BENEDETTO di S. Andrea
Alla paternità di un "Benedictus monachus" vissuto nel sec. X nel monastero di S. Andrea "in flumine" presso Ponzano, nella zona di monte Soratte, è tradizionalmente attribuito un Chronicon contenuto nel cod. Chigiano F. IV. 75, ai ff. 1r-58v, relativo agli anni compresi tra il regno di Giuliano l'Apostata e il 972.
Il nome di B. è fatto una sola volta nel corso del Chronicon e precisamente alla fine di un passo, desunto dalla Vita Karoli di Eginardo e dedicato a notazioni psicologico-somatiche sull'imperatore, con la sostituzione di alcune parole nei versi di Gerwardo che in alcuni codici della Vita Karoli chiudono la biografia eginardiana. Così anziché "Gerwardus supplex famulus, qui mente benigna" nel codice Chigiano si legge "Benedictus supplex famulus monaque", ecc. Si tratta evidentemente di elemento di importanza limitata per poter consentire con assoluta certezza un'identificazione, per lo meno nei termini di imperturbata tranquillità che contraddistinguono le informazioni solitamente fornite su B. da enciclopedie, repertori e manuali.
Si deve per altro notare che, tradizione storiografica a parte - che avvertiva comunque l'esiguità del fondamento su cui poggiava l'identificazione stessa (cfr. ad esempio Manitius, II, p. 181) -, non sembra possibile escludere a priori l'identificazione tradizionale. Il cod. Chigiano è l'unico che testimoni il Chronicon, e gli elementi paleografici, se non consentono ovviamente di parlare di autografo, fanno risalire la stesura del testo del codice agli anni tra il 972 e il 1000 (Zucchetti, p. XXI), epoca, cioè, che appare coeva all'autore: questo per dire che, in assenza di altre testimonianze contrastanti, si deve tener per buono quel "Benedictus". L'ipotesi di una cattiva lettura in quel punto dei versi di Gerwardo, con conseguente rifiuto dell'ipotesi di un'alterazione cosciente, sembra, allo stato attuale delle nostre conoscenze, assai improbabile. Non è infatti nemmeno possibile affermare che il cod. Chigiano sia apografo di un codice in cui i versi fossero riportati come si trovano in alcuni codici di Eginardo. Va inoltre osservato che, nel corso della sua narrazione, l'autore è capace, se non di atteggiamenti assolutamente originali - la sua dipendenza da Eginardo e dagli Annales regni Francorum è piuttosto larga -, almeno di notevoli doti "combinatorie". Basterebbe ad esemplificare questa sua abilità la famosa notizia di un viaggio di Carlo Magno in Terra Santa, la cui origine non pare chiara, anche se dall'Amati si è voluto vedere per essa una fonte "nei romanzieri della Tavola rotonda".
Ma, problema delle fonti a parte, la prima questione che si pone per la biografia di B. è quella relativa alla sua nazionalità: che, in assenza di elementi "documentari" oggettivi sul personaggio, ha trovato varia spiegazione all'interno dell'esame del Chronicon. Per un'origine franca ha deposto in senso nettamente - e ovviamente - favorevole il largo posto che nell'opera di B. hanno le vicende dei Carolingi e di Carlo Magno: del resto, se non la costruzione del monastero di S. Silvestro, attribuita dagli Annales regni Francorum e da Eginardo (rispettivamente ad annum 746-47 e cap. 2) a Carlomanno, ritiratosi a vita monastica sul Soratte, B. fa risalire allo stesso l'erezione del monastero di S. Andrea "iuxta fiumen": "quadam die iter peragens subtus montes Grifianello et invenit castrum antiquurn aquarium... reperto itaque consilio a fratribus de Babiano castro, quomodo aut qualiter hedificandum domum iuxta castrum monasterium donini principi apostolorum Petri et Sancti Benedicti et commemoratione Sancti Andree apostoli, usque in presentem diem." (ibid. p. 75).
