CASTELLI, Benedetto (al secolo, Antonio)
Appartenente ad un ramo bresciano della nobile famiglia Castelli, nacque a Brescia o in un comune limitrofo (Trenzano o Botticino Sera, dove il padre aveva possedimenti) tra il 1577 e il 1578.
Tali dati sono incerti a causa di un errato certificato di battesimo, ma una polizza d’estimo del 1588 ricorda un Antonio Castelli di dieci anni, figlio di Annibale (nato nel 1553 dal nobile Ortensio Castelli) e di Alda Tiberi, in cui è da riconoscere il Castelli.
Quando nacque, primogenito, fu infatti chiamato Antonio; dopo di lui nacquero altri sei fratelli: Ortensio, Vespasiano, Carlo, Ortensia e Lucrezia, e infine Quinto, nato nel 1593. Una sorella di nome Dorotea, nata nel 1582, era già morta nel 1588. Non fu certamente una famiglia felice: l’ultimogenito, Quinto, vizioso e scialacquatore, fu bandito dalla Repubblica di Venezia per vari delitti; Carlo e il C. dovettero sborsare ingenti somme per far togliere il bando. Più tardi, in seguito ad una aggressione, Quinto fu condannato a sette anni di carcere. Dei fratelli Castelli, inoltre, tre morirono di morte violenta in seguito a liti private.
Il 4 sett. 1595 il C. prese l’abito benedettino nel monastero dei SS. Faustino e Giovita di Brescia, divenendo “D. Benedictus de Brixia”. Gli studi matematici intrapresi a Brescia dovette proseguirli a Padova, quando (certamente prima dei 1604) fu trasferito presso il monastero di S. Giustina. La sua amicizia col Galilei, a Padova dal 1592, nacque in un primo tempo come rapporto da scolaro a maestro, poi la familiarità crebbe, favorita dal fatto che il Gulilei abitava in una casa vicino a S. Giustina e che frequenti erano gli incontri tra i dotti monaci e il giovane matematico, amico personale dell’abate. È certo non solo che il C. aveva udito le lezioni del Galilei prima del 1604, ma che aveva pure partecipato a diverse sue esperienze, come quelle sul termometro, divenendone fido consigliere e confidente.
Forse già a quel tempo, assistendo il maestro nelle osservazioni delle macchie solari, aveva ideato il metodo per proiettare le inimagini del cannocchiale su un foglio bianco, metodo di cui, apprezzandone la grande praticità per le osservazioni quotidiane, Galileo gli riconobbe il merito dell’invenzione.
Anche quando il C. era lontano da Padova, il commercio scientifico col maestro non si interrompeva. Nel 1607 si recò al capitolo generale del suo Ordine a Cava dei Tirreni; nel 1610 era a Brescia, donde scriveva al Galileì ringraziandolo del dono del Sidereus Nuncius, da lui già letto ed apprezzato.
Il C. chiedeva anche conferma d’una sua ipotesi sulle fasi di Venere e di Marte, dato il loro moto attorno al Sole. Nel dicembre dello stesso anno il Galilei rispondeva confermando quell’ipotesi sulla scorta delle sue osservazioni, ma non dimostrando la stessa fiducia del C. di poter convincere i nemici della teoria copernicana con quelle prove. Gli promise pure il dono d’un cannocchiale, perché potesse rendersi conto di persona delle sue scoperte.
Il C. ntanto proseguiva i suoi studi di matematica, anche in vista dell’insegnamento, analizzando Euclide come Tolomeo, Teodosio come Archimede. Ma desiderava ardentemente stare presso il maestro, per udime di persona gli insegriamenti; progettava infatti di lasciare a Brescia la famiglia e di tornare a Padova, quando seppe che il Galilei si sarebbe trasferito a Firenze come matematico e filosofo del granduca; lasciò allora cadere anche il progetto di seguire in Spagna il principe Francesco de’ Medici e si fece mandare a Firenze. Alla badia fiorentina abitò quasi tre anni, compiendo frequenti visite alla villa alle Selve, dove il Galilei era ospite di Filippo Salviati; poté così assisterlo nei lavori che egli stava portando avanti, sui satelliti di Giove, sulle fasi di Venere, sui galleggianti e sulle macchie solari. Di queste ultime raccolse delle tavole sotto la guida del maestro. Ma fu soprattutto riguardo le esperienze sui galleggianti che la collaborazione fra i due fu più assidua: fu infatti il C. a curare la stampa del galileiano Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono, Firenze 1612, Scritto contro le teorie aristoteliche sul galleggiamento dei solidi in ragione della loro figura.
