CORREGGIO (de Corigia, da Corezo), Azzo da
Nacque verso il 1303 da Giberto e dalla sua seconda moglie - sposata nel 1301 - appartenente alla famiglia dei da Camino. Fanciullo fu avviato alla carriera ecclesiastica e verso i quindici anni, nel 1318, divenne preposto di Borgo San Donnino; ciò gli assicurava una posizione di rilievo nel mondo ecclesiastico parmigiano e una ricca prebenda, senza troppi incomodi, in quanto la prepositura era retta da un suo vicario, il canonico carpigiano Guido Castaldi.
La condizione ecclesiatica non gli impedì di partecipare alle vicende politiche della sua famiglia, specialmente da quando, dopo la morte del padre (25 luglio 1321), che lo aveva lasciato erede assieme con i tre fratelli di tutti i suoi beni, dovette, non ancora ventenne, impegnarsi con loro nel duro compito di rientrare in Parma. I figli di Giberto poterono rimettere piede in città tre anni più tardi, nel 1325, quando i Rossi, loro principali avversari, fecero atto di sottomissione alla Chiesa e furono costretti a pacificarsi con loro e a richiamarli in città su istanza del legato papale Bertrando del Poggetto nelle cui file militava Simone, il fratello maggiore di Azzo. In questi anni i Correggio ottennero dal papa anche l'assoluzione dall'accusa di fellonia con cui Enrico VII di Lussemburgo aveva colpito il padre Giberto nel 1312, per il tradimento e il passaggio al servizio della parte guelfa e del re Roberto di Napoli. In cambio i Correggio appoggiarono l'opera del legato in Lombardia nella lotta contro i Bonaccolsi e gli Estensi, e divennero ben presto padroni del territorio che si estende tra la Tagliata e il Po, lasciando ai Mantovani quasi solo l'inespugnabile castello di Reggiolo. Il legato concesse poi loro ogni potere su queste terre, ma essi, poco più tardi, dopo una violenta incursione di Passerino Bonaccolsi su Guastalla, preferirono rinunciarvi. Anche i Rossi militavano nell'esercito del legato Bertrando del Poggetto e le sue vittorie, con la conseguente necessità di tenerselo amico, sembravano attenuare le discordie tra le famiglie parmigiane. Proprio in quegli anni il C. e il fratello Simone con Marsilio e Andreasio Rossi condussero assieme le trattative per far ottenere la signoria di Padova a Cangrande della Scala.
Ben presto, però, la presenza di Lodovico il Bavaro in Italia permise a Rolando Rossi di rendersi maggiormente autonomo dal legato e di divenire, di fatto, signore della città di Parma. Quando Gianquirico Sanvitale, i Correggio e l'esercito della Chiesa marciarono uniti contro di lui, stipulò una pace separata col legato nell'intento di isolare i fuorusciti parmigiani. Ma non vi riuscì; quando infatti si recò a Bologna per l'accordo definitivo, fu imprigionato dal legato che mandò di nuovo i suoi uomini in aiuto dei Correggio e dei fuorusciti. Allora Marsilio e Pietro Rossi, fratelli di Rolando, per ottenere aiuti nella guerra passarono decisamente dalla parte dell'imperatore Lodovico il Bavaro. Dopo un anno di lotte e di distruzioni, nell'agosto del 1330, i Correggio non riuscirono ad impadronirsi della città di Parma neppure con una congiura da loro preparata anche nei minimi dettagli con l'aiuto di alcuni cittadini, scoperti e suppliziati da Marsilio Rossi, nominato subito dopo dal Bavaro vicario imperiale di Parma.
Il viaggio in Italia di Giovanni di Lussemburgo re di Boemia indusse i Rossi, nel marzo del 1331, a rivolgersi a lui per mantenere il proprio potere; la contropartita fu, come al solito, la pace fra le fazioni e il rientro dei fuorusciti: un mese più tardi il C. e gli altri Correggio entrarono in Parma e furono, solennemente ricevuti dal re. Non appena quest'ultimo si fu allontanato dalla città, nacquero le antiche discordie e i Correggio riedificarono le loro case distrutte, ne acquistarono altre contigue e si costruirono una vera e propria fortezza tra la piazza della cattedrale e quella del Comune, pronti questa volta a resistere.
