GIANNELLI, Basilio
Nacque il 1° febbr. 1662 a Vitulano, nei pressi di Benevento, nel Principato Ulteriore, da Domenico e Isabella Di Barto.
Compì i primi studi nel paese natio, ricevendovi "quella educazione e quella disciplina che lo condussero all'acquisto di un buon costume e di buone lettere" (Educazione al figlio, p. 2). Alla morte del padre fu a Napoli, dove, accanto ai prediletti studi letterari, intraprese quelli giuridici, orientandosi verso la professione forense. Gli furono maestri Biagio Cusano e Vincenzo Widman. Del primo, suo conterraneo, poeta d'ispirazione marinista e autorevole professore dello Studio napoletano, delineò il ritratto nelle sestine della Descrizione di Vitulano; del secondo scrisse come di colui al quale - insieme con Francesco D'Andrea - "dovemo l'essersi introdotto nel nostro foro l'uso della più vera ed antica eloquenza" (lettera ad A. Magliabechi, 25 marzo 1687). Il dissidio tra la necessità di praticare la carriera forense e il desiderio di una totale dedizione alle lettere e alla poesia condizionò i primi anni dell'esperienza del G. a Napoli, come egli stesso confessò in una lettera al Magliabechi del 12 febbr. 1687.
Amico di G. Vico, il G. fu pienamente partecipe di quel filone di cultura anticuriale, antiscolastica, cartesiana, innovativa nei metodi d'indagine scientifica, vicina alle esperienze europee, che si sviluppò a Napoli a metà del secolo ed ebbe in Tommaso Cornelio, Leonardo Di Capua, Francesco D'Andrea i protagonisti più rappresentativi, e nell'attività dell'Accademia degli Investiganti il punto di riferimento collettivo. Al rinnovamento culturale di quegli anni, infatti, si accompagnò la crescita intellettuale e politica del ceto civile, legato alle professioni liberali, che intravide nuove opportunità di un'autonoma funzione civile e politica nell'incrinarsi del vecchio equilibrio tra aristocrazia e Viceregno.
Agli anni dal 1681 al 1684 risalgono le prime liriche amorose del Giannelli. Nell'Educazione al figlio, composta in età matura, trattando delle sue prime esperienze poetiche, egli le colloca all'interno del movimento neopetrarchista, sorto a Napoli verso la metà del Seicento come reazione alle forme estreme e parossistiche del marinismo. Leonardo Di Capua, Tommaso Cornelio e Carlo Buragna furono gli antesignani di questa corrente che porterà, in poesia, alla creazione del linguaggio semplice e musicale dell'Arcadia.
Al 1685 risale l'inizio della corrispondenza tra il G. e A. Magliabechi. Al bibliotecario toscano, che per oltre un quarantennio fu guida e autorevole mediatore di quella "repubblica dei letterati" che unì in una fitta trama epistolare studiosi italiani e stranieri, il G. indirizzò, tra il 1685 e il 1690, 17 delle 29 lettere che costituiscono il totale dell'epistolario a noi giunto. Attraverso di esse è possibile seguire, intrecciata con le vicende biografiche, la parabola dell'attività poetica del Giannelli. Nel 1687 egli pregava il corrispondente di intercedere presso il granduca di Toscana Cosimo III affinché gli concedesse un vitalizio per potersi interamente dedicare alla composizione di un poema, la Buda conquistata, con il quale intendeva celebrare la vittoria riportata dall'imperatore Leopoldo I contro i Turchi. Ne compose soltanto il primo canto (andato perduto) e più tardi, in una canzone dedicata a Giuseppe Valletta (Poesie, p. 161), accennando all'impresa interrotta, espose la convinzione che fosse impossibile per la poesia giungere a esiti positivi in un ambiente di assoluta arretratezza culturale e civile. Sempre nel 1687 il G. comunicava al Magliabechi (25 marzo 1687) l'intenzione di raccogliere in volume le sue rime, a ciò "mosso dalle spesse preghiere degli amici". La preparazione della raccolta iniziò nel maggio del 1689 e si concluse l'anno dopo con la pubblicazione a Napoli del volume delle Poesie, dedicato a Niccolò Gaetani dell'Aquila d'Aragona, che aveva sostenuto le spese della stampa.
