CAVALCANTI, Bartolomeo (Baccio)
Nacque a Firenze il 14 genn. 1503 da Mainardo, che aveva assolto qualche incarico nella Repubblica, e da Ginevra Cavalcanti, figlia di Giovanni, il quale era stato amico di Marsilio Ficino.
Gli anni della giovinezza trascorsi nella città natale furono caratterizzati da una serie di relazioni che orientarono i gusti del C. verso la letteratura umanistica e la filologia: frequentò Antonio degli Alberti e Pier Vettori, col quale rimarrà legato per tutta la vita, Nicolò Ardinghelli, Giovanni Della Casa e Luigi Alamanni, che il C. ritroverà in Francia durante l’esilio da Firenze. Con questi compagni seguì le lezioni di Marcello Virgilio Adriani, e non è impossibile che ascoltasse quelle di Francesco Cattani da Diacceto. Comunque l’avvenimento più importante della sua giovinezza è da ravvisarsi nella sua frequentazione alle riunioni degli Orti Oricellari: qui egli conobbe il Machiavelli, “i ragionamenti del quale – si legge nella prima lettera superstite del C. –, come suavissimi e prudentissiani, ogni giorno più desidero né posso fare che d’esserne privato non mi doglia”, e si preparò dietro l’esempio delle relazioni e delle lettere machiavelliane (“che appresso di me sono in luogo di oracoli”), alla vita politica intesa come estrinsecazione di un sentimento repubblicano di ispirazione classicheggiante e, forse più sottilmente, permeata di una altrettanta decisa volontà di ridurre razionalmente i dati reali entro uno schema del sapere che corrispondeva, appunto, alla “scienza” politica del Machiavelli.
È assolutamente rilevante questo incipit culturale, che verrà messo a dura prova e progressivamente negato dall’esperienza dell’esilio e dalla oggettiva impossibilità di dominare – in concreto e intellettualmente – gli avvenimenti pubblici di cui il C. sarà talvolta solo spettatore: l’impotenza politica e la difficoltà di intervenire sulle “cose del mondo” limiteranno allora in maniera drammatica le illusioni di una “filosofia pratica”, di cui ragionava ancora il C. in una lettera al Vettori del maggio 1540, e lo scrittore ripiegherà con nostalgica, consapevole diffidenza verso le matrici puramente letterarie della propria cultura, riproponendo il patrimonio degli antichi con lo scetticismo di chi sa di non poter più parlare ai contemporanei.
Nel fallimento delle aspirazioni e nel quadro di un disagio economico implicante l’intera famiglia la letteratura sarà anche un richiamo ai piaceri nobilmente dilettanteschi del giovane, che nel 1519 si era visto citato da Antonio Francino nella dedica ad una edizione dell’Odissea e che nel 1527 aveva partecipato alla celebre edizione giuntina del Decameròn; e sarà segno di prodigalità urbana, di gentilezza conviviale, così efficacemente rievocata dal Berni allorché, nel “Capitolo sopra la gita di Nizza” (1533), ricorderà il proprio soggiorno nella villa cavalcantiana del Pino in Val di Pesa: “Col desiderio a quel paese torno / dove facemmo tante fanciullezze / nel fior degli anni più fresco e adorno. / Vostra madre mi fe’ tante carezze”. Nel 1523 il C. sposò Dianora Gondi, dalla quale ebbe un figlio, Giovanni, e due figlie, Lucrezia e Cassandra, andate rispettivamente in matrimonio ad Albizzo Del Bene ed a Pierantonio Bandini. La sua attività diplomatica ebbe inizio nel 1527, all’indomani del Sacco di Roma, quando a Firenze si era ristabilita la Repubblica sotto il gonfalonierato di Niccolò Capponi. In un primo tempo fu incaricato dal governo fiorentino di accompagnare attraverso il territorio di Firenze i legati imperiali Bartolomeo di Gattinara e Lodovico di Lodrone diretti a Parma e a Piacenza (la Signoria era stata incline a concedere il salvacondotto per stabilire una certa equidistanza diplomatica tra gli Imperiali e i collegati di Cognac); nella primavera del 1528 fu spedito come inviato speciale della Repubblica a Todi presso il marchese di Saluzzo onde assicurargli i vettovagliamenti e i rinforzi militari indispensabili qualora si fosse presentata all’esercito del marchese l’occorrenza di difendere Firenze da un eventuale attacco dei lanzichenecchi ancora stanziati a Roma. La missione durò più a lungo del previsto giacché il C. dovette accompagnare il Saluzzo nel corso dello spostamento che questi operò attraverso Spoleto, L’Aquila e Vasto onde riunire a San Severo le proprie truppe con l’esercito del Lautrec. Il C. fece ritorno a Firenze il 18 aprile mentre le forze della lega, convenute da Melfi per assediare Napoli, si esaurivano in uno strenuo quanto vano tentativo di blocco della città, reso, tra l’altro, problematico per il passaggio di Andrea Doria nelle file degli Imperiali.
