Abstract
Con la l. 31.12.2012, n. 247 è entrata in vigore una nuova regolamentazione della professione forense. Una delle sue caratteristiche principali è di costituire fonte concorrente della disciplina della professione poiché non abroga del tutto la precedente normativa e in particolare il r.d.l. 27.11.1933, n. 1578, cui si affianca per alcuni aspetti. Specificamente ciò si verifica con la salvaguardia dell’intera parte del r.d.l. n. 1578/1933 dedicata a normare le funzioni del Consiglio nazionale forense quale organo di seconda istanza per l’impugnativa dei provvedimenti emessi (ora) dai Consigli distrettuali di disciplina. L’eventuale modifica di questa parte avrebbe corso il rischio di integrare quella «revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti» prevista dalla sesta disposizione transitoria della Costituzione che avrebbe determinato il venir meno della funzione di giudice speciale precostituzionale del Consiglio nazionale forense che invece, anche alla luce della nuova normativa, va confermata. La nuova legge sottolinea la specialità della professione forense riservandole una disciplina propria e distinta rispetto a quella dettata per tutte le altre professioni interessate dal disegno riformatore iniziato nell’agosto del 2011 con il d.l. 13.8.2011, n. 138, convertito dalla l. 14.9.2011, n. 148, e proseguito con la cd. legge di stabilità 12.11.2011, n. 183 e poi con il d.l. 24.1.2012, n. 1 convertito dalla l. 24.3.2012, n. 27. Più in dettaglio, gli interventi principali hanno interessato la materia deontologica, il domicilio professionale, l’impegno solenne quale condizione per l’esercizio della professione, le specializzazioni, i rapporti con l’Università, la pubblicità, il tema dell’assicurazione obbligatoria, i compensi, il tirocinio, le incompatibilità, la necessità di un esercizio professionale effettivo, continuativo, abituale e prevalente, la disciplina. Va poi avvisato che la recente l. 4.8.2017, n. 124 in vigore dal 29.8.2017 ha introdotto ulteriori novità modificando alcune parti della l. n. 247/2012 e dettando in particolare regola a proposito di esercizio della professione in forma societaria; aspetto su cui era sì intervenuta la l. n. 247/2012 ma dettando principi ispiratori di una successiva legge delega che in realtà non era stata poi emanata nei termini previsti.
Il termine ordinamento riferito all’attività forense allude al complesso di regole che disciplinano il modo d’essere, le condizioni per il suo esercizio, i rapporti con i terzi, le sanzioni per i comportamenti non in linea con il modello legale, e così via, il tutto con riferimento all’attività dell’avvocato. Nel quadro della nota concezione della cd. pluralità degli ordinamenti giuridici, l’ordinamento professionale forense è, senza dubbio, un esempio di questo pluralismo per effetto, essenzialmente, dei caratteri di autonomia e autocrinia che lo connotano. La prima consiste nella capacità di imporre le regole che accompagnano l’esercizio dell’attività tra le quali, fondamentali, quelle deontologiche e soprattutto di determinare la propria organizzazione con appositi regolamenti; la seconda trova espressione, invece, nella giurisdizione speciale del Consiglio nazionale forense nei procedimenti di impugnazione delle decisioni dei Consigli distrettuali di disciplina. Per questa parte il Consiglio nazionale forense è, a tutti gli effetti, un giudice speciale precostituzionale (Cass., S.U., 3.5.2005, n. 9097), forse l’ultimo esempio di un organo investito di giurisdizione speciale sopravvissuto all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, giusta la sesta disposizione transitoria che ne ha garantito la sopravvivenza sino al momento della «...revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti». Revisione non ancora avvenuta, nemmeno a seguito della l. 31.12.2012, n. 247 che, pur introducendo una nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, ha lasciato inalterata la sostanza delle disposizioni contenute nel r.d.l. 27.11.1933, n. 1578 attributive della suddetta speciale giurisdizione. In questo senso l’ordinamento professionale forense ha i caratteri propri di un ordinamento giuridico espresso da un gruppo sociale e quindi può definirsi sezionale.