Il volume, il cui contenuto era in parte già noto, si articolava in tre sezioni, corrispondenti ad altrettanti generi di poesia, tanto da far supporre che il G. intendesse proporre ai rimatori contemporanei, che si allontanavano sempre più dalla matrice petrarchesca, modelli poetici esemplari, secondo il magistero del grande trecentista. è questo l'aspetto che meglio fu colto dai contemporanei, che lodarono la perfezione stilistica e considerarono le rime del G. composizioni "che dovrebbero servir di regola a chi è chiamato a studij delle muse più accurate" (B. Bacchini, in Giornale dei letterati di Parma, I [1690], p. 6). In una lettera al G. F. Redi gli comunicava che le sue rime erano lette "da' primi letterati di Firenze […] con diletto uguale con cui si leggono le rime del Petrarca" (Educazione al figlio, p. 163). Nei sonetti, il tema amoroso è svolto seguendo i motivi tradizionali petrarcheschi, e su di essi sono ricalcati pure i modi e i luoghi della vicenda amorosa. Ma è nel motivo, pure canonico, del contrasto tra la natura fiorente e la tristezza causata dal travaglio amoroso che la poesia del G. supera l'impostazione petrarchesca e acquista una precisa coloritura arcadica. Tale esito più che nei nomi pastorali dei suoi personaggi - Filli è quello della donna amata - risulta evidente nella raffigurazione idilliaca e serena della natura, all'interno della quale si risolve, pacificandosi, il tumulto delle passioni. La seconda sezione delle Poesie raccoglie rime dedicate a temi filosofici e morali, mentre una terza, distinta anche tipograficamente dalle precedenti, presenta sonetti celebrativi e d'occasione dedicati ad alcuni dei protagonisti del rinnovamento culturale napoletano: L. Di Capua (CXXI), F. D'Andrea (CXXXVIII), Giuseppe Valletta (IX), Nicolò Caravita (CLVIII), Gregorio Caloprese (CXLV). In essi, temi derivati dalle riflessioni degli Investiganti, come la teoria dei corsi e ricorsi storici e il motivo lucreziano della decadenza, si intrecciano a pessimistiche riflessioni sulle difficoltà e il crescente isolamento che circondava, a Napoli, l'azione intellettuale.
Già dal marzo 1688, infatti, Francesco Paolo Manuzzi, giovane avvocato di Conversano, aveva reso a monsignor Giuseppe Nicola Giberti, ministro del tribunale del S. Uffizio, una spontanea deposizione con la quale denunciava l'esistenza a Napoli di un gruppo di persone seguaci dell'atomismo. Ne avrebbero fatto parte il G. e Giacinto De Cristofaro, giurista e poi matematico, figlio del celebre e popolare avvocato Bernardo, dai quali, secondo le sue accuse, il Manuzzi sarebbe stato iniziato alle idee eretiche. Il Manuzzi chiamò in causa anche Filippo Belli, che con il G. e il De Cristofaro aveva frequentato lo studio legale di Carlo Cito, e altri, amici e familiari, frequentatori di quel circolo di giovani - detto degli "ateisti" - che solevano riunirsi presso la farmacia di Carlo Rosito e che "sebbene beffeggiati col nomignolo di "decem sapientes" seppero fare non pochi proseliti col loro continuo discorrere della dottrina degli atomi, di Epicuro, di Lucrezio e della mortalità dell'anima" (Nicolini, 1932, p. 83).
Fu l'inizio di un complicato processo che, a fasi alterne, si protrasse per nove anni, giungendo a lambire personaggi come F. D'Andrea, e che fu visto come la dura reazione del potere ecclesiastico e dei circoli nobiliari più ortodossi al movimento rinnovatore e alla sua capacità di collegarsi con le strutture del governo vicereale. Le dottrine che si intendeva colpire erano quelle che più pericolosamente insidiavano l'autorità della Chiesa e l'integrità della fede: le opere di Cartesio e di Gassendi, l'interesse che circondava a Napoli l'opera e la figura di Galilei, l'ipotesi atomistica che legava la ricerca umanistica all'indagine scientifica.
