DONATO, Bernardino (Bonturello)
Nacque nell'ultimo ventennio del sec. XV a Castel d'Azzano (Verona), terra della nobile famiglia Nogarola. Sulla sua formazione non si sa nulla; si può tuttavia ipotizzare che egli fosse legato fin dall'infanzia al conte Ludovico Nogarola, suo coetaneo ed amico, e che vi sia stata una qualche comunanza nei loro studi di greco e di latino.
Il D. iniziò la carriera di maestro di grammatica e retorica a Carpi, alla corte dei Pio; fu precettore di Rodolfo Pio e tenne probabilmente anche pubblica scuola. Uno dei suoi primi allievi fu il romano Giovanni Francesco Bini, che entrò al servizio della Curia papale nel 1509: tale data costituisce dunque il termine ante quem per il primo insegnamento del Donato. In una lettera a Giambattista Mentebuona il Bini chiama il suo maestro "Bernardino Donato Bonturello"; il nome Δωνᾰτος Βονυρέλλιος ritorna anche nella sottoscrizione del manoscritto greco dell'Escurial Ω I.1, in cui il D. trascrisse l'Almagesto di Tolomeo da un manoscritto di Alberto Pio, datandolo giugno 1523. A parte questi due casi, il nome Bonturello non fu più usato né dal D. né dai suoi corrispondenti.
L'attività presso i Pio valse al D. una buona fama di retore e di maestro. Prima del 1526 egli ritornò a Verona e il 4 gennaio di quell'anno fu condotto alla cattedra di letteratura greca nello Studio di Padova, come successore di Romolo Amaseo. Vi lesse però un solo anno. Insoddisfatto dello stipendio troppo basso (appena 100 fiorini, contro le varie centinaia assegnate ai legisti e a taluni medici) preferì una condotta di lettore d'umanità a Capodistria. Il 2 nov. 1527 Pietro Bembo, suo corrispondente, tentò di convincere il riformatore dello Studio di Padova Marino Zorzi dell'opportunità di richiamarlo offrendogli un aumento, ma la mediazione fallì. Anche la condotta a Capodistria fu però breve: il D. vi rimase infatti solo fino agli inizi del 1528. Nel frattempo la fama dei suo insegnamento e probabilmente anche la protezione del Bembo gli aprirono una nuova attività nell'editoria umanistica veneziana: nel 1527 il D. curò per Andrea Torresani l'edizione delle opere del grammatico Prisciano, e l'anno seguente pubblicò, sempre per il Torresani, Macrobio e Censorino. All'esordio "in aedibus Aldi" seguirono altre importanti committenze. Il D. fu sia editore sia traduttore di autori greci e latini, e le sue competenze si allargarono dalla grammatica alla patristica, alla medicina e alla filosofia. A differenza di altri retori, egli non abbracciò'però la carriera del poligrafo consulente editoriale. ma volle restare sempre maestro d'umanità: non a caso il Prisciano fu dedicato agli studiosi dell'arte grammatica.
Da Capodistria il D. tornò nel gennaio 1528 a Verona, dove il Bembo lo consultò sulla traduzione di un'iscrizione greca inviatagli da Giambattista Ramusio. Il suo ritorno fu sollecitato dal vescovo di Verona Gian Matteo Giberti, che lo assunse al proprio servizio esentandolo per tre anni dall'insegnamento. Proprio nel 1528 infatti il Giberti fece venire da Venezia i tipografi Nicolini da Sabbio ed impiantò nel palazzo vescovile una stamperia dotata di caratteri greci e latini: essa doveva fornire i testi evangelici e patristici su cui il vescovo intendeva fondare un programma di rinnovamento del clero non limitato agli aspetti morali e disciplinari, ma teso a ritrovare le istanze evangeliche della vita religiosa. Il D. fu chiamato a curare la prima impresa della tipografia vescovile: il commento di s. Giovanni Crisostomo alle epistole di s. Paolo, condotto su codici greci provenienti dalla' biblioteca del Bessarione e seguito dal Giberti - come il D. ricorda nella dedica a Clemente VII - con inesauribile scrupolo filologico. In tre volumi in folio, ultimati il 28 giugno 1529, l'opera fu accolta con vivo interesse anche da Erasmo. Per il Giberti il D. curò poi due operette di s. Giovanni Damasceno: l'Editio orthodoxae fidei e il De hiis qui in fide dormierunt, sempre in greco, ultimate nel maggio 1531 e dedicate pure a Clemente VII; il secondo dei due testi fu tradotto in latino da Ludovico Nogarola e ripubblicato dai Nicolini. Nel febbraio 1532 uscì poi, sempre per le cure del D., l'edizione principe del testo greco di Ecumenio e Areta sull'Apocalisse, dedicata ancora una volta a Clemente VII. Come letterato al servizio del vescovo, il D. tenne anche l'orazione funebre in onore del conte Ludovico Canossa, vescovo di Bayeux e Tricarico, morto a Verona il 31 genn. 1532; stampata sine notis, essa è però riconducibile all'officina vescovile.
Le cure editoriali non distolsero tuttavia il D. dai suoi preminenti interessi di maestro: il 23 dic. 1529 infatti i Nicolini finivano di stampare una Grammatica latina in volgare anonima, ma attribuita al D. da Apostolo Zeno e da tutti gli studiosi successivi.