Il 25 giugno 1529, nel clima di liquidazione degli alleati italiani che Francesco I instaurava con le clausole di Cambrai, il C. venne mandato in Francia per saggiare, di rincalzo all’oratore fiorentino Baldassarre Carducci, la volontà del re e ottenere, se possibile, qualche vantaggio per la Repubblica. Da Genova egli comunicò alla Signoria le voci secondo cui l’imperatore si sarebbe presto recato nella città ligure; da Lione ironizzò sulle assicurazioni che l’inviato del re di Francia, monsignor de Tarbes, continuava a prodigare circa gli aiuti militari di Francesco I agli Italiani. Giunto a Cambrai l’11 luglio, il C. poté rendersi esattamente conto, insieme all’ambasciatore veneziano e al duca Francesco Sforza, che esistevano scarsissime possibilità per la tutela degli alleati italiani nell’accordo tra Francia e Spagna e che anzi il rigetto di tali interessi aveva costituito una condizione già subita dal re per favorire l’intesa con Carlo V; a La Ferté gli ambasciatori fiorentino, milanese e veneziano ebbero ancora da parte di Francesco I delle precise assicurazioni che le città alleate sarebbero state incluse nell’accordo, salvo poi a trattare direttamente con l’imperatore entro quattro mesi dalla stipula del trattato. Quando tuttavia, il 5 agosto, venne diramato il testo dell’accordo ci si rese conto che esso, conformemente alla prima stesura, non contemplava gli Stati italiani, i quali si sarebbero trovati immediatamente esposti alla controffensiva dell’imperatore nonché ad una seria minaccia da parte del papa. Il C. soggiornò ancora un mese in Francia nel vano tentativo di far più attentamente considerare la situazione a Francesco I. Partì per Lione alla volta di Firenze verso metà settembre accennando abbastanza esplicitamente, in una lettera a Battista Della Palla, al tradimento del re di Francia e confidando ormai soltanto in un accordo con l’imperatore per la salvezza della città: “Ma io voglio lassare indietro le cose d’altri, alle quali noi abbiamo purtroppo atteso, e venire alle nostre. Io veggo cotesta città da costoro nei quali ogni sua speranza era collocata, interamente destituita in mezzo de’ suoi nimici armati e irati, con poca speranza delli aiuti esterni, ridursi a confidare più nella integrità e costanza sua verso quelli che ha eletto per Amici e nella benignità dello Imperatore, che in alcuna altra cosa”.
