VARCHI, Benedetto
Storico e umanista. Nato a Firenze il 19 marzo 1503, morto nella stessa città il 18 dicembre 1565. Suo padre, ser Giovanni, procuratore dell'arcivescovado, era fiorentino, ma la famiglia oriunda di Montevarchi. Benedetto fece i suoi corsi di umanità sotto la guida di Gaspare Mariscotti da Marradi; a 18 anni andò a Pisa a studiare giurisprudenza e divenne procuratore e notaio. Ma mortogli il padre e rimasto erede di una notevole sostanza, si dedicò esclusivamente alle lettere. Apprese da Pier Vettori il greco e si erudì nel provenzale. Al tempo dell'assedio lasciò Firenze e sì recò a Bologna, dove assistette all'incoronazione di Carlo V. Tornato in Toscana nel '32, seguì gli Strozzi, riuscì a salvarsi a Montemurlo e, sebbene a malincuore, partecipò all'impresa di Sestino. Con gli Strozzi si rifugiò a Venezia, dov'ebbe incarico d'istruire i fratelli di Piero. Licenziato per odiosi sospetti, si recò nel 1540 a Padova, dove frequentò lo studio, e fu ammesso nell'Accademia degli Infiammati, fondata dal vescovo Leone Orsini. Da Padova passò a Bologna, e vi seguì le lezioni di Ludovico Boccadiferro, del quale divenne amico. In queste sue peregrinazioni aveva dato fondo alla sua sostanza, e quando il duca Cosimo lo richiamò in Firenze con buona provvisione, non esitò a farsi, di ribelle, cortigiano. In questa sua decisione dovette influire, oltreché la minaccia della povertà e il desiderio di tornare in patria, l'ammirazione che l'energia del giovine principe ispirò nella maggior parte degli umanisti. L'8 marzo 1343 fu aggregato all'Accademia Fiorentina, nella quale lesse per molti anni Dante e il Petrarca. Nel 1545, arrestato dagli Otto e condannato per un turpe reato (la sua colpevolezza, sebbene ancora discussa, appare probabile) fu per intercessione d'illustri personaggi, tra i quali il Bembo, graziato da Cosimo. Il quale gli rese subito il suo favore: oltre a farlo eleggere nello stesso anno consolo dell'Accademia, gli affidò l'incarico di pronunziare diverse orazioni funebri e, tra queste, quella della madre, Maria Salviati. Nel 1547 gli diede anche commissione di comporre una Storia fiorentina dal 1527 al 1530. Quando scoppiò la guerra di Siena, o che il suo contegno facesse sospettare a Cosimo un ritorno alle antiche tendenze, o che questi fosse venuto a conoscenza di certi passi della Storia che non potevano piacergli, il V. si vide tolto il benefizio di S. Gavino e la provvisione. Ma la sua disgrazia non fu che momentanea. Nel 1558 ebbe dal duca in dono la villa della Topaia nel fiorentino. A 62 anni ottenne la propositura di Montevarchi, ma prima che potesse prenderne possesso, morì improvvisamente.
Il V. è una delle figure tipiche del Cinquecento italiano: uomo d'ingegno vivace ma non profondo, di cultura vasta ma superficiale, di carattere buono ma fiacco. Ebbe una memoria prodigiosa e fu giudicato buon filosofo, sebbene le sue idee non avessero nulla di originale. In politica fu un moderato, e dopo molte esitazioni dottrinali sulla scelta del miglior governo, non ebbe difficoltà ad acconciarsi coi Medici e ad accettare il principato. Ciò che non gli fece perdere l'amicizia dei fuorusciti, la maggior parte dei quali non avevano un carattere più forte del suo. Fu sincero credente, anche se volle conciliare la sua fede coi postulati delle antiche filosofie, e negli ultimi anni inclinò all'ascetismo, ma il suo pensiero politico non si allontana da quello dei realisti del tempo.