A sostenere la tesi galileiana sulla maggiore o minore gravità dei corpi rispetto all’acqua, causa prima del loro galleggiamento, contro gli scritti dei peripatetici Arturo d’Elci, Ludovico delle Colombe, Vincenzio di Grazia e Giorgio Coresio, venne scelto proprio il C., che scrisse un opuscolo rimasto inedito, con correzioni di pugno del Galilei 1, contro il Coresio in particolare, ed un altro né iniziò, continuato dal Galilei: Risposta alle opposizioni del S. Lodovico delle Colombe e del s. Vincenzio di Grazia ecc., Firenze 1615. Veramente il Galilei avrebbe preferito farlo pubblicare col nome dell’allievo, per non onorare col proprio nome oppositori così miseri.
Il C. fu così indotto ad approfondire per conto suo gli studi di idraulica, che in seguito costituiranno la sua maggior fama. A mezzo dell’amicizia del Galilei, a Firenze il C. poté conoscere tutti i dotti che venivano a trovarlo, e dedicarsi all’insegnamento privato a vari nobili e ai principi di casa Medici. L’appoggio del Galilei gli permise nel 1613 di succedere al peripatetico Antonio Santucci alla cattedra di matematica dello Studio di Pisa, dove fino al 1622 lesse Euclide, Tolomeo, l’Almagesto, ma pure opere del Galilei come il Compasso geometrico e militare e, in privato, il Saggiatore.
Del compasso galileiano il C. si servì per risolvere uno dei problemi più difficili in relazione alle rilevazioni astronomiche, cioè quello di determinare l’ora esatta e i minuti di ciascuna rilevazione. Misurando l’altezza di Giove e delle stelle fisse col quadrante, egli poté confermare con estrema precisione le ipotesi galileiane sui pianeti medicei, servendosi anche di un astrolabio acquistato da Galileo per lo Studio di Pisa, che il C. usava portare con sé in viaggio per fare rilevazioni senza perdere tempo.
Il Salviati propose il C. come accademico dei Lincei, ma l’abito ecclesiastico gli impedì di accettare. Nel 1624 gli venne confermata a vita la lettura nello Studio, dove i risultati del suo insegnamento, a giudicare dal concorso di studenti, erano eccezionali. Vi accorrevano anche dottori da Genova e da Padova.
Era occupatissimo dallo Studio, di cui dal 1622 era anche decano, tanto che gli mancava, a suo dire, perfino il tempo per mangiare. Ma non gli mancavano le soddisfazioni, poiché gli allievi avevano accettato con entusiasmo il suo metodo didattico, consistente nel far loro discutere, dopo le lezioni, gli argomenti trattati, primi tra tutti quelli sui corpi galleggianti e sulle macchie solari. Mancando a Pisa un convento del suo Ordine, dovette abitare nel monastero di S. Girolamo dei gesuati. Qui conobbe Bonaventura Cavalieri, e, vista la sua prodigiosa attitudine per la geometria, lo introdusse presso Galileo e lo avviò all’insegnamento; durante le sue numerose assenze dallo Studio lo suppliva il Cavalieri. La posizione del giovane gli stava a cuore, e anche più tardi, a Roma, presentato a Cesare Marsili, insistette presso di lui perché venisse affidata al Cavalieri la cattedra di matematica dello Studio pisano.
A Pisa non mancarono di sorgere presto dissapori, sia perché era provveditore dello Studio Arturo d’Elci e vi insegnavano molti altri peripatetici, sia perché, pur essendo stato obbligato a non far parola della questione del moto della Terra, il C. discusse ugualmente di essa a un pranzo del granduca il 12 dic. 1613. Poiché egli vi sostenne calorosamente le posizioni del Galilei, rendendo poco tempo dopo pubblica la lettera di questo sul “portar la Scrittura Sacra in dispute di conclusioni naturali”, l’Inquisizione prese ad indagare per imbastire il cosiddetto “primo processo dì Galileo”, tentando di servirsi dello stesso C., che peraltro si limitò a leggere quella lettera all’arcivescovo di Pisa Francesco Bonciani, senza portare alcuna prova contro il maestro.