Carlomanno ricevette in dono da papa Zaccaria, nel 747, il monastero sorattiano di S. Silvestro, concesso poi da Paolo I a Pipino nel 761-62 e restituito da quest'ultimo allo stesso Paolo 1 tra il 762 e il 767: ignota la sorte di S. Andrea, che Carlomanno aveva arricchito di donazioni e acquisti. Ma, secondo B., Pipino nel 763-64 e Carlo Magno nel 781 si sarebbero fermati a S. Andrea: e sempre Carlo nell'800 "monasterium Sancti Silvestri in montem Syrapti et ecclesia Sancti Stephani in Mariano per preceptum. in prephatum, monasterium Sancti Andree constituit et dona ampliaria fecit" (ibid., p. 106). Nell'804-5 Carlo "monasterium Sancti Andree apostoli munitatem concessit et in edictis Langobardorum affigi precepit" (ibid., p. 108); finalmente, di ritorno dall'immaginario viaggio in Terra Santa, Carlo avrebbe donato al monastero "aliquantulum reliquiarum de corpore sancti Andree apostoli" (ibid., p. 108). Ludovico il Pio considerò il monastero di S. Andrea come monastero imperiale, alla stessa stregua di S. Maria di Farfa e di S. Salvatore di Rieti.
La stessa ovvietà della spiegazione della larga parte fatta ai Carolingi nel Chronicon di un monaco di cenobio fondato e arricchito dai re franchi - e non si dimentichi che ampie lodi vengono pur fatte ad Alberico di Roma - si dimostra argomento reversibile circa la nazionalità di B., che poteva (e doveva) ricordare ampiamente i potenti personaggi che erano all'origine stessa del monastero: senza che perciò si debba ritenere che fosse franco come hanno creduto Amati, Gregorovius e Pertz. Così hanno peso almeno eguale le considerazioni di quelli che vogliono B. italiano (F. Bethmann, Die Geschichtschreibung der Langobarden, in Archiv der GeselIschaft ffir áltere deutsche Geschichtskunde, X [1851], p. 381; Zucchetti), in grazia delle sue osservazioni sui Longobardi e "della maniera con cui parla dell'Italia e di Roma" (Zucchetti, p. XIX).
Opportunamente è stata richiamata l'attenzione sul fatto che in B. si sorprendono espressioni che rimandano a un senso di comunità etnico-linguistica con gli Italiani e i Romani in specie (Zucchetti, pp. XIXXX): la chiesa dei SS. Giacomo e Filippo "que nosvocitamus Sancti Apostoli" o che "a fidolibus populi Sancti Apostoli vocitant" è un ricordo non solo vicino e visivo, ma di ovvio rinvio e di immediata localizzazione per tutti coloro compresi in quel "nos", che appunto la chiamano dei "Santi Apostoli". Una vicinanza - e un'attenzione - a Roma, nel quadro della storia italiana potrebbero anche suggerire espressioni come i Vaq populum italico i quanta accidentia, quantaque clade alienigene gentis in vos exercuit i civitas Leonianiana (sic!), quern Centum Civilis construxit, capta fuistis a Sarracenis et alienigene gentis" (ibid., p. 162), dove peraltro, nel rapporto che si viene a stabilire tra Romani e Italiani, si avverte un certo distacco tra chi scrive e l'"italicus populus": la iattura dell'Italia è grande perché è iattura di Roma. Il discorso generale è fatto sull'Italia - B. ha da poco parlato della morte di Giovanni X e dell'imposizione di Giovanni XI come sommo pontefice da parte di Marozia, ma ha anche fatto cenno delle scorrerie ungare - attraverso un'esemplificazione limitata all'ambito romano, perché è quello che ha sott'occhio B.: ma parlando dell'"italicus populus", B. non si confonde, come aveva implicitamente fatto quando il suo discorso doveva avere una intelligibilità "romana" e la chiesa dei SS. Giacomo e Filippo doveva essere designata "romanamente" come quella "dei Santi Apostoli". Onde l'impressione, suffragata s'intende da una larghissima messe di ricordi di Roma, che probabilmente romano, di ambiente e di formazione, almeno, se non di nascita (che conta poco, del resto) dovesse essere B., si rafforza: anche perché, sulla base di un criterio puramente quantitativo, il nome di "Francia" e "Italia", a scorrere l'indice dei nomi e delle cose notevoli dell'edizione Zucchetti, hanno una frequenza nel racconto del monaco, pressocché identica.
La difficile individuazione di una personalità "nazionale" attraverso il Chronicon trova il suo elemento parallelo nella combinazione delle fonti che lo Zucchetti ritiene di aver identificato - e nessuno sinora ha obiettato contro siffatta identificazione - nel materiale utilizzato da Benedetto.