Prima della l. n. 247/2012 la principale fonte di disciplina dell’ordinamento della professione forense era rappresentata dal r.d.l. n. 1578/1933 e dalle norme di attuazione e integrative di cui al r.d. 22.1.1934, n. 37. Oltre a queste, è d’uopo indicare, tra le altre fonti di maggior rilievo, il d.lgs.lgt. 23.11.1944, n. 382 – sui Consigli dell’ordine e recante anche l’istituzione del Consiglio nazionale forense – il d.lgs.C.p.S. 28.5.1947, n. 597 – recante norme sui procedimenti disciplinari – il d.lgs. 2.2.2001, n. 96 – che, attuando la direttiva 98/5/CE, disciplina l’esercizio della professione forense in uno Stato membro dell’Unione diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale e nel contempo introduce e disciplina la figura delle società tra avvocati (STP).
Nel tempo, le spinte per una modernizzazione della professione si sono fatte sempre più pressanti nella direzione, soprattutto, di una sua più accentuata curvatura mercatista trovando modo di esprimersi – ad esempio – nella l. 4.8.2006, n. 248 (non specificamente riferita all’avvocatura perché relativa a tutte le professioni) con l’abolizione del divieto del patto di quota lite e di talune restrizioni alla pubblicità dell’attività professionale, sin lì operanti. A queste spinte hanno però fatto riscontro controspinte nel tentativo di riorientare l’esercizio professionale sul modello consegnato dalla tradizione la quale, a proposito – ad esempio – del patto di quota lite vuole l’avvocato estraneo agli interessi del cliente e la pubblicità della sua attività rispettosa dei canoni del decoro.
L’esigenza di una manutenzione di questo apparato normativo non era, tuttavia, più eludibile. Soprattutto il procedimento disciplinare prestava il fianco a critiche tra le quali spiccava quella di subire i possibili condizionamenti ambientali conseguenti al fatto che l’incolpato era normalmente iscritto all’albo tenuto dal Consiglio dell’ordine procedente (salva la competenza concorrente di quello del locus commissi delicti) e la funzione disciplinare era appannaggio solo di avvocati che giudicavano altri avvocati. Non a caso, quando si sottolineava il difetto di effettiva terzietà, si utilizzava il sintagma “giurisdizione domestica”. La relativa competenza disciplinare era contrassegnata dalla natura amministrativa del procedimento di primo grado innanzi ai Consigli dell’ordine (Cass., S.U., 7.2.2010, n. 20773) e da quella appieno giurisdizionale propria della fase impugnatoria innanzi al Consiglio nazionale forense.
In questo quadro si inserisce la legge di riforma dell’ordinamento della professione forense n. 247/2012, pubblicata nella G.U. del 18.1.2013 che in parte asseconda le spinte e in parte le controspinte. Sin da subito ne va evidenziata una peculiare caratteristica e cioè il fatto che essa non si sostituisce appieno al precedente r.d.l. n. 1578/1933, ma condivide con questo parte della disciplina della materia dando origine a un fenomeno di concorso di fonti regolamentari. Questo è vero, in particolare, per la disciplina della fase impugnatoria dei provvedimenti disciplinari, rimasta inalterata, così come è stata salvaguardata la veste di giudice speciale del Consiglio nazionale forense. Si è trattato di una precisa scelta ideologica giustificata dall’intento di evitare che, riformulando le norme sulle funzioni disciplinari del Consiglio nazionale forense, se ne potesse ricavare – come già detto – l’avveramento della condizione posta dalla sesta disposizione transitoria della Costituzione innanzi citata, con conseguente venir meno della funzione di giudice speciale.
Si diceva di spinte e controspinte volte, rispettivamente, a orientare la professione verso un modello mercatista o, al contrario, verso quello consegnato dalla tradizione. Nella prima direzione vanno annoverate tutte quelle norme che, soprattutto a partire dagli inizi del secondo decennio del 2000, hanno introdotto regole di concorrenza e di mercato negli statuti di tutte le professioni intellettuali sul presupposto che ciò avrebbe rappresentato fattore di aumento competitività del Paese. Il riferimento è, in particolare, al d.l. 13.8.2011, n. 138, convertito dalla l. 14.9.2011, n. 148, alla l. 12.11.2011, n. 183 e al d.P.R. 7.8.2012, disposizioni che avevano l’obiettivo di riconfigurare lo statuto di tutte le professioni regolamentate organizzandolo attorno ai principi generali dell’art. 3, co. 5, d.l. n. 138/2011 ispirati a un presunto liberismo, supposto fattore di buona concorrenza attuata anche con l’abbattimento dei prezzi. Inizialmente queste regole includevano nel loro perimetro anche l’avvocatura di cui si tentava l’avvicinamento all’impresa. Il tentativo non ha sortito effetto perché la nuova legge sull’ordinamento della professione forense n. 247/2012 ha provveduto a stabilire un confine netto tra professione di avvocato e tutte le altre, rendendo la prima destinataria di una normativa ad hoc; differenziazione che registra i suoi effetti – ad esempio – in punto a regole autonome in materia di compensi, di disciplina e così via.