Considerando tale posizione non v’è da stupirsi dell’appoggio che il C., unitamente alla parte più moderata degli ottimati, concesse all’azione proditoria di Malatesta Baglioni (sebbene il C., nella prima fase dell’assedio, avesse ostentato una intransigente e pletorica magniloquenza guerresca, allorché fu nominato oratore della milizia che si accingeva a fronteggiare l’esercito del principe d’Orange). Il giorno prima che fosse firmato l’accordo per la capitolazione della città (12 ag. 1530) il C. partì per Roma onde raccomandare le sorti di Firenze al papa, e Clemente VII, che aveva tutto l’interesse di salvaguardare la città dalle devastazioni a opera delle truppe assedianti, accondiscese di buon grado alle richieste dell’inviato fiorentino. È significativo a questo punto nevralgico della carriera diplomatica del C. rilevare alcuni screzi che si verificarono a Roma tra l’inviato della Repubblica e l’ambiente dei fiorentini filomedicei. Il Guicciardini non esitò a tacciarlo di presunzione e di vanità, irridendo alle intenzioni del C. che avrebbe voluto col suo consiglio guidare il papa e i concittadini circa le decisioni da prendere per Firenze. Questa disputa non marginale serve bene, in effetti, a chiarire il crollo di un prestigio intellettuale non meno che il reale isolamento in cui venne a trovarsi il C. nel clima restaurativo che doveva culminare con l’istituzione del governo di Alessandro de’ Medici (1532).
Il C. si sottrasse alle accuse rivolte contro i repubblicani grazie alla autorità paterna, alle amicizie che lo legavano a potenti gruppi magnatizi e soprattutto grazie allo proprie benemerenze godute presso Malatesta Baglioni, ma durante il ducato di Alessandro visse costantemente lontano dalle cariche pubbliche e, dopo l’assassinio d’Alessandro e l’ascesa al potere di Cosimo, non esitò ad abbracciare la sorte dei fuorusciti raccolti intorno ai cardinali fiorentini Salviati, Ridolfi e Gaddi.
Il 1537 rappresenta sicuramente l’anno di maggiore attività diplomatica del C., il quale venne scelto dai fuorusciti per trattare la riconquista di Firenze con Francesco I, perplesso tra le ambizioni italiane e la necessaria considerazione che doveva essere rivolta ad altri settori dello scacchiere internazionale. Tramite il cardinale di Tournon, deciso assertore di un impegno francese in Italia, il C., per conto del Salviati, cercò di sollecitare il finanziamento da parte del re di una impresa militare in Toscana di cui, nel frattempo, Filippo Strozzi reggeva le fila raccogliendo le truppe dei fuorusciti sbandate dopo i falliti colpi di mano contro Castrocaro e Borgo San Sepolcro. Inaspriti dalle molte tergiversazioni del re, i fuorusciti stabilirono di agire proprio mentre Francesco I si decideva per una modesta copertura finanziaria dell’impresa in Toscana, ma furono duramente battuti a Montemurlo (1º ag. 1537), ove vennero presi prigionieri Bartolomeo Valori e lo stesso Strozzi. Su questa disfatta pesa forse l’eccessivo ottimismo – sottolineato tra i moderni dal von Albertini – con cui il C., probabilmente influenzato dal Tournon, intese le volontà del re di Francia nei confronti del fuoruscitismo fiorentino.
In effetti, nel documento forse più importante che possediamo su tale problema, il “Discorso dato al reverendissimo Tornon per conferirlo con Sua Maestà” e sottoscritto dal C. il 2 ott. 1537, allorché Francesco I si interessava nuovamente a un intervento in Italia, il C., nonostante l’esperienza di Montemurlo, cercava di spostare l’attenzione del re da altre regioni italiane alla Toscana, per convincerlo della relativa facilità con cui si sarebbe potuto riottenere Firenze: “La facilità è manifesta, perché la città è spogliata di denari più che fosse mai per le cagioni altre volte dette e in questo ultimo accidente ha dimostrato la debolezza sua avendo quello stato con difficultà incredibile trovato appena appena scudi cinque mila; la disposizione universale dei Cittadini e de’ sudditi non può essere migliore per la recuperazione della libertà, spaventati dalla superbia e avarizia de li Spagnuoli... La quale città sta esposta al impeto d’uno meno che mediocre esercito che ben condotto vi si appresenti ... Né può Firenze aspettare aiuto da altri potentati d’Italia non obligati al difenderla; tal ché per queste ed altre ragioni, che per brevità si pretermettono, apparisce chiaramente da la parte di quello stato la facilità di fare la impresa e occupare specialmente Firenze, dal acquisto della quale nasce subito la recuperazione del suo dominio non difeso e desideroso di mutazione...” (ed. Lisio).
