CONTARINI, Bartolomeo
Nacque, quasi certamente a Venezia, nel 1475, figlio primogenito di Paolo di Leonardo il quale a un certo punto della sua vita era noto come "il vecchio", e della sua seconda moglie Maddalena Michiel (nel 1453 aveva sposato una figlia di Bartolomeo Pesaro). Ebbe con grande probabilità - le fonti discordano - tre fratelli: un Francesco, morto giovane; Fantino, nato nel 1477, che percorse una buona carriera politica entrando a far parte dei Consiglio dei dieci e morì nel 1537; infine Domenico, morto nel 1536. La vita politica del C. cominciò molto presto, con l'ingresso in Maggior Consiglio prima del venticinquesimo anno di età; nel 1500 venne eletto provveditore a Caravaggio ed è già ricordato in quellaoccasione come fu "viceconsolo in Alessandria"; nel 1498 si era sposato con una figlia di Bernardo Zane; contrarrà un secondo matrimonio nel 1517 con una figlia di Piero Venier. Nel 1502 era nuovamente oltre mare, prima ad Alessandria e poi a Damasco, dove successe come console a Piero Balbi che era morto durante la carica.
La permanenza del giovane C. a Damasco fu particolarmente agitata: nelle sue lettere, così come in quelle dei mercanti veneziani di lì, lamenta la grande ostilità della gente del luogo nei confronti dei Veneziani; riferisce preoccupato della dissestata situazione del cottimo di Damasco e dei suoi tentativi di mandar per le lunghe le cose con i creditori; racconta poi che, essendo fuggito il signore di Tripoli, "come dicono, con ducati 700 mila" (Sanuto, V, col. 163), recandosi a Cipro su una nave veneziana, i Turchi imprigionano i veneziani di Damasco, compreso il C., liberandoli però dopo due giorni; riferisce, poi, piuttosto diffusamente dell'odio mortale che c'è fra Turchi e Persiani e trasmette alla Signoria una lettera dello scià di Persia che vuole contatti con i cristiani ed offre la sua amicizia a Venezia.
Nel 1506 tornò a Venezia ed il 7 luglio riferì in Senato; poco dopo fu eletto patrono all'Arsenale ed entrò a far parte della zonta dei Pregadi. Ormai il C., ancora assai giovane, si avviava a percorrere una carriera prestigiosa e ad assumere un ruolo di primissimo piano nella ripresa politica e militare di Venezia dopo la battaglia di Agnadello.
Agli inizi del 1508 il C. si trovò al centro di una vicenda che gli avrebbe procurato in seguito parecchi fastidi. Era fallito infatti il banco di Maffeo Agostini e ftatelli, i quali si trovavano scoperti per 55.000 ducati ed avevano chiesto invano una momentanea copertura al Consiglio dei dieci. I creditori, riunitisi in una chiesa nei pressi di Rialto, decisero di eleggere cinque capi dei creditori: tre patrizi veneziani, uno dei quali fu il C., e due forestieri, i quali iniziarono la ricerca e la confisca dei beni dei falliti; gli Agostini nel frattempo si erano rifugiati in un monastero, dopo aver spedito la famiglia a Mantova. Nella ripartizione dei beni degli Agostini tra i creditori il C. e gli altri vennero evidentemente a ledere interessi ecclesiastici giacché dopo alcuni anni, nel marzo 1520 il C. ed Alvise Malipiero vennero scomunicati in relazione a quell'episoffio; ne derivò una lunga trattativa, con interventi dei legato pontificio in Collegio, una prima sospensione dalla scomunica, un rinnovo di essa nel maggio 1521 ed un nuovo ritiro, probabilmente definitivo, nel 1523.
Nel 1509, l'anno della grande crisi, il C. fu uno dei dodici uomini, due per sestiere, incaricati di sorvegliare e nel caso di espellere i forestieri sudditi del re di Francia in vista dell'estrema difesa; la funzione venne affidata a uomini tra i più notevoli dei Pregadi ed il C. era in pratica considerato, con Zuan Antonio Dandolo, capo del sestiere di San Marco. Nel settembre 1509 fu alla difesa di Padova; nel gennaio 1510 fu provveditore sopra i Presoni, incaricato del delicato compito di trattare lo scambio dei prigionieri; ebbe, inoltre, Fincarico di reclutare uomini nel suo sestiere e nell'agosto dello stesso anno venne eletto fra i Tre savi a tansar. Negli anni 1511 e 1512 si dedicò ancora alla custodia e allo scambio dei prigionieri e al reclutamento di uomini; nell'aprile 1512 era di nuovo in Senato; alla fine dell'anno venne eletto, con 50 ducati al mese, capitano a Crema, carica dalla quale sarebbe uscito con enorme prestigio.