I Rossi, però, con l'aiuto del re Giovanni, da loro appoggiato nelle sue imprese con armi e denari, rimasero indisturbati signori di Parma e i Correggio si avvicinarono così ai nemici del re, i Visconti, gli Scaligeri e i Gonzaga coi quali, nella primavera del 1334, riuscirono ad impadronirsi della città di Cremona. Appena un anno più tardi Marsilio Rossi si vide costretto a chiedere la pace ad Alberto e a Mastino della Scala e a cedere loro il dominio di Parma, a condizione che i Rossi rimanessero in Pontremoli e ricevessero 50.000 fiorini d'oro. In un secondo momento si sarebbe negoziato il passaggio di Lucca ai Fiorentini, alleati degli Scaligeri.
Il C. ed i suoi fratelli poterono così rientrare in città quasi da vincitori, e ben presto, pur non avendone alcun titolo specifico, ressero di fatto la città per conto dei loro nipoti Alberto e Mastino; per questo i Rossi e il vescovo della città Ugolino, appartenente alla loro famiglia, ritennero opportuno abbandonare Parma dalla quale, anche a seguito dell'accusa di tentato omicidio nei confronti di Mastino loro mossa dal C., furono banditi con la confisca di tutti i beni l'8 maggio 1336.
Il vescovo e i Rossi si rivolsero al papa Benedetto XII per avere giustizia contro Mastino che non era stato ai patti, li aveva cacciati e si era impossessatodei loro beni; l'accusa era rivolta anche al C., preposto di Borgo San Donnino e ribelle al suo vescovo, ed ai suoi fratelli Guido e Simone, indicati come "complices et sequaces" di Mastino. Gli Scaligeri mandarono allora ad Avignone il C. insieme con il loro migliore giurista, Guglielmo da Pastrengo. I due affidarono la difesa degli interessi scaligeri, davanti a Benedetto XII e alla presenza dei cardinali e dello stesso vescovo di Parma in esilio, Ugolino Rossi, a Francesco Petrarca, da allora, e probabilmente già da prima, legato a loro da profonda amicizia.
Una quindicina d'anni più tardi il Petrarca, divenuto nel frattempo arcidiacono di Parma e quindi entrato alle dipendenze del vescovo Ugolino Rossi, per difendersi dall'accusa di tramare in Avignone contro di lui, gli indirizzò una lunga lettera nella quale rievocava questo processo: pensava di aver difeso, senza ricorrere a cavilli o a maldicenze, una causa giusta, o che almeno riteneva tale, in favore di una famiglia a lui cara ed amica, alla quale era sempre rimasto fedele. Una attenta, lettura delle parole del Petrarca può far sorgere il dubbio che egli non fosse poi tanto convinto della giustezza della causa dei suoi amici, tant'è vero che invece di ribadire la propria convinzione si scusò quasi e fece ricorso a fattori esterni al dibattito, quali l'amicizia che lo legava al C. e il rispetto che allora, pur nella controversia, aveva manifestato per la persona di Ugolino.
A parte l'indubbio peso della difesa del Petrarca, il papa era certamente più incline ad accettare lo stato di fatto e ad accordare il proprio favore a chi avrebbe potuto con più probabilità di successo appoggiare le sue pretese di controllo sulla vita politica lombarda. I Correggio si videro, così, confermato, all'ombra degli Scaligeri, quel ruolo egemone nella società parmigiana che fino ad allora era stato appannaggio dei Rossi sotto la protezione prima di Lodovico il Bavaro e poi di Giovanni re di Boemia.
Da allora il C. non avrebbe più dimenticato il favore del Petrarca; intanto lasciò subito Avignone e raggiunse Verona per non perdere l'occasione di mettersi in luce agli occhi dei nipoti; finalmente il 16 maggio 1337 fu nominato vicario di Mastino nella città di Lucca e vi si recò con 300 cavalieri per tener testa ai Fiorentini i quali, ingannati da Mastino che l'aveva promessa loro in cambio dell'aiuto datogli in Lombardia, avevano deciso di farla occupare da un esercito messo insieme a loro spese e guidato da Rolando Rossi. Il C., dopo aver difeso Lucca dall'assalto fiorentino, tornò a Parma e nella vicina Colorno fece uccidere i membri della famiglia dei Ramesini accusati di favorire i Rossi, e vi fortificò la rocca con i materiali di recupero del palazzo vescovile appena abbattuto.