Fra l’altro tale disegno non teneva nel dovuto conto che già nel mese di maggio il conte di Cifuentes aveva stretto accordi con Cosimo de’ Medici per difendere la città e le fortezze; lo stesso inviato dell’imperatore aveva ricevuto l’incarico di trattare il problema del ritorno dei fuorusciti, senonché questi, nell’illusione di una favorevole impresa militare, avevano interrotto le trattative per tentare la fortuna sul campo.
Con la sconfitta militare dei fuorusciti si restringe ulteriormente lo spazio dell’azione politica riservato al C., il quale, di ritorno da Lione nell’ottobre del 1537, si recò a Ferrara al servizio di Ercole II, avendo ottenuto una lettera di presentazione per il duca da parte dell’arcivescovo di Milano Ippolito d’Este. Normalmente stipendiato sebbene tenuto lontano da incarichi di rilevante importanza (accompagnò una volta il cardinale Ippolito a Venezia per perorarvi la necessità di una lega tra la Serenissima, la Francia e il papa: recitò in tale occasione una Concione al Senato veneto, che ci è stata tramandata in numerosi manoscritti e fu pubblicata nella Bibliografia italiana del 1º nov. 1829, pp. 320 ss.), il C. si volse quasi esclusivamente agli studi letterari, operando nell’ambito dell’Accademia degli Elevati e corrispondendo con personaggi di sicura notorietà quali i poeti Giambattista Giraldi e Lelio Capilupi, i filologi Lazzaro Bonamico e Daniello Barbaro, i retori Sperone Speroni e Vincenzo Maggi, l’editore Paolo Manuzio, col quale entrò in polemica allorché questi, allestendo un’edizione delle lettere di Cicerone che uscì a Venezia nel 1540, criticò le Castigationes ciceroniane del Vettori in base alla lezione di un codice di proprietà del C. che era giunto al Manuzio tramite il servita Ottavio Pantagato; il C., che aveva prestato il codice, già appartenuto al Poliziano, al frate servita, si affrettò presso il Vettori ad affrancare da ogni malizia i propositi del Pantagato e cercò di attutire lo scandalo minimizzando la rilevanza dell’opera del Manuzio: “Io so che voi avete avuto qualche fastidio con Paulo Manuzio, e certamente n’avete qualche causa secondo che ho veduto in certe sue poche e piccole annotazioni. Meriterebbe che voi forse ve ne risentiste, ma l’è troppo debole impresa e non degna di voi...” (lettera del 26 luglio 1540); “E per concludere, il Manuzio, a giudizio d’ogni uomo, vi farà onore con queste sue puerili castigazioni, sì che compare mio, ridetevene nell’animo vostro...” (lettera del 29 ag. 1540).
“Io son sano e nel medesimo stato che sempre, e mi vo intertenendo, secondo la condizione de’ tempi, assai bene. Ho grandissimo desiderio di vivere con li miei, e con li amici quietamente questo rimanente della vita mia, perché ogni di più conosco che in questi corrottissimi secoli non si può tenere vita migliore, e trovo infiniti uomini prudenti e buoni di questa sentenza”: così scriveva il C. nel settembre del 1539 a Pier Vettori, invidiandogli la “lettura” di greco che l’amico aveva ottenuto da Cosimo, nell’amata e sempre rimpianta Firenze, “e ci considero che voi avete determinato la vostra vita, cosa nella quale pare a me che consista molto della nostra quiete, e della quale io mi veggio tanto lontano quanto ne sono desideroso, perché non posso ancora imaginare dove mi voglia condurre la mia fortuna” (lettera del 25 ott. 1538).