Crema era stata recuperata da poco, consegnata ai Veneziani dal capitano milanese Benedetto Crivelli; le truppe venete vi erano comandate da Lorenzo Anguillara detto Renzo da Ceri. Il C. arriva a Crema il 21 genn. 1513 e trova problemi enormi: innanzi tutto quello della difesa della città, questa volta dagli Spagnoli e loro alleati, essendosi Venezia accostata al re di Francia; Renzo da Ceri respinge vigorosamente l'assalto nemico. Poi la situazione finanziaria, ed il C. è costretto a chiedere continuamente soldi per pagare i fanti; c'è anche il problema dell'immigrazione, dato che molti dal ducato di Milano vogliono trasferirsi in territorio veneziano; nel '15, mentre il C., quantunque assente da Venezia viene eletto consigliere, in città scoppia la peste. Le lettere del C. si fanno sempre più drammatiche: bisogna salvare Crema e trovar denari ad ogni costo; in Collegio Francesco Contarini in un appassionato intervento espone la necessità di nuove tasse e di mandare a Crema i primi denari raccolti; la sua proposta è approvata.
Alla fine del 1515, dopo averlo lungamente chiesto, il C. tornò a Venezia; il 2 dicembre riferì in Senato dei suoi trentaquattro mesi di capitanato costellati di fastidi, travagli, guerre, peste e carestia; affermò di aver mantenuto Crema a dispetto dei nemici e lodò i Cremaschi come fedelissinii. Le lodi che gli vennero tributate dal doge e dai membri del Collegio danno l'impressione di andare oltre i modi dei consueto uso di lodare i rettori al loro ritorno a Venezia. Il 6 dicembre Andrea di Piacenza, venuto oratore della Comunità cremasca, ebbe in Collegio calde parole di ammirazione e gratitudine per il Contarini. Subito dopo il C. entrò nella carica di consigliere ed il suo nome compare in uno dei frequenti elenchi dei patrizi che prestavano allo Stato in quei drammatici frangenti: prestò 1.000 ducati che, anche a confronto con la media delle somme generalmente prestate, ci appaiono veramente molti, sicché ne ricaviamo l'impressione che il C. dovette appartenere ad una famiglia piuttosto ricca.
Negli anni 1515 e 1516 il suo nome compare frequentemente nei più importanti dibattiti della Signoria e del Senato; particolarmente attivo ci appare in materia finanziaria e fiscale. Nel dicembre 1516, dopo i rifiuti di Cristoforo Moro e Paolo Cappello (ed i savi approvarono una "parte" che sosteneva che "è gran vergogna che li oratori electi al Signor Turco refudano"), il C. venne nominato, insieme con Alvise Mocenigo, appunto oratore al sultano Selim; questi aveva concluso vittoriosamente la guerra contro i Mamelucchi d'Egitto e la Signoria aveva deciso di inviargli due oratori per le rituali felicitazioni.
Il 25 maggio 1517 in Collegio si dibatté la commissione da affidare ai due oratori: si fissò l'itinerario che avrebbero dovuto percorrere, si raccomandò loro di usare parole "grave, breve et accomodate", di impostare il problema dei tributo prima pagato al sultano d'Egitto, di dire che le cose d'Italia non erano né "troppo alte né troppo basse" ma di annunziare altresì la "recuperation dil Stado" di Terraferma.
Dopo essersi fermati a Candia e a Cipro, i due oratori giunsero in Egitto dove vennero ricevuti da Selim; questi mostrò di essere soddisfatto dei colloqui, inviò una lettera di gradimento a Venezia e chiese che uno dei due oratori lo seguisse a Costantinopoli; andò con lui il Mocenigo. Ritornando a Venezia il C. si fermò a Cipro ed in quei giorni morì il luogotenente veneziano a Cipro Fantino Michiel; il C. ricevette l'ordine della Signoria di restare a Cipro quale luogotenente in attesa del successore del Michiel; a questo punto il C. si trovò di fronte la resistenza del viceluogotenente Sebastiano Badoer, il quale sostenne che avrebbe dovuto assumere lui la carica adinterim. La questione venne risolta con l'arrivo dei successore nominato da Venezia, ma la Signoria ingiunse al C. di restare ancora a Cipro come provveditore generale. Nel settembre 1518, ancora assente da Venezia, venne eletto savio del Consiglio; nel novembre provveditore sopra le Acque e nel dicembre savio alla Mercanzia, carica che però non poté assumere "essendo già provedador" sopra le Acque. Nel marzo 1519 giunse a Venezia e riferì parte in Senato, parte, per argomenti più segreti, ai capi dei Dieci; il doge lo lodò molto ed affermò che il C. era "uomo da adoprarlo in ogni gran cosa".