Moltissimo scrisse il V. in versi e in prosa. Piuttosto che poeta, egli può dirsi un abile e facile verseggiatore. I suoi Sonetti, composti sulla falsariga del Bembo, non superano il livello degl'innumerevoli petrarchisti contemporanei; i migliori di essi sono i pastorali, per la grazia del dettato, gli spirituali per la fede sincera che li anima. Non degni d'altro che di semplice ricordo i Capitoli e Canti carnascialeschi, le tre egloghe, i versi latini, e alcune versioni in metri barbari. In prosa, oltre a diverse Orazioni commemorative, il V. compose Lezioni, che recitò all'Accademia Fiorentina, molte delle quali su Dante e sul Petrarca. Varî sono i giudizî sul suo valore come filologo e come critico. E da riconoscergli il merito di aver migliorato la lezione aldina della Commedia, preparando un testo di cui si giovò in seguito la Crusca. È vero che negò a Dante la paternità del De Vulgari Eloquentia (opinione del resto assai diffusa al suo tempo) e antepose il Girone Cortese al Furioso, ma non può negarsi acume critico a chi, come il V., richiesto dal Cellini di rivedergli la Vita e di correggerne le mende di lingua e di stile, rispose che il "semplice discorso" di quell'opera gli soddisfaceva più in quel modo che "essendo rilimato e ritocco da altrui". Il V. prese parte anche alla famosa controversia sulla lingua e asserì la fiorentinità del volgare italiano. Il dialogo l'Ercolano, che doveva essere una difesa del Caro dagli attacchi del Castelvetro, non fu mai dal V. compiutamente elaborato. Così com'egli lo lasciò alla sua morte, è disordinato e confuso, pieno di digressioni non sempre opportune. Ma anche queste digressioni si leggono con interesse perché offrono un prezioso materiale per la storia del costume e del linguaggio parlato. Inoltre se la difesa del Caro è assai debole e la sitruttura dottrinale del dialogo è viziata dall'empirismo, non mancano, specie nella confutazione delle teorie trissiniane, geniali intuizioni, come quando si mette in rilievo il valore dell'uso quale elemento costitutivo della lingua.
Delle altre opere minori basti ricordare un'infelice commedia, la Suocera, imitazione dell'Hecyra di Terenzio, e la Grammatica della lingua provenzale, la quale non è che una traduzione del Donato provenzale.
Ma quelle che furono le più solide virtù dell'ingegno e del carattere del V., il senso realistico e l'amore della verità, trovarono la loro esplicazione nella sua opera più importante, la Storia fiorentina, la quale, divisa in 16 libri, va dal 1527 al 1538. Lo stile di questa non manca di difetti: studiata magniloquenza sulla traccia degli antichi, fiacchezza di dettato nonostante lo sforzo per sostenerlo ed ornarlo, monotonia e prolissità. Ma la materia è tratta con pazienti accurate indagini dai documenti, e dei documenti il V. sa servirsi quasi sempre con acuto discernimento, sicché il suo libro è per gli avvenimenti di quel periodo una fonte preziosa, e le ricerche più recenti son venute via via confermando molte sue affermazioni. Da rilevare anche la sua indipendenza di giudizio: in un lavoro commessogli dal duca Medici, egli non esita a condannare Clemente VII, a criticare Ippolito, e pronunziare severe parole sul conto di Alessandro, e dello stesso Cosimo non esagera mai le lodi.
I Sonetti furono editi a Firenze, 1555-57, un Saggio di rime, ivi 1832. Le Lezioni e altre prose raccolte a Firenze, 1841-42. L'Ercolano fu stampato la prima volta a Firenze, 1570; la Suocera, ivi 1569. L'epistolario è nella maggior parte inedito. La Storia fiorentina non fu pubblicata che nel 1721 a Firenze (con la data di Colonia). La migliore edizione moderna è quella di G. Milanesi, Firenze 1857.
Bibl.: L. Falcucci, Alcune osservazioni sulle storie del Nardi e del V., Sassari 1869; S. Debenedetti, B. V. provenzalista, Torino 1902; G. Manacorda, B. V.: l'uomo, il poeta, il critico, Pisa 1903; M. Lupo Gentile, Studi sulla storiografia fiorentina alla corte di Cosimo I, ivi 1905; id., Sulle fonti della storiografia fiorentina di B. V., Sarzana 1906.