Questa autonomia è ben sottolineata nell’incipit della nuova legge laddove nell’art. 1, co. 2, si evidenzia, enfaticamente, «…la specificità della funzione difensiva e [la] primaria rilevanza giuridica e sociale dei diritti alla cui tutela [la professione] è preposta»; di qui l’esigenza, nell’interesse pubblico, di assicurare l’idoneità professionale degli avvocati e garantire la loro autonomia e indipendenza.
La struttura ordinamentale è basata sull’Ordine forense che secondo l’art. 24, co. 1, l. n. 247/2012 è costituito da tutti gli iscritti negli albi degli avvocati. A sua volta l’Ordine forense si articola negli Ordini circondariali e nel Consiglio nazionale forense (CNF), tutti enti pubblici non economici a carattere associativo con la funzione di garantire il rispetto dei principi della nuova legge e delle regole deontologiche, nonché di tutelare l’utenza e gli interessi pubblici connessi all’esercizio della professione e della funzione giurisdizionale.
L’Ordine circondariale forense trova espressione nella costituzione, presso ciascun tribunale, dell’Ordine degli avvocati al quale sono iscritti tutti gli avvocati aventi il principale domicilio professionale nel circondario e che ha la rappresentanza istituzionale in via esclusiva dell’avvocatura a livello locale. Ne sono organi l’assemblea degli iscritti, il consiglio, il presidente, il segretario, il tesoriere e il collegio dei revisori (art. 26, co. 1), ciascuno con proprie funzioni tra le quali manca, come si vedrà, quella collegata alla potestà disciplinare, ora attribuita ad un organo esterno (il Consiglio distrettuale di disciplina). Il numero di consiglieri è previsto nel massimo di 25; una specifica disciplina è prevista per le elezioni; la durata in carica come consigliere è di quattro anni con previsione di tre incompatibilità di quella carica con a) quella di consigliere nazionale, b) di delegato o amministratore della Cassa forense, c) di membro del collegio distrettuale di disciplina. Sussiste il divieto di conferire ai consiglieri dell’ordine per tutto il tempo del loro mandato incarichi giudiziari da parte dei magistrati del circondario. L’ampia dizione fa rientrare nel divieto ogni tipo di incarico che trovi la sua fonte in un provvedimento del magistrato.
Quanto al Consiglio nazionale forense (CNF) con sede presso il Ministero della giustizia, la nuova legge – in linea con quanto sopra rilevato – rimanda agli artt. 52 ss. r.d.l. n. 1578/1933 e 59 ss. r.d. n. 37/1934 per funzioni e disciplina. Esso ha, tra l’altro, la rappresentanza istituzionale dell’avvocatura a livello nazionale, esercita la funzione giurisdizionale ed emana e aggiorna periodicamente il codice deontologico. Per quanto, in particolare, attiene alla competenza giurisdizionale, il CNF pronuncia sui reclami avverso i provvedimenti disciplinari, nonché in materia di albi, elenchi, registri e rilascio del certificato di compiuta pratica, pronuncia sui ricorsi relativi alle elezioni dei consigli dell’ordine, risolve i conflitti di competenza tra ordini circondariali ed esercita le funzioni disciplinari nei confronti dei propri componenti. Sempre in linea con quanto sopra rilevato a proposito della volontà di conservare la veste di giudice speciale, l’art. 36 l. n. 247/2012 specifica che la funzione giurisdizionale «...si svolge secondo le previsioni di cui agli articoli da 59 a 65 del regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37».
La nuova legge prevede per la prima volta la figura del Congresso nazionale forense che non è parte, a stretto rigore, della struttura ordinamentale. Si tratta di una previsione (art. 39) mirata, soprattutto, a bilanciare l’attribuzione agli Ordini circondariali e al Consiglio nazionale forense della rappresentanza istituzionale esclusiva dell’avvocatura, rispettivamente, a livello locale e nazionale; assegnando al Congresso nazionale forense e all’organismo eletto dal congresso e chiamato a dare attuazione ai deliberati del primo, la funzione di trattare e formulare «...proposte sui temi della giustizia e della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini, nonché le questioni che riguardano la professione forense» (art. 39, co. 2) la nuova legge sottolinea come un conto è la rappresentanza istituzionale, altro quella lato sensu politica.
