioni delle apprensioni dell'A. e cercò di adoperarlo per evitare una compromissione italiana con la Germania.
Durante la crisi dell'agosto 1939 l'A., stanco e malato, impegnò tutte le proprie energie in quello che gli parve il maggior compito della sua carriera, mantenere l'Italia al di fuori della guerra. La sua insistenza e tenacia fecero breccia su Mussolini e furono alle origini della decisione italiana di non belligeranza. In particolare l'A., presentando le già enormi richieste italiane come condizione della partecipazione alla lotta, di sua iniziativa calcò la mano chiedendo l'immediato e pertanto impossibile soddisfacimento.
Dopo lo scoppio del conflitto l'A. continuò a spedire a Roma rapporti di particolare interesse, nonostante la crescente ostilità del governo nazista che cercava di tenerlo isolato. A lui si debbono gli espliciti avvertimenti che il Belgio ricevette circa i progetti hitieriani di invasione e che contribuirono in misura non trascurabile al rinvio dell'attacco tedesco. Sin dal novembre 1939 si cominciò da parte tedesca a tastare il terreno a Roma per un richiamo dell'A. Richiamato alla fine di aprile 1940 l'A. non era più a Berlino allorché l'Italia entrava in guerra a fianco dei Tedeschi.
Nominato ambasciatore presso la S. Sede, passando - come ebbe a dire in quella occasione - "dal diavolo all'acqua santa", svolse i nuovi compiti riscuotendo lusinghiere valutazioni. In questo periodo, a riconoscimento dei suoi meriti. fu insignito del titolo di conte.
L'A. era ancora in servizio presso il Vaticano quando morì a Roma, il 9 febbraio 1942.
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