In questa allarmante situazione psicologica l’amicizia con il Vettori, al quale sono dirette quasi tutte le lettere private del periodo ferrarese, assume il valore di un nostalgico richiamo agli studi, a Firenze, mentre l’esercizio delle lettere, improntato alla traduzione delle Historiae di Polibio, che doveva servire per monito e ammaestramento politico-militare (“...considerando bene queste cose – si legge in una dedica a Ercole II d’Este –, non crederà che per essere variato il tempo, sia impossibile imitarli [i Romani] e necessario perseverare in questa tanta corruzione degli ordini militari. Il che esser falso, non solo molte e vere ragioni, ma tutte quelle repubbliche o Principi in Italia con l’effetto dimostrerebbero, che avessero buon numero de’ sudditi e volessero, chinando l’intelletto e svegliando la generosità loro, per la via della disciplina antica camminar alla vera sicurtà e gloria, le quali due cose stimo dover essere l’obietto di quegli”), rappresentava la rivincita dell’intellettuale contro “i corrotti costumi de’ Principi e Signori e di chi li serve”, configurandosi come l’estremo tentativo, da parte di chi “con danno” ha comperato “un poco di pratica di mondo”, di interpretare la parte della ragione, della sapienza, nei confronti di coloro che sembravano restii al prestigio della dottrina e ad ogni principio morale. Perché è pur sempre un modello astratto di virtù quello cui si riferisce caparbiamente lo scrittore quando sovrastano avvenimenti che egli non è più capace in alcun modo di controllare e l’inattività pratica si traduce in termini di oscuro, miracolistico salvataggio della propria integrità: “Il mondo, messer Piero mio, si va ogni dì più disponendo a travagli incomparabili e circa le cose della religione e circa lo stato temporale. Temo che presto nasceranno accidenti grandissimi e veggo prepararsi movimenti tali, che io giudicherò beato quello che potrà essere spettatore di simili tragedie. Io mi starò in questi pantani quanto il cielo vorrà e mi conforterò in questa mala fortuna con la coscienza della rettitudine dell’animo mio in ogni cosa” (lettera al Vettori del 12 febbr. 1543).
Nacquero così il Discorso circa la milizia romana, mai pubblicato, e La comparizione tra l’armadura e l’ordinanza de’ Macedoni, che, assieme al Calcolo sulla Castramentazione, sarà edita a Firenze nel 1552. Ma fu soprattutto La Retorica che assorbì il maggiore impegno dello scrittore nel periodo ferrarese: opera dapprima intrapresa per accondiscendere alle velleità letterarie del cardinale Estense, il quale, del resto, non mancava di sollecitare al C. la volgarizzazione di opere greche: quali che fossero, brevi, facili, purché decorose ai fini del proprio lustro (“Or in questo mezzo il Cardinale di Ferrara m’ha ricercato instantissimamente per lettere ch’io gli traduca questa benedetta retorica d’Aristotele, o più tosto che componga una in vulgare a modo mio... E così, spinto dalla mia natura facile e pronta a servire i Signori e amici miei e mosso vehementemente dall’amor che quel Signore mi mostra, gli ho promesso di tentare l’impresa, alla quale credo che voi m’areste dissuaso, sì come mi dissuadeva l’animo mio, se la volontà del Cardinale non avessi appresso di me tanta forza quanto ha e quanto voi sapete”: lettera al Vettori del 4 febbr. 1541), ma poi realizzata in forma personale – durante gli anni 1541-42 e 1545-46, tramite il consiglio e l’attiva collaborazione del Vettori, che si stava in quel tempo interessando del medesimo argomento –, spedita in lettura al dotto corrispondente secondo l’abbozzo originario in quattro libri, e poi riveduta, ampliata, vagheggiata durante il soggiorno padovano come un documento durevole della propria reputazione letteraria, fino alla stampa in sette libri (preludio di una notevole fortuna editoriale) avvenuta a Venezia nel 1559.