In netta dissonanza con la previgente struttura ordinamentale, agli Ordini circondariali forensi è stata ora sottratta la competenza che prima avevano in materia disciplinare; ora il potere disciplinare è assegnato ai Consigli distrettuali di disciplina forense previsti dall’art. 50, composti da membri eletti su base capitaria e democratica, con il rispetto della rappresentanza di genere, secondo il regolamento approvato dal CNF, in numero complessivo pari ad un terzo della somma dei componenti dei Consigli dell’ordine del distretto, se necessario approssimato per difetto all’unità. Il Consiglio di disciplina svolge le sue funzioni con sezioni composte da cinque membri titolari e tre supplenti; non possono far parte delle sezioni giudicanti gli appartenenti all’ordine a cui è iscritto il professionista nei confronti del quale si procede. In tal modo, è stato creato un organo disciplinare unico per tutti i Consigli dell’ordine del distretto di corte d’appello sufficientemente estraneo alle vicende locali dei singoli Ordini circondariali, in grado – secondo le aspettative – di esercitare la disciplina senza condizionamenti. Ma non è stato compiuto il passo ulteriore di inserire nel consesso disciplinare membri che non fossero avvocati. In luogo dei precedenti cinque, l’azione disciplinare si prescrive in sei anni (art. 56, co. 1) e, nel caso di atti interruttivi il nuovo periodo è di 5 anni, fermo rimanendo che in nessun caso la prescrizione complessiva può superare per oltre un quarto il termine dei 6 anni (art. 56, co. 3, penultimo periodo). Opportunamente si prevede, infine, una disciplina espressa per la sospensione cautelare (art. 60) con tipizzazione, anzitutto, dei casi in cui può essere presa (art. 60, co. 1); la sua durata non può superare un anno (art. 60, co. 2) e perde efficacia qualora entro sei mesi non sia stata deliberata la sanzione (art. 60, co. 3), oltre che nel caso in cui il procedimento disciplinare sia stato archiviato, ovvero sia irrogata la sanzione dell’avvertimento, o della censura (art. 60, co. 4).
Anche secondo il nuovo ordinamento l’iscrizione a un albo circondariale è condizione per l’esercizio della professione di avvocato (art. 2, co. 3); l’albo è tenuto presso ciascun Consiglio dell’ordine.
Uno degli esiti di maggior rilievo del nuovo assetto ordinamentale si registra sul terreno della deontologia. Il r.d.l. n. 1578/1933 era avaro di indicazioni al riguardo; sia perché recava disposizioni per lo svolgimento del procedimento disciplinare, ma non norme specificamente concernenti la deontologia, tanto meno attributive di potere normativo deontologico; sia perché i doveri deontologici potevano essere estratti dal corpus normativo solo tramite un’opera di dettaglio contenutistico di appena due norme strutturate a guisa di clausole generali. Si allude agli artt. 12, co. 1, e 38, co. 1, r.d.l. n. 1578/1933 che accennavano alla «dignità» e al «decoro». A sua volta il giuramento previsto dall’art. 12, co. 3, quale condizione per l’esercizio della professione, faceva riferimento a «lealtà, onore e diligenza». Su questi concetti privi di contenuto specifico alla stessa stregua di una clausola generale, doveva essere costruito l’edificio della deontologia. La cui struttura fu formalizzata solo a distanza di tempo con l’emanazione il 17.4.1997 da parte del Consiglio nazionale forense del codice deontologico, più volte revisionato. Ma la genericità dei canoni deontologici lo improntava a tal punto che la sua norna di chiusura – art. 60 – normativizzava il principio della cd. atipicità dell’illecito deontologico affermando che «Le disposizioni specifiche di questo codice costituiscono esemplificazioni dei comportamenti più ricorrenti e non limitano l’ambito di applicazione dei principi generali espressi». Rispetto a quest’impostazione, la centralità assunta nella nuova legge dal tema della deontologia è evidente laddove in più punti la richiama espressamente, come nell’art. 1, co. 2, lett. c), che prescrive l’obbligo di correttezza dei comportamenti a tutela dell’affidamento della collettività e della clientela, o nell’art. 2, co. 4, ove si specifica che l’avvocato nell’esercizio della sua attività è soggetto alla legge e alle regole deontologiche. Ma è soprattutto l’art. 3 – la cui rubrica è intitolata Doveri e deontologia – a fornire le più significative indicazioni. Riconfermata la centralità dei doveri di «indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza» (art. 3, co 2), il comma 3 si articola in tre proposizioni principali:
i) l’avvocato si uniforma ai principi del codice deontologico forense emanato dal Consiglio nazionale forense ai sensi degli artt. 35, co. 1, lett. d), e 65, co. 5, l. n. 247/2012;
ii) il codice deontologico forense espressamente individua fra le sue norme quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare;
iii) tali norme, per quanto possibile, devono essere caratterizzate dall’osservanza del principio di tipizzazione della condotta e devono contenere l’espressa indicazione della sanzione applicabile.