Il ritrovamento dei documenti originali ha permesso una ricostruzione più accurata delle vicende processuali e ne ha arricchito il quadro d'insieme, suggerendo che dietro l'iniziativa del Manuzzi, che era agente di Giulio Acquaviva d'Aragona, conte di Conversano, vi fosse il tentativo di questo turbolento e riottoso feudatario, da tempo in rotta con il potere vicereale, di coinvolgere i più alti consiglieri del viceré in uno scandalo di vaste proporzioni. Il G. era, infatti, notoriamente in stretti rapporti, oltre che con Francesco e Gennaro D'Andrea, con Giuseppe e Federico Cavalieri, quest'ultimo segretario del Regno, divenuto in quell'anno avvocato fiscale della Sommaria, e con Fulvio Caracciolo.
Il terremoto del giugno 1688 interruppe l'istruzione del processo proprio mentre da Roma si sollecitava l'incarcerazione degli imputati. Nel marzo 1689, il G., consapevole ormai di essere tra i principali indagati, si presentava, per viam praeventionis, dinanzi al tribunale del S. Uffizio. Progettava, intanto, un viaggio alla corte di Spagna al seguito del reggente del Consiglio d'Italia Gennaro D'Andrea (lett. al Magliabechi del 21 febbr. 1690) e alla fine di luglio era effettivamente giunto a Madrid. In questa città alloggiava nella medesima casa del Manuzzi, anch'egli in Spagna per incarico del conte di Conversano. Nell'agosto 1691 il nuovo delegato del S. Uffizio a Napoli decise, anche a seguito di rinnovate pressioni provenienti da Roma, di dar corso alla denuncia, disponendo l'arresto del De Cristofaro e di altre "persone civili" e chiedendo a Madrid l'incarcerazione del Giannelli.
Con ciò si riapriva, di fatto, lo scontro tra Stato e Chiesa sul terreno della vecchia questione delle competenze del S. Uffizio nel Regno. La reazione delle forze cittadine fu immediata e unanime, e determinò l'intervento del viceré, che impose il passaggio del processo alla corte arcivescovile e l'allontanamento del delegato del S. Uffizio da Napoli. A tale decisa presa di posizione della città corrispose un analogo irrigidimento della Curia romana e dell'arcivescovo di Napoli Giacomo Cantelmo, che portò a un'inflessibile ripresa della procedura anche tramite pressioni sull'Inquisizione spagnola. A seguito di ciò, nel dicembre 1691 comparve spontaneamente davanti ai giudici spagnoli il Manuzzi, che riconfermò le accuse rese a Napoli, aggiungendo anche nuovi nomi, tra i quali quelli dei fratelli del G., Giacomo e Gennaro. Ai primi del 1692 il G. fu incarcerato. Nel corso del primo interrogatorio, il 18 gennaio, egli tentò di sostenere la tesi che ad accusarlo erano state persone a lui ostili che avevano riferito, distorcendone il senso, alcune libere conversazioni avvenute nella libreria di Antonio Bulifon, nel corso delle quali si era discusso delle teorie di Lucrezio circa la mortalità dell'anima. Venne interrogato per altre cinque volte, finché, nel corso dell'ultima udienza, il 21 marzo, piegato forse anche dalla tortura, ammise ogni accusa, confessando di essere responsabile degli errori nei quali erano caduti il Manuzzi e il De Cristofaro. Dichiarò inoltre che avrebbe voluto presentarsi all'Inquisizione di Napoli, ma la paura di essere incarcerato lo aveva trattenuto. Eguale timore aveva avuto a Madrid, ma la notizia che a Napoli era stata chiesta la sua incarcerazione lo aveva spinto a costituirsi; era però stato arrestato prima che potesse farlo. Il 27 marzo fu nuovamente chiamato dinanzi ai giudici per abiurare gli errori filosofici che gli erano stati addebitati e ascoltare la condanna del tribunale. Questa, per l'intervento del Consiglio d'Italia, che già nella seduta del 12 marzo aveva chiesto a Carlo II di intercedere presso l'inquisitore generale per la liberazione dell'imputato, fu più mite del previsto, risolvendosi nella confisca dei beni (che fu subito condonata), nell'esilio da Napoli e da Madrid per quattro anni, e nella proibizione di leggere i libri degli autori che lo avevano indotto all'eresia.