Nella prefazione il D. rilevava come il volgare fosse orinai in uso nella manualistica di retorica, aritmetica, geometria, astrologia, medicina, filosofia, teologia e molte altre scienze e come fosse già stato applicato alla grammatica della lingua volgare: gli sembrava perciò opportuno usarlo anche per la latina, "non forse men necessaria di quell'altra", e si scusava che la finalità didattica gli impedisse di osservare tutte le regole del volgare. Grammatiche latino-italiane in italiano e grammatiche latino-francesi in francese erano apparse già dal sec. XIII, ma in età umanistica si era ritornati all'uso generalizzato del latino. La grammatica del D. fu la prima grammatica latina in volgare; ed è ispirata ai principi di divulgazione del volgare della cerchia del Bembo e soprattutto di Giangiorgio Trissino (P. Floriani, Grammatici e teorici della letteratura volgare, in Storia della cultura veneta, III, 2, Vicenza 1980, pp. 139-181). Nel dibattito sulla "questione della lingua" l'opera del D. rimase però isolata ed una seconda grammatica latina in volgare apparve solo undici anni dopo: la De primi principii della lingua romana di Francesco Priscianese (Venezia, Bartolomeo Zanetti, 1540).
Dopo un triennio di attività editoriale, il D., pur rimanendo al servizio del Giberti, ritornò all'insegnamento. Il 16 febbr. 1532 il Consiglio di Verona lo chiamò a reggere la pubblica scuola d'umanità con salario di 100 ducati; il 6 marzo dello stesso anno fu stabilito che egli tenesse tre lezioni al giorno, di cui una di greco, e lo si autorizzò ad insegnare anche privatamente, purché non chiedesse agli allievi veronesi più d'uno scudo all'anno; il 19 aprile gli fu assegnato come sede delle lezioni pubbliche un locale del palazzo comunale.
Nel 1532 i Nicolini chiusero l'officina veronese e tornarono a Venezia. Anche il D., terminato così il servizio presso il Giberti, preferì cercare un incarico più remunerativo di quello offertogli dal Comune di Verona. Nel 1533 accettò perciò una nuova condotta a Parma, con stipendio di 241 lire imperiali, aumentate quasi subito a 275, e alla città dedicò l'orazione De laudibus Parmae (Parma, Antonio Viotto, 1533). Quanto rimase a Parma non è noto.
Nel 1536 riavviò contatti con la tipografia veneziana: tradusse le Evangelicae demonstrationes di Eusebio (Aurelio Pincio, marzo 1536) e poi, abbandonando la patristica, curò per Ottaviano Scoto il De cognoscendis curandisque animi morbis di Galeno (1538) e tradusse l'Oeconomicus di Senofonte, approntandone anche il testo greco (Bernardino Vitali, 1ºag. 1539).
Nelle dedicatorie delle prime due opere, a papa Paolo III e a Galeazzo Florimonte, è vivo il ricordo del Giberti; il Senofonte fu invece dedicato al patrizio veneziano Marcantonio Da Mula, conosciuto nell'estate 1538 a Cornedo, nel Vicentino.
Probabilmente in quella occasione il Da Mula lo presentò al Trissino e si adoperò in seguito per ottenergli una condotta a Vicenza. Il D. vi giunse infatti proprio nel 1539, successore di Fulvio Pellegrino Morato da Mantova e condotto per cinque anni con stipendio annuo di 100 ducati; doveva tenere due lezioni al giorno su autori latini e due lezioni alla settimana su autori greci; poteva insegnare anche privatamente, ma non doveva chiedere agli allievi vicentini più di 2 lire al mese. A Vicenza tradusse gli Oeconomica pseudoaristotelici (Venezia, Girolamo Scoto, 1540, col testo greco) e il De platonicae atque aristotelicae philosophiae differentia libellus di Giorgio Gemisto Pletone (ibid., 1540; Parigi, s.t., 1541, col testo greco), dedicati entrambi al suo ex allievo Rodolfo Pio, vescovo di Faenza e cardinale. Fu probabilmente il diffuso interesse vicentino per l'architettura a suggerirgli inoltre una traduzione in volgare di Vitruvio, ma essa andò perduta quasi subito.
Nel 1542, mentre anche Milano avviava trattative per una condotta, il D. tornò a Verona, chiamatovi dalle parti del Consiglio del 3 e 14 aprile: doveva tenere tre lezioni al giorno di greco e di latino, con stipendio annuo di 150 ducati. Iniziò l'insegnamento il 17 aprile, ma morì prima del 17 ag. 1543: in tale data infatti la vedova Francesca, anche a nome dei figli, otteneva dal Consiglio che le fosse continuato lo stipendio per l'anno in corso. Gli successe il suo discepolo Matteo Bovio.
Nonostante la modesta e poco lucrosa carriera, il D. diede agli studi d'umanità contributi solidi e duraturi: forni al vescovo Giberti una consulenza filologica fondamentale, guidò gli studi del Nogarola e di altri letterati, tra cui Ortensio Lando, applicò per primo il volgare alla didattica del latino. La sua versione degli Oeconomica rappresentò un progresso rispetto alla recensio Durandi e fu adottata nell'edizione giuntina del 1550-1552 ad integrazione del testo fissato da Leonardo Bruni.
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