Si tratta di fonti storiografiche: Beda, Chronica; Paolo Diacono, Historia Langobardorum (forse conosciuta indirettamente); Annales regni Francorum (per gli anni dal 741 all'829 con qualche salto); Eginardo, Vita Karoli (parecchi capitoli); Libellus de imperatoria potestate; fonti agiografiche: Passio santi Pygmenii; Vita sancti Martini; Atti dei santi Giovanni e Paolo; Atti di s. Biagio; Vita sancti Barbati episcopi Beneventani; Translatio corporis sancti Bartholomaei apostoli Beneventum; altre fonti: Dialogi di Gregorio Magno; documenti relativi ai monasteri sorattiani; passi scritturali.
Lo Zucchetti dubita che B. abbia conosciuto il Liber pontificalis (pp. XXVI-XXVII) almeno per il sec. IX, mentre ammette che alcune notizie della stessa fonte siano potute giungere sino al Chronicon per mezzo di Beda. Non pare nemmeno probabile l'utilizzazione diretta del Catalogo pontificale, con cui si continuò nel sec. X il Liber pontificalis e a cui, come a Libellus episcopalis, B. rimanda (ibid., p. 182), a proposito della morte di Giovanni XII, della quale nulla dice il predetto Libellus (= Catalogo), ma sì Liutprando, nella Historia Ottonis: "Tutto fa credere che il cronista, o la sua fonte, facessero il rimando senza aver sotto gli occhi l'opera a cui si riferivano, e confondessero con Liutprando, oppure avessero veramente letto in qualche catalogo annotato un ragguaglio sulla morte del papa e ne conservassero il ricordo" (p. XXVIII).
Circa la notizia del viaggio di Carlomagno a Costantinopoli e a Gerusalemme, di cui B. è il primo a parlare, ma che troverà una notevole fortuna nei racconti posteriori (Voyage de Charlemagne à Jerusalem et à Constantinople; Descriptio qualiter Karolus Magnus clavum et coronam Domini a Constantinopoli Aquisgranam detulerit...; Gesta Francorum et aliorum Hierosolymitanorum; Vita sancti Sacerdotis episcopi Lemovicensis; Karlamagnussaga, etc.: cfr. Zucchetti, pp. XXVIII-XXIX), sembra certo che si possa scartare l'idea di una fonte scritta e che si debba ammettere l'ipotesi della ripresa di una tradizione orale popolare, combinata con qualche elemento personale. Di un certo rilievo, in questo senso, appaiono le notizie di traslazioni di reliquie in Occidente dai luoghi santi, in epoca carolingia, di cui si coglie un'eco anche nella Translatio Sanguinis Domini dei sec. X (cfr. R. Folz, Le souvenir et la lègende de Charlemagne dans l'empire germanique médiéval, Paris 1950, pp. 24 s., ripreso da G. Musca, Carlo Magno e Harun al Rashid, Bari 1963, pp. 75-79): B., infatti, fa sostare l'imperatore a S. Andrea al suo ritorno, per la donazione di una preziosa reliquia. La spiegazione del perché il cronista del Soratte abbia ritenuto di dover inserire l'episodio trasformando il cap. 16 della Vita Karoli di Eginardo sembra doversi cercare essenzialmente nel peso che la tradizione di Carlo pellegrino e trionfatore pacifico a Gerusalemme - Harun al Rascid lo riceve con molti onori e lo scorta al ritorno sino ad Alessandria dove "dimissoque est Aaron rex a Karulo Magno in pace: in propria sua est reversus" (p. 114) - doveva avere nella dimensione esagerata del ricordo di contatti abbastanza amichevoli con Harun. Che Carlo acquisti in tal maniera una supervalutazione nel Chronicon - che per il sassone Ottone. protagonista vicino di azioni belliche deprecate, ha parole severe - è problema non unicamente collegato con la narrazione di questo ipotetico viaggio in Terra Santa. Se si dovesse accettare la suggestione di alcuni storici (Falco, Schneider) di un B. espressione di una coscienza cittadina romana ostile a Ottone (non all'idea imperiale), si potrebbe pensare a una voluta rappresentazione "per contrasto" del restauratore dell'impero e del suo emulo, non magnanimo, Ottone. E sempre in linea ipotetica, atteso che il Chronicon potrebbe essere stato scritto immediatamente dopo il 998, se si accettasse l'idea della derivazione di un passo della Cronica pontificum et imperatorum S. Bartholomaei in insula Romani dall'ultima parte dei Chronicon, che non possediamo, poiché l'inizio di quel passo dipende manifestamente dal Chronicon, si potrebbe anche credere che B. sia stato tentato dal disastro di Stilo a sottolineare un diverso atteggiamento degli "Agareni" al tempo del grande Carlo. Ma, come si vede, si tratta di ipotesi rampollanti su altre ipotesi.