Aveva sostituito il Galilei nell’insegnamento privato al principe Lorenzo e si occupava come precettore di suo figlio Vincenzio Galilei, studente presso lo Studio. Fin dal 1617 era entrato in corrispondenza col cardinale Federico Borromeo, ed era inoltre impiegato dalla corte per varie commissioni. Tutto ciò lo distrasse non poco dall’insegnamento, come un viaggio compiuto per mare per ordine del granduca, al fine di sperimentare un cannoncino fornito del cosiddetto “celatone” di Galileo, un cannocchiale binocolo, utilizzabile sia per conoscere da lontano numero e posizione delle navi nemiche, sia per la determinazione della longitudine. Il C. fece conoscere lo strumento all’ingegnere militare ed ammiraglio Giovanni de’ Medici, ma, nonostante le lodi di questo e gli sforzi del C., tale strumento non ebbe il successo sperato dal Galilei. Durante questo viaggio conobbe l’arciduca Leopoldo d’Austria, che con lui discusse della comparsa di una cometa.
Quando venne eletto papa il cardinal Maffeo Barberini, col nome di Urbano VIII (1623), il C. passò da Roma diretto a Montecassino e vide molti suoi amici fiorentini ricolmi di grandi onori, come il Rinuccini e il Magalotti. A lui venne però affidato solo l’incarico di occuparsi dei corsi d’acqua di Ferrara e di Bologna (di cui si sarebbe poi interessato anche il Cassini) assieme al cardinale Ottavio Corsini. Poté così riprendere gli studi di idraulica, raccolti in varie pubblicazioni più tarde, anche dopo il suo ritorno a Pisa, almeno dal novembre 1625. Di tali studi certo discusse a lungo col Galilei, sia per lettera che durante i frequenti viaggi a Firenze, soprattutto del problema della velocità delle acque, a suo parere non ancora rettamente considerato. Nel 1626 fu chiamato a Roma dal papa in qualità di consigliere idraulico e come valente matematico, oltre che per attendere all’educazione del suo giovane nipote, Taddeo Barberini.
Anche il Cavalieri era a Roma in quel periodo, con la speranza di ottenere una cattedra allo Studio pisano; ma nonostante i suoi sforzi il C. poté essergli di poco aiuto; gli avrebbe volentieri lasciato la sua cattedra di matematica alla Sapienza, ottenuta dal papa nel 1626, tanto era il suo desiderio di ritornare a Firenze: scrive infatti al Galilei che mangerebbe più volentieri i pesciolini d’Arno che gli storioni del Tevere (G. Galilei, Opere, XIII, Firenze 1903, p. 359). Anche qui era occupatissimo in mille questioni e incombenze per il papa, che l’aveva preso in simpatia pur non colmandolo di ricchezze. Da lui il C. ottenne la pensione per il padre del Galilei. poi trasferita al nipote omonimo, figlio del fratello Michelangelo. Costui era venuto a Roma per studiare musica, ma si era ben presto mostrato un temperamento irrequieto e vizioso, cosicché il buon C., esasperato, scriveva al Galilei pregandolo di far tornare a Firenze il giovane, prima che si rovinasse completamente.
Intanto gli era stata affidata dal papa l’annosa questione delle acque del Chiana, e così riprese i suoi studi di idraulica, il cui miglior frutto uscì a Roma nel 1628 col titolo Della misura delle acque correnti, ristampato ivi nel 1639 e a Bologna nel 1660 e tradotto in francese ed in inglese.
L’operetta è composta di due parti, dedicate l’una al papa e l’altra a Taddeo Barberini. Muovendo dagli scritti dei suoi predecessori, da Frontino all’idraulico dell’ultimo. Cinquecento Giovanni Fontana, il C. osserva che l’acqua di un fiume, per un dato passaggio (ad esempio, le arcate di un ponte), aumenta di quantità coll’aumentare della velocità. Ora la diversa velocità dell’acqua in diversi punti dell’alveo del fiume ne muta notevolmente la portata. Egli determina il rapporto matematicoll inversamente proporzionale, tra la sezione d’un fiume e la sua velocità, e da esso ricava diversi corollari ed indicazioni sulle piene dei fiumi e dei torrenti, sulla portata degli affluenti, sui metodi per ridurre o prevenire le piene per mezzo di canali, sull’irrigazione e la distribuzione delle acque di fonte. Il metodo da lui ideato per tali studi (compiere le esperienze su un modello) fu in seguito adottato da vari scienziati. Si sa che egli meditava un’opera ben più vásta e complessa, in cui esporre un sistema generale per la regolazione di qualsiasi tipo di acque correnti, ma che non poté compierla. Ma già la Misura fu subito considerata fondamentale sull’argomento. Non mancarono, accanto alle lodi (prime fra tutte quelle di Galileo), le critiche dei peripatetici, come Pietro Petronio da Foligno nelle sue Considerationi.... Venezia 1638; più costruttive le osservazioni del suo discepolo Torricelli, che introdusse sostanziali perfezionamenti alle teorie del Castelli. Ci fu chi volle individuare i predecessori del C. nel tener conto del fattore velocità, tra cui il Bentivogli, Leonardo e Frontino; altri lo accusarono apertamente, ancora nel secolo scorso, d’aver plagiato Leonardo, profittando dei manoscritti vinciani. Ma il complesso degli scritti castelliani di idraulica, sulle bonifiche delle paludi Pontine, nel Bolognese e nel Ferrarese, sulle lagune di Venezia, sulle mole di Genzano e di Monterotondo, sul lago di Bientina e sul Trasimeno, sulle cateratte di Riparotto, ecc. (tutti nel I e IV volume della Nuova-raccolta d’Autori che trattano il moto delle acque, a cura di A. Mazza, Parma 1766) dimostrano senza dubbio, ove non bastassero le numerose lettere al Galilei sulle esperienze a volta a volta compiute, che il C. costruì le sue teorie idrauliche in seguito a ricerche autonome, senza rifarsi ad altri autori.