Preso da queste vicende, il C. non aveva potuto cogliere la possibilità di divenire titolare della sede vescovile di Verona. Infatti alla morte di Niccolò da Villanova (1336), fu eletto al suo posto non il C., che da alcuni anni era suo coadiutore con diritto di successione, ma l'abate di S. Zeno, Bartolomeo della Scala. Non sappiamo le ragioni di tale scelta, compiuta dal capitolo della cattedrale e ratificata dal patriarca di Aquileia; forse fu il C. stesso a rinunciare al vescovado, poiché cominciava ad intravvedere maggiori possibilità di carriera nella vita politica e militare, né è improbabile che egli abbia dovuto piegarsi alla volontà del papa e dei suoi potenti nipoti. È certo però che due anni più tardi il C. non fu estraneo all'accusa di tradimento e di intesa coi nemici che colpì il vescovo Bartolomeo e ne segnò la fine. Egli fu presente alla sua uccisione, compiuta personalmente da Mastino davanti all'ingresso della cattedrale la sera del 27 ag. 1338.
L'uccisione del vescovo non poteva certo passare inosservata ad Avignone, dove, dopo tanto tempo, cominciavano a trovare credito le lamentele di Ugolino Rossi, che non aveva ancora ottenuto da Mastino la restituzione dei suoi averi. Gli Scaligeri si videro allora costretti a chiedere la pace ai Veneziani e ai Fiorentini, cedendo loro alcune città e castelli, ma confermando il proprio potere su Verona, Vicenza, Parma e Lucca. Inoltre, nell'articolo settimo del trattato di pace con Venezia e Firenze del 24 genn. 1339 Mastino si accordava anche coi Rossi di Parma e il vescovo Ugolino tornava in possesso di tutti i suoi beni e di quelli che gli erano dovuti come vescovo, senza però poter metter piede in Parma e nel suo territorio.
Con questi accordi, che sembravano mettere pace in Lombardia e in Toscana ed ammansire la turbolenza dei Rossi, il C. poté lasciare Venezia, dove aveva condotto a termine questi negoziati in nome dei nipoti, e raggiungere Avignone non solo per ottenere clemenza al suo signore dopo l'uccisione del vescovo, ma anche per presentarlo come un difensore degli interessi ecclesiastici in Lombardia e fargli possibilmente avere il vicariato vacante Imperio in Parma. Mastino con l'aiuto dei suoi negoziatori (oltre al C. il già ricordato Guglielmo da Pastrengo) ottenne quanto desiderava: la revoca della scomunica (27 sett. 1339), e il titolo di vicario di Parma (3 dic. 1339). In cambio versava al papa 5.000 fiorini d'oro e si impegnava a mantenere in armi 310 soldati al servizio degli interessi della Chiesa in Romagna e nella Marca Anconitana.
Il C., però, provvide anche ai propri interessi e chiese al papa in feudo perpetuo il monte di Castrignano, già del vescovo di Parma, per erigervi un castello a difesa dei suoi terreni circostanti. Egli infatti, dopo la rinuncia alla prepositura di Borgo San Donnino e allo stato ecclesiastico, intendeva consolidare la propria posizione patrimoniale per costruire su essa la base della propria scalata al potere, dopo che l'8 febbr. 1340 aveva sposato a Mantova Tommasina, nipote di Luigi Gonzaga allora signore di quella città. Una buona occasione per le sue ambizioni non tardò a presentarsi quando Mastino accettò e poi non mantenne la pace col papa, giurata a suo nome dal Correggio. Quest'ultimo allora corse ad Avignone a condannare il comportamento del proprio signore e concepì il disegno di togliergli Parma con l'aiuto della Chiesa e del re Roberto di Napoli.
Giovanni Boccaccio, ricordata l'amicizia del Petrarca e del C., ci informa che fu proprio grazie al C., eius opere, che il poeta poté ottenere l'incontro col re Roberto. Essi fecero assieme il viaggio da Avignone a Napoli: il primo per essere interrogato dal re, ottenere la sua approvazione, ed essere incoronato poeta, il secondo per ricevere appoggi ed aiuti nel colpo di mano col quale pensava di strappare Parma agli Scaligeri. A Napoli il C. si accordò con re Roberto ed anche con gli ambasciatori di Luchino Visconti; nel viaggio di ritorno si assicurò l'aiuto anche dei Fiorentini, desiderosi di estendere la loro signoria su Lucca, ancora sotto il dominio dei signori veronesi. Anche i Gonzaga, suoi parenti e signori di Mantova e di Reggio, si impegnarono a secondarlo nell'impresa.