Nel 1519, come provveditore sopra le Acque, fu a Treviso, a dirigere una grossa operazione idraulica sulle acque dei Piave; nell'ottobre venne eletto nella zonta del Consiglio dei dieci; nel febbraio 1520 provveditore all'Armar; nell'agosto 1521 fu ballottato per la carica di provveditore generale di Terraferma, non riuscendo eletto per pochi voti e subito dopo venne eletto tra i Dieci savi a tansar; nel 1522 fu governatore alle Entrate, confermando la sua predisposizione a trattare materie economico-finanziarie. Nel 1523 fece parte dei quarantuno elettori dogali, ma dalle vicende di quella elezione non sembra che il C. fosse del tutto favorevole ad Andrea Gritti, che risulterà poi eletto. Nell'ottobre fece parte della zonta straordinaria del Consiglio dei dieci "in materia di Roma"; poco dopo fu nuovamente eletto consigliere. Ormai il C. era definitivamente entrato nel ristretto novero di oligarchi che si dividevano le massime cariche politiche della Repubblica (consigliere, consigliere dei Dieci, savio) passando pressoché ininterrottamente da una all'altra. Confermato nella zonta dei Dieci nel 1524. entrò poco dopo a far parte del Consiglio dei dieci vero e proprio e nel settembre lo troviamo capo dei Dieci; fu vicecapo dei Dieci nel febbraio 1525 e nuovamente capo nel maggio; nel gennaio 1526 fu della zonta e non molto dopo venne di nuovo eletto consigliere.
Il suo nome appare, spesso come promotore, in tutte le più importanti decisioni prese dal Consiglio e dal Collegio in quegli anni e nelle cerimonie pubbliche figura regolarmente accanto ai massimi dignitari della Repubblica; intervenne come capo dei Diecii, insieme con gli avogadori di Comun, nella inquisizione sui corrotti costumi delle monache della Celestia; si occupò, come di consueto, dei problema finanziario e dei denari necessari alla guerra che si trascinava ormai da anni e che ora, passata la Repubblica di Venezia nello schieramento antimperiale, comportava maggiori pericoli dovuti al rischio di attacchi da nord oltre a quelli da ovest.
Nel 1526 e nel 1527 il C. venne ballottato prima per la carica di provveditore generale in campo, poi per quella di capitano generale da Mar. Nel luglio 1527 fu nuovamente eletto nella zonta del Consiglio dei dieci.
Nel 1527, dopo il sacco di Roma, si registra uno sbandamento nelle terre papali: alcune città tentavano di recuperare la libertà, altre venivano occupate dai signori vicini. Ravenna era stata occupata da un gruppo di armati inviati da Venezia al comando di Giovanni Tiepolo, che ne deteneva la tutela a nome del papa. A questo punto il C. fu eletto provveditore a Ravenna; non si trattava di un compito facile: infatti si doveva mantenere Cambigua situazione diplomatica impostata dal Tiepolo e nel contempo predisporre il dominio veneziano, curando l'approvvigionamento della città, amministrando giustizia, provvedendo agli armati ed alle fortificazioni. Il C. partì per Ravenna con la commissione di custodire la forte a nome della lega, di esercitare giurisdizione civile e criminale sui soldati e sulla popolazione, di curare l'approvvigionamento delle biade. Ma il C. non poté assolvere al suo compito: il 22 luglio una lettera del suo segretario annunciava che era malatissimo; subito Alvise Foscari venne nominato suo successore; una lettera del 27 luglio 1527 ne annunciava la morte.
Fu sepolto a S. Michele di Murano. Il 15 genn. 1512 il C. aveva redatto il suo testamento; ebbe un figlio di nome Paolo ed una figlia naturale, non nominata nelle genealogie, ma di cui abbiamo notizia attraverso il suo matrimonio, contratto in giovane età, con Giacomo Boldù.
Fonti e Bibl.: La relazione dell'ambasceria a Selim è stata pubblicata in Relazioni degli ambasciatori veneri al Senato, a cura di E. Alberi, s. 3, III, Firenze 1855, pp. 51-52, 56-68. Vedi inoltre: Arch. di Stato di Venezia, Capi Consiglio dei dieci, Lettere rettori, b. 66, ff. 23-72; Ibid., Testamenti, Atti Grosolario, 1183, c. 88; 1585, c. 106; Ibid., M. Barbaro, Arbori de' Patritii veneti, II, v. 271v; Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Mss. Ital., cl. VII. 15 (= 8304): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, II, c. 312r; M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1903, II-XXXVIII, XL-XLV, ad Indices; P. Paruta, Historiavinetiana, I, Venezia 1718, pp. 288, 477; A. Morosini, Historiaveneta, I, Venezia 1719, p. 226; S. Romanin, Storia docum. diVenezia, V, Venezia 1856, p. 373, 473; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, III, Venezia 1830, p. 195; VI, 2, ibid. 1853, p. 589.