Nel 1548 il C. lasciò Ferrara per recarsi a Roma al servizio di Paolo III. L’invito gli era stato rivolto dal cardinal Ridolfi e a Roma egli venne ospitato dal genero Pierantonio Bandini. Grazie alla sua conoscenza di cose francesi venne inviato nell’agosto in Piemonte per dissuadere Enrico II da un ennesimo progetto antispagnolo. Di ritorno a Roma, il C. si fermò per qualche giorno a Firenze con lo scopo di riconciliarsi con Cosimo de’ Medici, riuscendo nell’intento dopo una serie di accordi preliminari stabiliti con l’ambasciatore fiorentino a Roma Averardo Serristori. L’anno successivo fu inviato presso Ottavio Farnese, che tentava di impossessarsi di Parma mentre la città era contesa tra Francesi e Spagnoli e Piacenza si trovava, dopo la morte di Pierluigi Farnese, sotto il dominio degli Imperiali. Durante l’ambasceria il C. si accorse che Ottavio stava trattando, per ottenere Parma, un aiuto militare di Ferrante Gonzaga e comunicò la notizia a Roma, per cui Paolo III, che voleva fare della città un feudo della Chiesa eventualmente risarcendo Ottavio con il ducato di Castro, si vide costretto in punto di morte a restituire Parma al nipote (tale decisione venne confermata da Giulio III nel 1550). In seguito, allorché Ottavio Farnese si volse all’alleanza francese per mantenere il proprio dominio suscitando la reazione dell’esercito spagnolo di stanza in Lombardia, il C. seguì in un primo tempo da Roma la politica filofrancese di Ottavio, contravvenendo alle direttive politiche del cardinale Alessandro, e raggiunse poi a Parma il Farnese, dal quale ebbe incarichi amministrativi, mettendo a disposizione del duca il favore di uomini preziosi in periodo di guerra: Albizzo Del Bene, sovrintendente delle finanze francesi in Italia, Piero Strozzi, Cornelio Bentivoglio, Aurelio Fregoso. La guerra si concluse con piena soddisfazione per Ottavio e il C. fu tra coloro che nel maggio 1552 firmarono la tregua fra i collegati franco-italiani e gli Spagnoli.
Non v’è forse motivazione razionale, ma soltanto il desiderio di gloria – come suggerisce acutamente la Roaf –, l’ambizione di dirigere ancora avvenimenti decisivi, che possa far intendere perché il C., nell’ottobre del 1552, si decidesse a lasciare Parma, a rinunciare al recuperato favore di Cosimo de’ Medici per seguire il cardinale d'Este a Siena compromettendosi in quella che doveva essere l’ultima e disperata difesa dei fuorusciti toscani. Le lettere dirette in questo periodo al Farnese costituiscono una serie di documenti non secondari per la storia della guerra di Siena. Il C., cui era stato affidato il compito di proporre collegialmente una riforma del governo, condivise e comunicò al Farnese gli umori degli assediati dalle prime fasi della guerra fino alla capitolazione della città: considerò ottimisticamente l’appoggio francese garantito dal Tournon e l’azione militare del Thermes, esultò all’arrivo della flotta turca nei pressi di Napoli che provocò il ritiro degli Imperiali da Montalcino, guardò con apprensione ai dissidi tra il Thermes e il cardinale Ippolito e alla conseguente sostituzione del luogotenente francese con Piero Strozzi (il che comportava un diretta compromissione degli assediati nei confronti di Cosimo), e descrisse infine lo stato miserevole di Siena affamata ed esposta ormai quasi senza resistenze all’attacco del Medici (“La città, dopo la perdita di Lucignano, ha perduto ogni speranza e l’arme e il nome francese sono in odio e dispregio. Io veggo le cose in termine che temo di qualche dannoso e vituperoso fine e presto e ho fatto intendere al Signor Piero che pensi molto bene come pigli la cosa, perché io dubito che la difesa non gli riuscirà come forse crede”: lettera del 4 ag. 1554; “La città è a l’ultimo grado di desperazione... Le cose potrebbono star poco peggio e è necessario che si faccia presto quel che s’ha da fare o di pace o di guerra per salvar Siena”: 20 nov. 1554).