Poca luce, del resto, viene sulla personalità di B. anche dalla considerazione del suo dettato: il latino del cronista di S. Andrea del Soratte è stato tradizionalmente, dal Pertz in poi, oggetto della valutazione più negativa, si può dire, che abbia mai meritato scritto prosastico medievale. Non privo di elementi preannuncianti forme tipicamente volgari - anche se lo Zucchetti non crede (p. XLVI) che si possa accettare la suggestione del Novati di uno studio combinato con il testo del Chronicon Altinate per "la cognizione dell'idioma nostro e del basso latino ne' secoli IX e X" - la lingua del Chronicon denuncia in chi scrive il venir meno della coscienza del latino, almeno in grandissima parte delle sue strutture grammaticali e sintattiche. Anomalie ortografiche, scambio di generi, di casi, di numeri, di tempi e modi verbali pullulano nel racconto del Chronicon.
Si tratti. di ignoranza dell'autore o di ignoranza del copista, allo stato attuale degli studi sul Chronicon non si può non concordare con lo Zucchetti che, respinta la tesi insostenibile del Pertz di un autografo, distingue nel testo dell'opera "le parti derivate senza dubbio da altra fonte e quelle ch'è lecito supporre uscite, più o meno dalla penna di Benedetto" (p. LVIII). In entrambi le parti si riscontrano errori: ma quelli che si ritrovano nelle parti che verosimilmente sono originali di B. dimostrano all'evidenza di essere fraintendimenti di chi copiava, adottando una minuscola "romana", vergata da una stessa mano, per quasi tutta l'estensione del testo - per alcune particolarità, cfr. Zucchetti, p. LV - che occupa, come s'è detto in principio, i ff. 1r-58v di un codice miscellaneo messo insieme con la trascrizione, oltre che del Chronicon, di mano diversa ma coeva, di larghi estratti dei capitolari carolingi; il testo dell'opera narrativa è mutilo in principio ed in fine.
L'idea dello Zucchetti che non si possa parlare di "originale" è stata accettata, attraverso una analisi paleografica-linguistica del testo da J. Kunsemüller (DieChronik Benedikts von S. Andrea, Diss. Erlangen, Fotodruck: Microcopie G.m.b.H., München 1961); egli, sulla scorta di un'analisi e di una classificazione degli errori, reputa più probabile che B. abbia dettato la sua opera a un amanuense distratto e ignorante e incapace di tener dietro al dettato di B.: si tratterebbe di errori (Missverständnisse) "die nicht nur einer falschen akustischen Wahrnehmung, sondem auch den psychischen Differenzen von Sprecher und Hörer (Verfasser und Schreiber) entspringen" (p. 49). Del resto sulla base di considerazioni di carattere linguistico, il Kunsemüller ritiene che il latino di B. non sia quello di fonti romane coeve alla Cronaca (il Kunsemüller fa un interessante confronto con un documento tratto dal Tabulario di S. Prassede del 947: "Der Vergleich zwischen den unigangsprachlich bedingten Formen Benedikts und der römischen Urkunde ergibt zwar einige allgemeine Berührungspunkte, daneben aber charakteristische Dìvergenzen, die es als unwahrscheinlich ansehen lassen, dass Benedikt römischen Dialekt gesprochen hat"). Così B. sarebbe originario di famiglia franca dell'Alta Italia, anche se egli personalmente, come mostrano soprattutto le sue idee e la sua visuale di storico, doveva essersi stabilito a Roma da diverso tempo. Circa i tempi di composizione, il Kunsemüller si mostra scettico circa l'ipotesi della dipendenza della cronaca di S. Bartolomeo all'Isola, in una sua parte, dal frammento perduto della cronaca di Benedetto che risulterebbe scritta, come aveva già affermato sostanzialmente la critica precedente, intorno al 972. Meno convincente la tesi del Kunsemüller, anche se suggestiva, quando sostiene decisamente un'adesione cosciente di B. all'ideale dell'impero franco il cui Fortleben in terra italiana (Italia settentrionale e centrale) troverebbe nella cronaca di B. una testimonianza tardiva, ma non meno interessante. Quelli che sono apparsi al Kunsemüller duri giudizi sui Romani, se non si accetta la pregiudiziale dello studioso tedesco, possono facilmente essere intesi come l'espressione di un rammarico sconsolato perla perduta grandezza, pur dovuta a cattive inclinazioni e abitudini: la "prisca consuetudo" dei Romani di dividersi in fazioni non sembra tanto notazione di scherno, ma piuttosto di rimpianto.