Mastino, conosciuto il vero motivo del viaggio a Napoli, volle impedire al C. il rientro in Parma quando ormai era troppo tardi; il C. aveva fatto avere ai tre fratelli le disposizioni per la resistenza e si era affrettato a raggiungere in Milano Luchino Visconti per portare a termine gli accordi: in cambio degli aiuti contro Verona i Correggio, dopo quattro anni di dominio su Parma, avrebbero ceduto la signoria allo stesso Luchino. Il 21 maggio 1341 il podestà di Parma, fedele a Mastino, saputo dell'accordo, con 1600 uomini a sua disposizione diede battaglia ai fratelli del C.; si combatté per la città tutta la notte e la mattina seguente, alla notizia che il C. si stava avvicinando con i Milanesi, il podestà abbandonò Parma e riparò a Lucca. Quel giorno, il 22 maggio 1341, con il C. entrò in Parma anche Francesco Petrarca, il quale, incoronato poeta in Roma pochi giorni prima, era giunto in tempo per accompagnare l'amico nel giorno del suo trionfo.
Il C. amò presentarsi come il liberatore di Parma dalla tirannide di Mastino. L'inizio della nuova signoria dovette apparire ai Parmigiani una vera liberazione. Giovanni da Cornazzano annotava nella sua Cronaca: iCorreggio "cominciarono di reggere non come Signori, ma come Padri, la città senza parzialità o gravezza alcuna, talché se avessero continuato tal Signoria e governo, senza dubbio sarebbero stati perseveranti, e per modo di dire eterni nel dominio; ma passato l'anno, mutarono Signoria, e loro costumi" (col. 743). Anche il Petrarca si unì agli altri nel tessere le lodi del suo signore con una canzone nella quale, accanto a motivi contingenti ed encomiastici, preannuncia i temi ben più profondi delle lettere a Cola di Rienzo e della Canzone all'Italia. Per circa un decennio, fino al 1351, il Petrarca, dopo le solite peregrinazioni, continuò a tornare in Parma per trovarvi un po' di quiete: prima nella non lontana Selvapiana, poi nella casa acquistata in città.
La causa di tutti i mali della signoria dei Correggio - come scrisse lo stesso Petrarca nella sua lettera alla posterità - va cercata nelle discordie che ben presto sorsero tra i quattro fratelli. Infatti alla morte di Simone, il C., che non intendeva cedere la signoria a Luchino Visconti secondo i patti del 1341, vendette la città ad Obizzo d'Este per circa 60.000 fiorini d'oro (24 nov. 1344). Guido, che avrebbe preferito rimanere d'accordo coi Visconti, si oppose e fu cacciato; al volere del C. si sottomisero, invece, Giovanni, il più giovane dei tre, e Cagnolo, figlio di Simone.
La città di Parma si trovò così al centro delle lotte in Lombardia: da una parte Guido da Correggio con Luchino Visconti e i Gonzaga; dall'altra il C., Obizzo d'Este, Mastino della Scala e Taddeo Pepoli. La guerra andò per le lunghe, finché nel settembre del 1346 Obizzo III d'Este, venuto meno l'aiuto dei Bolognesi e di Mastino della Scala e minacciato nei suoi stessi possedimenti modenesi, trattò con Luchino Visconti e gli cedette Parma in cambio di 60.000 fiorini d'oro, per rifarsi almeno di quanto aveva versato al Correggio. Quest'ultimo era rimasto privo della signoria di Parma, ma le vicende della guerra lo avevano riavvicinato agli Scaligeri che avevano combattuto con lui contro il Visconti. Egli era già a Verona nel 1347 quando il Petrarca, lasciata definitivamente Avignone, vi si recò come ambasciatore del papa presso Mastino: il Gillias della ottava egloga del Bucolicon carmen non sarebbe altri che lo stesso C. il quale, passata la recente ondata di guerre, lo invita a ritornare nell'Italia settentrionale nuovamente in pace.