La città cadde il 17 apr. 1555 e il C. riuscì a stento a riparare a Roma, ove rimase sino all’inizio del ’57 in qualità di agente di Ottavio Farnese. È il periodo in cui il neoeletto pontefice Paolo IV Carafa, successore di Marcello Cervini, ripropone una politica filofrancese che avrebbe dovuto contemplare un intervento armato del re in Piemonte e in Toscana. Finché Ottavio aderì a questa prospettiva, il suo uomo di fiducia a Roma assolse ancora qualche compito di rilievo, ma quando Enrico II, l’imperatore e Filippo II stipularono la tregua di Vaucelles (le cui clausole vennero comunicate dal C. a Parma in data 27 maggio 1556) le funzioni del fiorentino decaddero rapidamente e si estinsero del tutto allorché, nell’agosto del 1556, il C. venne informato dell’accordo tra il Farnese e il re di Spagna, il quale era disposto a restituirgli Piacenza. Ormai non esisteva più spazio politico per l’azione filofrancese del C. presso Ottavio che, stando alle ultime tesimonianze epistolari, fu anche assai scarso nel corrispondere al diplomatico fiorentino le dovute retribuzioni. Si aggiungeva ai malanni del C. l’essere dichiarato ribelle da Cosimo de’ Medici, che non esitò a imprigionare il figlio Giovanni sotto l’accusa di aver partecipato alla congiura di Pandolfo Pucci (il C. ne dava altra spiegazione scrivendo al Farnese il 20 luglio 1555: “perché mi persuado che la causa che ha mosso il Duca, non sia lo star mio qui, ma il finir di ruinarci come quegli che egli ha troppo offesi, e insieme tentare se potesse farmi ritirare e spaventare gli altri”).
Lo sforzo economico compiuto per reperire i denari occorrenti per il riscatto costituì la fase definitiva di un collasso ormai giunto alle soglie della miseria. Dal servizio presso il Farnese, al quale sempre più scarse e irrilevanti giungevano le informazioni del C. (seguiva in effetti la crescente vocazione filospagnola; una volta ebbe a informarlo dello scandalo suscitato da Ascanio Della Cornia, che da una lettera decifrata di Garcilaso de la Vega si rilevava in corrispondenza col duca d’Alba), passò probabilmente agli ordini del Tournon, per trasferirsi infine a Padova, ove, sconfortato della vita pratica, attese all’edizione della Retorica, dettando quegli stanchi Trattati overo discorsi sopra gli ottimi reggimenti delle repubbliche antiche e moderne che furono editi postumi (Venezia 1571), con una prefazione di Sebastiano Erizzo.
A Padova il C. si spense il 5 dic. 1562.
Della Retorica, l’opera più rilevante dell’intellettuale fiorentino se non altro per il lungo periodo della sua elaborazione, esiste, in una lettera al Vettori del 1545, un abbozzo relativo agli originari quattro libri, ma tenuto inalterato, nonostante le aggiunte su argomenti parziali, fino all’edizione del ’59. Quel che maggiormente interessava lo scrittore è contenuto in alcune annotazioni relative al secondo libro, ove il C. asserisce: “...per sviluppar bene la parte degli argomenti, tratto separatamente della forma loro e qui, per le ragioni che vedrete, fo una logichina quanto a quella parte ...Di poi tratto dei luoghi degli argomenti, movendo prima una questione, se i luoghi dialettici e retorici sono i medesimi o no, importante a mio giudizio”. Il problema dell’identificazione fra dialettica e retorica era stato un tema fortemente dibattuto dalla filologia del secolo precedente, fino a trovare nell’ultimo Poliziano una soluzione in sede estetica. Ora, mentre il C. si mantiene lontano da ogni considerazione sulla poesia (ciò che, rettamente, gli fa espungere una concezione della retorica come ornamento dei versi, distinguendosi per questo dai contemporanei trattatisti di ambiente veneto), mutua poi dalla letteratura quella sintesi che dovrebbe essere appannaggio dell’oratore, dell’esperto nei pubblici negozi e che viene pertanto a configurarsi come una capacità civile, praticabile e suscettibile di un insegnamento. Per cui non solo la retorica aristotelica e la Rhetorica ad Alexandrum, ma “i libri di Tullio, e alcuni di Quintiliano ed Ermogene con qualcun altro” avrebbero dovuto concorrere alla dottrina del politico e del diplomatico, formando l'armatura di quella logica discorsiva, mai esperita nel campo del volgare, che deve convincere o dissuadere dall’azione. Sotto questo aspetto anche la Retorica, che si pone in un contesto culturale delineato dalla traduzione dell’opera aristotelica compiuta da Ermolao Barbaro (edita nel 1544 con un commento di Daniello Barbaro) e quella eseguita da Bernardo Segni (il quale – confessava il C. a Vettori – “crede... di potermi offendere con la sua traduzione”), riflette la sostanziale ambiguità di intenti che si rivelano alla base delle volgarizzazioni da Polibio, configurandosi essenzialmente come una propedeutica letteraria all’azione, un estremo e improbabile tentativo di “discorso” sugli avvenimenti che le travagliate vicende dell’autore allontanavano di giorno in giorno dalla sua esperienza.