Il manoscritto contenente il Chronicon nel sec. XIII era a Roma, dove poteva essere utilizzato da Martin Polono; nel sec. XIV nel monastero romano di S. Paolo fuori le Mura; "emptus in Taberna" nel 1660, dovette entrare a far parte sin d'allora della biblioteca chigiana, dove lo vide il Mabillon: l'affermazione dei Petrini (Memorie Prenestine, Roma 1795, p. 393) dell'esistenza di un manoscritto presso la biblioteca del Garampi - non registrato nel catalogo di Mariano de Romanis né contenuto nei codici lasciati per testamento dal Garampi alla Gambalunghiana di Rimini - non sembra altro che un errore, che indusse il Troya ad affermare, a proposito dei Pertz: "Non so s'egli, oltre la Chigiana, vide l'altra copia, già posseduta dal cardinal Garampi, che ora, se non m'inganno, sta nella Gambalunga di Rimini" (Zucchetti, p. LXII).
Proprio per quanto s'è detto, risulta estremamente difficile individuare un lineamento preciso, un significato politico nella ricostruzione del Chronicon: intessuto con varia alternanza delle fonti (Beda e Gregorío Magno) per il periodo goto e longobardo, non senza aggiunte di provenienza incerta, il racconto utilizza gli Annales regni Francorum ed Eginardo per il primo periodo carolingio, per dar luogo a una presentazione "originale" - in quanto non se ne sono individuate le fonti - del periodo di Ludovico II e delle scorrerie saracene (famoso l'episodio dell'immagine di Cristo che, colpita da un saraceno, emana sangue). Per il periodo ottoniano l'Ottenthal (Die Quellen zur ersten Romfahrt Ottos I., in Mitteil. des Inst. für asterr. Geschichtsforschung, IV, Ergänzungsband, Innsbruck 1893) ha pensato a una fonte comune a B. e al Catalogo pontificale, perduta ma imparentata con Liutprando e il continuatore di Reginone di Prüm: ma pur rilevando coincidenze indubbie tra B. e il Catalogo pontificale, lo Zucchetti (pp. XXXIV-XLIII) ha notato che esse sono bilanciate da sconcordanze e da diseguaglianze di rapporto con Liutprando e con il continuatore di Reginone: caratteristiche le narrazioni della morte di Leone VIII (come presso il continuatore) e delle vicende di Giovanni XIII (diverso in più punti, mentre c'è una vicinanza tra il continuatore e il Catalogo pontificale). Più interessante ci pare notare il rilievo dato alla signoria temporale dei papi, a delineare la quale B. utilizza - direttamente o indirettamente non si sa - la donazione di Costantino e altri privilegi concessi ai papi: ma proprio il fatto che egli, come osserva lo Zucchetti, commetta degli errori nel voler legare la venuta di re e imperatori a Roma con donazioni a pontefici, è indicativo che non l'adesione a una fazione filopapale, come è stato supposto (J. Jung, Ueber den sogenannten Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma, in Forschungen Zur deutschen Geschichte, XIV [1874], pp. 426 ss.), ma una sconsolata ammirazione per la grandezza e la maestà di Roma suggeriscono certe insistenze (è riscontrabile anche una vicinanza ai Mirabilia: senza che con ciò si voglia entrare nel complesso argomento della composizione degli stessi: Zucchetti, p. XL; cfr. A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, I, Torino 1882, pp. 60 ss.; P. E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, II, Leipzig 1929, pp. 47-59). E su questo elemento romano, come è stato già dette, è forse possibile insistere, per tentare di individuare qualche tratto più originale della inafferrabile personalità del monaco dei Soratte.