Il G., imbarcatosi su un mercantile inglese, ritornò subito in patria e il 23 agosto depose un'ultima volta a Napoli dinanzi al tribunale che stava giudicando il De Cristofaro. La deposizione resa dal G. sembra rispecchiare completamente lo schema inquisitoriale (tranne che per non aver voluto ammettere di aver negato il miracolo di s. Gennaro) e riflette il desiderio di uscire definitivamente da quella vicenda, che si concluse cinque anni dopo con la condanna del De Cristofaro, del quale peraltro il G. accentuò la responsabilità rispetto a quanto aveva detto ai giudici spagnoli.
Il G. si ritirò quindi a Vitulano sotto la protezione dell'arcivescovo di Benevento, cardinale V.M. Orsini, con il quale era in rapporto dal 1686, quando il giovane prelato era giunto da Cesena a reggere la diocesi di Benevento. Il 24 nov. 1695, riallacciando i rapporti epistolari con il Magliabechi attribuì il lungo periodo di silenzio (la lettera precedente era del maggio 1690) all'"infortunio accadutomi in Ispagna, l'assenza mia da Napoli, le infermità e vari altri accidenti". Con la medesima lettera inviò un'Orazione panegirica all'eminentissimo signor cardinale Orsini, arcivescovo di Benevento (Benevento 1693), un Discorso nel quale si prova che il corpo di san Bartolomeo apostolo stia in Benevento (ibid. 1695; rist. 1713) e una canzone per la morte di L. Di Capua, che fu poi inserita nella raccolta Delle rime scelte di vari illustri poeti napoletani (II, Firenze 1723, pp. 177-181). Annunciò inoltre il proposito di scrivere una storia d'Italia in continuazione di quella di F. Guicciardini, di cui aveva già composto i primi due volumi, che non ci sono pervenuti, e che rimase per il resto allo stato di progetto. L'anno seguente, trascorso il periodo di esilio cui era stato condannato, ritornò nella capitale (lett. al Magliabechi del 18 dic. 1696). Qui cercò invano di ricucire il filo dei rapporti con quel mondo culturale dal quale la vicenda inquisitoriale lo aveva progressivamente allontanato. Si dedicò, con successo, all'attività forense - non ci sono giunti tre volumi di sue allegazioni, "scritte con una eleganza e purità di stile adattato all'uso del Foro" (Educazione al figlio, p. 4) - e agli studi eruditi, componendo versi che figurarono in numerose raccolte celebrative dell'epoca. Nel 1701 pubblicò l'Orazione per l'elezione del gloriosissimo Filippo V in re delle Spagne, per richiesta - come si legge nella prefazione - di Andrea d'Avalos principe di Montesarchio, che aveva guidato in quello stesso anno la repressione della congiura filoaustriaca detta di Macchia. Intorno al 1710 si diede a comporre l'Educazione al figlio, una raccolta di consigli e precetti, dedicata al figlio primogenito Domenico, a imitazione degli ancora inediti, ma largamente noti, Avvertimenti ai nipoti di F. D'Andrea.
L'opera, che il G. non intese scrivere "per pubblico insegnamento" e perché fosse data alle stampe, comparve postuma nel 1781 (Educazione al figlio dell'avvocato e g. c. napoletano Basilio Giannelli seniore arricchita di note istorico-critiche dell'avvocato Basilio Giannelli juniore, Napoli 1781). In essa di grande interesse sono le notizie che il G. dà sulla vita letteraria e forense della Napoli tra la fine del Seicento e i primi anni del Settecento. L'opera attirò l'interesse di B. Croce per la parte nella quale il G. discuteva delle teorie estetiche di Gregorio Caloprese, maestro di G.V. Gravina e poi di P. Metastasio, in relazione soprattutto al "valore da riconoscere in arte all'espressione degli affetti" (Croce, 1929, p. 224).