La parabola politico-letteraria del C. può essere interpretata come la crisi del machiavellismo, maturata in un clima di crescente, e talvolta confessata, sfiducia in quella pratica filologica che, riscoprendo il volto del passato, garantiva l’autorità e la scienza del ricercatore (“sì che bisogna pensare ad altro che farsi onore con libri rari e reconditi”, scrisse una volta il C. al Vettori). Lo scrittore fiorentino visse in questo tramonto dell’ideale classicistico da cui solo l’esperienza del Guicciardini seppe dedurre la lezione più conseguente. Bilanciato tra la disistima della letteratura, che gli fece apprezzare solo scrittori scadenti (il Molza, il Giraldi) o lo condusse a polemizzare con opere di second’ordine (i Capricci del Gelli), e un apprezzamento retorico della prassi, il C. tentò di redigere e portò avanti un messaggio di tipo universalistico che in fondo soltanto il “filosofo” Francesco Verino era propenso ad accettare sul piano delle disquisizioni alchimistiche.
Fonti e Bibl.: Per l’opera del C. si ha un’ottima ediz. delle Lettere ed. ed ined., a cura di Ch. Roaf (Bologna 1967), con un’ampia intr. bio-bibliogr., la recensione dei manoscritti e la segnalazione delle stampe. Cfr. inoltre: G. Campori, B. C., in Atti della R. Deput. di storia patria per le prov. modenesi e parmensi, IV (1866-67), pp. 137-170; Id., Diciotto lettere inedite di B. C. con un’append. di documenti relativi al medesimo, Modena 1868; G. Lisio, Orazioni scelte del secolo XVI ridotte in buona lezione e commentate, Firenze 1897 (se ne veda l’introduzione di G. Folena alla ristampa, Firenze 1957); E. Picot, Les français italianisants au XVIe siècle, I, Paris 1906, pp. 257 s.; L. Pearsholt-Smith, The life and letters of sir Henry Wotton, Oxford 1907, ad Indicem; C. Trabalza, Storia della grammatica ital., Milano 1908, pp. 254 ss.; Id., La critica letter., II, Milano 1915, pp. 139 ss.; T. Bozza, Scrittori politici ital. dal 1550 al 1650, Roma 1949, pp. 44 s.; M. François, Le cardinal François de Tournon, Paris 1951, pp. 149-156 e passim; E. Garin, Note su alcuni aspetti delle Retoriche rinascimentali, in Testi umanistici sulla retorica, Milano 1953, pp. 40 s.; R. von Albertini, Das florent. Staatsbewusstsein im Übergang von der Republik zum Prinzipat, Bem 1955, pp. 167 ss.; R. Cantagalli, La guerra di Siena, Siena 1962, ad Indicem; G. Procacci, Studi sulla fortuna del Machiavelli, Roma 1965, p. 341; F. Flamini, Il Cinquecento, Milano s.d., ad Indicem; E. Bonora, Il classicismo dal Bembo al Guarini, in Storia della letter. ital. Garzanti, IV, Milano 1965, ad Indicem.