Diversa dai moduli piuttosto ristretti della cronaca monastica vera e propria, ché troppo attenta ai grandi eventi della storia europea e romana appare l'opera di B., essa richiama ovviamente, di là dalla questione dei rapporti testuali e della personalità del narratore, certi aspetti dell'opera storiografica di Liutprando. Più ampia di respiro, più decisamente polemica la storiografia di quest'ultimo, dotato indiscutibilmente di vero senso storico, più dettagliata e impacciata e prolissa quella di B.: entrambi spesso procedenti a una narrazione assai vicina e quasi parallela. La maggiore diversità consiste - ed è fin troppo naturale - nella valutazione opposta di avvenimenti e personaggi romani. "Impiissimus" Alberico II per Liutprando, "gloriosus princeps" per B., che certo non doveva dimenticare le elargizioni a S. Andrea; semplicemente concubina di Alberico di Spoleto, Marozia (peraltro mai nominata direttamente) per B., laddove è "scortum impudens" e "meretrix" tristissima in Liutprando. D'altra parte, se la vicinanza e la partecipazione alle cose romane suggerisce a B. un diverso, più favorevole giudizio, non è solo la trattazione di uno stesso periodo storico - almeno in gran parte - a richiamare immediatamente, sì da rilevarne peculiarità contrastanti, la figura e l'opera di Liutprando: ma forse quel voler fare una storia che in Roma - una Roma di papi e di grandi imperatori franchi e di gloriosi personaggi recenti - abbia un suo elemento esplicativo, un suo punto di prospettiva così come esso era stato per Liutprando la figura e l'azione di Ottone. E quindi solo ad una prima rapida lettura può stupire l'assenza di ogni menzione di Berengario come fatto determinante nella discesa di Ottone, mentre trovano ampio ricordo tutti gli eventi che vedono protagonisti attivi o passivi, Ottone I e Roma. Da un lato la Roma che trova un suo significato nella storia ad opera dell'imperatore sassone e solo in essa; dall'altro, la Roma che tanto più è da compiangere, in quanto tutto il suo passato glorioso sembra naufragare nelle imprese dei re germanico. Non siamo di fronte ad uno spirito nazionalistico, ma ad una singolare utilizzazione del mito storiografico di Roma in un ambito di concreti elementi storico-politici che è quello del particolarismo, che sembra, proprio nella persona di Alberico, salvare una tradizione e una dimensione autonome (non germaniche) di quel mito.
Ma non si deve probabilmente pensare a una coscienza compiuta di questo particolarismo, perché in fondo il "gloriosus princeps Albericus" ha una rilevanza specie in rapporto a S. Andrea dei Soratte. La costante è sempre il grande "maeror" della città, non l'odio antisassone: quasi conferma che a dare una larvata unità al racconto disordinato di questo singolare cronista altomedievale è pur sempre una valutazione moralistica degli accadimenti, in cui il rimpianto sincero per la irrimediabile decadenza, dell'Urbs, riesce talvolta a fornire un parametro di giudizio più ampio, anche se comunque impolitico, di quello riscontrabile in tante altre cronache monastiche.
Fonti e Bibl.: Dopo l'edizione del Pertz, in Mon. Germ. Histor., Scriptores, III, Hannoverae 1839. pp. 695-719, non priva di errori ed incongruenze e rifluita in Migne. Patr. Lat., CXXXIX, coll. 9-50 (brani ne sono riportati anche nelle Vitae dei Watterich, I, Lipsiae 1862, pp. 37-44); G. Zucchetti ha curato, per le Fonti per la Storia d'Italia, LV, Roma 1920. un'edizione critica dei testo, pubblicato insieme con quello del Libellus do imperatoria potestate in urbe Roma, di cui B. non fu certamente autore, come aveva creduto il Pertz, anche se ne utilizza, nel suo mosaico ricostruttivo, alcune parti (pp. LXX-LXXXIV). Quanto alla letteratura, oltre a quella citata integralmente nel testo, si veda G. Amati, Bibliografia romana, I, Roma 1880, pp. XLV-XLVI; F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medio Evo, traduzione italiana di L. Trompeo, V, Roma 1940, I. VI, capp. II e III; G. Tomassetti, La campagna romana…, III, Roma 1913, pp. 337-342; G. Falco, L'amministrazione Papale nella Campagna e nella Marittima.... in Arch. della R. Soc. romana di storia patria, XXXVIII (1915), pp. 683 ss.; F. H. G. Schneider, Rom und Ronigedanke in: Mittelalter, Múnchen 1926, pp. 138 ss.; P. E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, Leipzig 1929, I, pp. 64-67. Tra le voci di enciclopedie, oltre a quanto brevemente detto in Encicl. ital., sub voce, v. Dict. d'Hist. et de Géogr. ecclés., VIII, coll. 241-243. Cfr. anche M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, II, München 1923, pp. 179-181. È sempre importante la consultazione di W. Wattenbach-R. Holtzmann, Deutschiands Geschichtsquellen im Mittelalter, I, 2, pp. 336 s.