Il G. morì, prematuramente, a Napoli, il 23 giugno 1716, colpito nel sonno da un cameriere che voleva derubarlo. Fu arcade dal 1706, con il nome di Cromeno Tegeatico.
Fonti e Bibl.: Un volume di Varie poesie, in parte inedite, del G. è conservato nella Bibl. nazionale di Napoli, ms. XIII.C.107; uno di Poesie inedite nella Bibl. provinciale di Benevento, ms. 120; A. Mellusi, Le sestine inedite di B. G. su la valle di Vitulano, in Riv. stor. del Sannio, I (1914-15), pp. 359-374; le lettere al Magliabechi sono pubblicate in Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi, a cura di A. Quondam - M. Rak, I, Napoli 1978, pp. 495-524. D. Confuorto, Giornali di Napoli dal 1679 al 1699, a cura di N. Nicolini, II, Napoli 1930, p. 1; G. Vico, Opere, a cura di F. Nicolini, Milano 1953, p. 40; L. Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti (1688-1697), Roma 1974; Panfilo Teccaleio [G. Cito], B. G., in G.M. Crescimbeni, Notizie istoriche degli Arcadi morti, II, Roma 1721, pp. 136-140; G. Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, III, Venezia 1734-47, p. 76; C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1884, pp. 147, 399; L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, II, Città di Castello 1892, pp. 57-61; B. Croce, La filosofia di G. Vico, Bari 1911, p. 278; R. Cotugno, La sorte di G.B. Vico e le polemiche scientifiche e letterarie dalla fine del XVII secolo alla metà del XVIII secolo, Bari 1914, pp. 51, 177, 188; B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1924, p. 174; Id., Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929, pp. 219 s., 224; F. Nicolini, Nuove ricerche sulla vita del Vico, in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche di Napoli, III (1929), pp. 14-16 e passim; B. Croce, Conversazioni critiche. Serie terza, Bari 1932, p. 40; F. Nicolini, La giovinezza di G.B. Vico (1668-1700), Bari 1932, passim; Id., Aspetti della vita italo-spagnola nel Cinque e Seicento, Napoli 1934, pp. 326, 328; R. Pedicini, Un poeta del Seicento: B. G., in Id., Saggi e profili letterari, Milano 1939, pp. 113-158; A. Zazo, Due lettere inedite del cardinale V.M. Orsini (1698-1700), in Samnium, XIII (1940), p. 110; F. Nicolini, La religiosità di G.B. Vico, Bari 1949, pp. 21, 24, 32, 51; A. Zazo, Un'annosa controversia per la libertà di commercio fra Napoli e Benevento (1707-1719), in Samnium, XXIII (1950), p. 96; N. Badaloni, Introduzione aG.B. Vico, Milano 1961, pp. 192, 194, 298, 327; R. Colapietra, Vita pubblica e classi politiche del Viceregno napoletano (1656-1734), Roma 1961, pp. 71, 85; P. Giannantonio, L'Arcadia napoletana, Napoli 1962, pp. 142-152; S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965, passim; M. Vitale, Leonardo di Capua e il capuismo napoletano, in Acme, XVII (1965), pp. 95, 142 s.; V.I. Comparato, Giuseppe Valletta. Un intellettuale napoletano della fine del Seicento, Napoli 1970, pp. 143-148, 246, 263; A. Quondam, Dal Barocco all'Arcadia, in Storia di Napoli, IV, Napoli 1970, pp. 852-861; G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, Napoli 1972, ad ind.; T. Giordano, Introduzione al Canzoniere di B. G., in Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Napoli, s. 4, XVI (1973-74), pp. 137-155; S. Basile - A. Ferraiuolo, Poeti beneventani dal Seicento al Novecento. Mostra bibliografica di testi poetici, Benevento 1988, p. 17; D. Giorgio, Autobiografia meridionale: studi e testi, Napoli 1997, ad nomen.