Nel 1630, dal 3 maggio al 26 giugno, il Galilei fu a Roma per la stampa del Dialogo sui massimi sistemi, accolto con gioia dal discepolo, che già precedentemente aveva parlato dell’opera al maestro del Sacro Palazzo Niccolò Riccardi e con Francesco Barberini, il suo “padrone”, per appianare le difficoltà facilmente prevedibili della Curia; sostenne infatti che la teoria galileiana del flusso e riflusso dei mare solo in via di ipotesi presupponeva quella del moto della Terra.
Saputo che Urbano VIII aveva confidato al principe Cesi di non aver intenzione di proibire la teoria copernicana, la sua buona fede nella forza degli argomenti scientifici – condivisa ampiamente dal Galilei – si rafforzava al punto da insistere presso il maestro perché venisse di persona a difendere le sue teorie, certo che ogni dubbio sarebbe caduto di fronte alla sua forza dialettica. Egli stesso non nascondeva il suo giudizio entusiastico sul Dialogo, da lui letto e riletto per coglierne ogni sfumatura, e tale giudizio era condiviso dal Torricelli e da molte illustri personalità romane, anche ecclesiastiche.
Ma nell’agosto del 1632 il tipografo Landini di Firenze dovette sospendere la vendita delle copie già stampate del Dialogo. Preoccupato per la piega che prendevano gli avvenimenti, il C. difendeva il maestro ma l’invitava ad ubbidire alle intimazioni del Sant’Uffizio per non essere considerato eretico.
Il papa si faceva sempre più freddo nei suoi confronti, e cadeva in disgrazia anche un, altro difensore del Galilei, monsignor Ciampoli, mentre a poco poté servire l’intervento di Francesco Nicolini, ambasciatore di Toscana. Il Galilei fu chiamato a Roma nel 1633 per il cosiddetto “primo processo”, e contemporaneamente il C. fu inviato a Brescia, dove si dovette occupare del fratello Quinto, condannato a sette anni di carcere, tentando perfino di farlo fuggire. È probabile che questo allontanamento fosse stato voluto proprio dal papa, per evitare al C. di compromettersi di più.
Egli tornò a Roma solo dopo la conclusione del processo, e la notizia dell’abiura del filosofo lo amareggiò assai, data la fiducia che aveva nutrito nella giustizia del tribunale e del papa. A ciò si deve il suo desiderio di recarsi in Toscana, per cui pregava il Galilei, prima a Siena e poi ritiratosi ad Arcetri, di trovare l’occasione di poterglisi avvicinare.
Le lettere di questo periodo si fanno tristi e malinconiche, e anche gli argomenti scientifici non vi hanno più la gran parte di prima. In esse il C. confessava la dura dipendenza da Franc. Barberini, che gli impedì di realizzare il suo progetto quando, nel 1635, a nome del granduca, il Galilei gli offrì la cattedra di matematica a Pisa, vacante per la morte di Niccolò Aggiunti. Neppure i tentativi per giovare in qualche modo al Galilei, facendo intervenire l’ambasciatore di Francia a Roma Francesco di Noailles, ebbero molto successo. Il C. poté ottenere soltanto di poterlo incontrare nell’ottobre del 1638. a patto che un frate inquisitore assistesse al colloquio. Né poté far molto di più per la richiesta del Galilei, già cieco, di recarsi a Firenze per curarsi, dopo la morte di suor Maria Celeste.