Morti nel 1351 e nel 1352 Mastino ed Alberto della Scala, il C. non tardò molto a conquistarsi la fiducia del loro erede Cangrande. Già il 2 nov. 1353 è con lui al Parlamento di Legnano con il marchese d'Este e i Veneziani per preparare una alleanza antiviscontea. Anzi pochi mesi più tardi, il 17febbr. 1354, Cangrande, allontanatosi da Verona, lasciò il C. come suo luogotenente con ampi poteri. In quella circostanza il fratello naturale di Cangrande, Frignano della Scala, si impadronì della signoria con l'aiuto dei Gonzaga. Secondo la tradizione cronachistica veronese il C. fu, fin dall'inizio, suo complice; secondo altri, invece, fu obbligato da Frignano e dal podestà a secondare i loro piani con la minaccia di morte. Frignano era ormai signore della città da pochi giorni, quando Cangrande, informato dell'accaduto, ritornò a Verona e con l'aiuto dei Vicentini riuscì ad uccidere Frignano e a riprendere il potere. Il C. si era intanto messo in salvo a Ferrara e a nulla gli valseil protestarsi estraneo al complotto: le immense ricchezze che aveva accumulato in Verona dopo la perdita della signoria furono confiscate, i suoi servi impiccati, un figlio gli morì nelle carceri veronesi, la moglie e gli altri furono trattenuti prigionieri per molto tempo, finché non ebbe pagato un riscatto di ben 14.000 fiorini d'oro.
Dopo essersi rifugiato in Ferrara il C. passò al servizio di Giovanni da Oleggio che si era ribellato ai Visconti e si era proclamato signore di Bologna; poté così rientrare in possesso del suo castello parmigiano di Guardasone strappato ai Visconti proprio nel 1354. Anche qui la sua carriera è rapida; lo vediamo ben presto comandare i soldati bolognesi di Giovanni da Oleggio nella spedizione che nell'autunno del 1356 il conte Corrado di Landau guidò contro Galeazzo e Bernabò Visconti insieme con i Gonzaga di Mantova e gli Estensi di Ferrara. Il C., però, si allontanò dall'esercito della lega con i suoi 700 uomini e si unì al marchese del Monferrato, Giovanni Paleologo II, nel tentativo di occupare Vercelli, causando indirettamente la sconfitta della lega a Casorate (12-13 nov. 1356).
I buoni uffici del Petrarca e questa vittoria milanese non furono estranei al nuovo cambiamento di fronte del C., che, nel settembre del 1357, ottenne da Bernabò la restituzione di tutti i suoi beni in Parma, anche di quel castello di Castrignano avuto in feudo dal papa e gia di proprietà della curia vescovile parmigiana; per esso ebbe una nuova lite col vescovo di Parma Ugolino Rossi, risolta nel 1358 a favore di quest'ultimo, nonostante gli appoggi e le protezioni che, a quanto pare, il C. era riuscito ad assicurarsi anche a Milano.
Intanto, avanti negli anni e talmente infermo da non potersi quasi più reggere da solo, il C. poteva apparire al Petrarca, sempre benevolo e indulgente verso l'amico, la stessa personificazione dell'uomo colpito dalla buona e dalla cattiva sorte: questo volle significare la dedica a lui del De remediis utriusque fortune. In verità, a ben guardare, la vita del C. fu sì tumultuosa, tuttavia egli non può certo essere preso come esempio dell'uomo saggio che sta saldo di fronte alle avversità della sorte. Idealizzata e fuorviante è l'immagine del C. che ci appare da questa e da altre pagine non disinteressate del Petrarca. Esse trassero in inganno non solo la storiografia celebrativa dell'Ottocento ma anche la più recente. Per incontrare un giudizio più disincantato sulla sua figura, dobbiamo tornare a quanto ne scrivevano il Tiraboschi e l'Affò, il quale annotava che il C. non era stato altri che "il maggior de' briganti dell'età sua" (Storia di Parma, IV, p. 318); forse, stando alle testimonianze contemporanee, lo scrupoloso storico settecentesco coglieva nel segno.
Il C. era ancora a Milano presso i Visconti quando, nell'estate del 1362 o, secondo alcuni, del 1364 morì e lasciò tutti i suoi beni alla moglie Tommasina e ai figli Giberto e Luigi. Fu poi sepolto nella stessa Milano con grandi onori, come attestò il poeta Moggio da Parma, tutore dei suoi figli, in un lungo poemetto composto in suo onore e dedicato al comune amico Francesco Petrarca, il quale nelle lettere inviate da Venezia a Moggio ed ai figli Giberto e Luigi lasciò un'ulteriore testimonianza del suo affetto e della sua fedeltà al Correggio.
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