Per trattenerlo a Roma gli erano state affidate, in modo puramente formale, le abbazie di S. Benedetto di Foligno, di S. Grisogono di Zara, di Verona, di S. Maria di Praglia, di Monreale e dei SS. Benedetto e Luigi di Palermo. Ciò non lo distraeva tuttavia dalle sue occupazioni scientifiche: nel 1640, servendosi di nuovi telescopi prodotti dal Fontana di Napoli, poté scorgere staccati da Saturno i due corpi rotondi che il Galilei aveva osservato uniti al pianeta, primo passo verso la scoperta dell’anello. Nel 1641 partì da Roma, passò a Pisa e a Firenze a salutare il Galilei, poi si recò a Venezia per il capitolo generale dei benedettini. Qui si occupò, su istanza del senatore Giovanni Basadonna, dello stato della laguna veneta, e nella comunicazione che fece al Senato veneto sostenne che per conservare le lagune era necessario ricondurvi i fiumi, le cui acque erano state deviate, come il Brenta.
Il C. si fondava su informazioni errate e non teneva conto che il livello delle acque lagunari dipende da quello del mare e non dai fiumi che vi si gettano. Benché il Senato e il magistrato delle Acque non avessero accettato le sue conclusioni, tornato a Roma il C. si convinse che i guai della laguna derivavano dalla deviazione dei fiumi e che guai maggiori sarebbero derivati dalla progettata deviazione di altri fiumi, come il Sile, in base al teorema secondo cui le altezze delle acque corrispondono alle radici delle portate. Sostenne ciò in molte lettere al Basadonna, ma nonostante l’intervento a suo favore del Borelli, non venne ascoltato, come non erano state accolte le sue precedenti proposte di riportare al Po le acque del Reno o di prosciugare le paludi Pontine.
Molti altri erano frattanto i problemi scientifici ch’egli andava indagando, sempre in accordo col maestro. Essi gli si presentavano durante varie esperienze e mettono in luce le sue acute doti d’intuizione. Affermò per primo che l’intensità della luce varia in proporzione al quadrato delle distanze; che nell’emisfero australe doveva esserci qualche vasto continente, dal modo con cui la Luna riceve la luce riflessa dalla Terra; studiò questioni di ottica, come l’irradiazione stellare e le relative impressioni sulla retina dell’occhio, l’uso di diaframmi per gli strumenti ottici e altre osservazioni sulla vista e sui colori, raccolte nel Discorso sopra la vista (in Alcuni opuscoli filosofici, Bologna 1669, pp. 4-35). L’esperienza del mattone tinto metà di nero e metà di bianco, descritta in due lettere a Galileo (ibid., pp. 47-49) lo portò alla conclusione del diverso assorbimento di calore da un colore all’altro. Si occupò pure di algebra, senza farle compiere progressi degni di nota, anche perché gli scritti relativi restarono inediti fino ai nostri tempi. Fin dal 1635 aveva cercato inutilmente d’interessare anche il Galilei a questi problemi, rivolgendosi poi al Cavalieri, ben più attento a tali questioni. Lo interessavano soprattutto le diverse possibilità dei numeri positivi e negativi nei calcoli algebrici, e il trasferimento di dati rapporti dai numeri alla geometria piana e solida. Anche i suoi studi sul magnetismo e sulla calamita, condotti con metodo rigidamente geometrico, ebbero poca risonanza sia perché inediti (li pubblicò il Favaro nel 1884), sia perché non vanno al di là delle teorie magnetiche del Gilbert e del Galilei. I suoi interessi andavano anche alla meteorologia (costruì un pluviometro, da lui chiamato orinale) e perfino a questioni peregrine, come la struttura delle strade romane selciate o il modo per conservare i grani. Rimase a Roma fino alla morte, avvenuta per una malattia alla vescica il 9 apr. 1643 nel monastero di S. Callisto, e venne sepolto nella basilica di S. Paolo, nel sepolcro dei monaci cassinesi.
Amicizia durata quarant’anni, quella tra il Galilei e il C. può essere considerata esemplare come relazione tra un grande maestro e un grande allievo, in cui la varietà di interessi scientifici comuni fu stimolo per reciproci consigli e indicazioni di lavoro. Portatore e fedele interprete delle teorie galileiane presso i giovani più aperti e curiosi (dalla sua scuola uscirono un Cavalieri, un Borelli, un Ricci, un Torricelli) un poco forse assomigliava all’amato maestro, nello spirito ricco di vivace umorismo e nella ferma fede in un ideale di razionalità scientifica; il loro epistolario (rimangono poche lettere del Galilei e molte dei C.) è denso di episodi curiosi, di allusioni ironiche, di note scherzose e argute, pur tra righe di una serietà scientifica e di un amore per la verità della scienza sperimentale mai rinnegati.
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