Si realizza, anzitutto, un ribaltamento del sistema dell’illecito deontologico che da atipico diviene tipico; ma, soprattutto, è attribuita al Consiglio nazionale forense, expressis verbis, l’unica competenza normativa in materia. Il fatto che in precedenza fosse scontato che solo quest’ultimo potesse emanare un codice deontologico corrispondeva a dato empirico mancando un’espressa previsione di legge. Senza di questa, la convinzione che il Consiglio nazionale forense fosse l’unico organo deputato a coniare norme deontologiche era frutto di un ragionamento che, partendo dalla premessa della spettanza del potere disciplinare, giungeva alla conclusione per cui non poteva non avere anche potestà di porre le norme la cui violazione comportava responsabilità disciplinare (Danovi, R., Il codice deontologico degli avvocati, in Foro it., 1997, V, 337; Ricciardi, E., Lineamenti dell’ordinamento professionale forense, Milano, 1990, 322). Ma tra la premessa e la conclusione non v’era una conseguenzialità ferrea, come dimostrava il settore disciplinare dei notai che, prima della riforma ex d.lgs. 1.8.2006, n. 249, assegnava la competenza sanzionatoria per le infrazioni più gravi (ammenda, sospensione, destituzione) al giudice ordinario civile (tribunale, corte d’appello e Cassazione), restando ferma quella di normazione deontologica in capo al Consiglio nazionale del notariato. Non solo: quel ragionamento, spinto all’eccesso, avrebbe potuto giustificare il riconoscimento di pari competenza normativa anche a tutti i Consigli dell’ordine del Paese, pur essi investiti di potestà disciplinare: con quali conseguenze sull’omogeneità delle previsioni deontologiche è facile immaginare. Lo stesso problema era stato affrontato e risolto con anticipo di ventuno anni dai notai allorché, dovendo governare le conseguenze di due sentenze del Consiglio di Stato (Cons. St., 14.2.1990, n. 84 e Cons. St., 16.7.1991, n. 577) di annullamento delle sanzioni inflitte a notai che avevano aperto recapiti in violazione delle norme deontologiche emanate dal Consiglio nazionale e motivate col fatto che non esisteva una competenza di quest’ultimo a porle, avevano risolto il problema ottenendo, con l’art. 2, lett. f), l. 3.8.1949 n. 577, come modificato dall’art. 16 l. 27.6.1991, n. 1991, il riconoscimento normativo della competenza del loro consiglio nazionale nell’elaborazione di «…principi di deontologia professionale».
La nuova norma elimina ogni dubbio circa un’ipotetica competenza concorrente dei singoli Consigli dell’ordine; ma ne crea altri e specificamente quello se tutte le norme deontologiche abbiano rilevanza disciplinare. Ciò perché secondo l’art. 3, co. 3, l. n. 247/2012 il codice deontologico forense deve individuare, tra le sue norme, quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare. E non è sicuro che tutte siano orientate a perseguire quello scopo, come si incarica di dimostrare – ad esempio – l’art. 69, co. 3, del nuovo codice deontologico forense che proibisce la propaganda nella sede ove si svolgono le elezioni forensi; norma che non riguarda l’esercizio della difesa, né tutela l’interesse pubblico al corretto esercizio della professione. Sennonché, secondo quanto illustrato nella relazione del Consiglio nazionale forense al nuovo codice deontologico, tutte le norme in esso contenute hanno rilevanza disciplinare.
Il nuovo codice deontologico forense, emanato il 31.1.2014, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 241 del 16.10.2014, entrato in vigore il 15.12.2014, si segnala anche per altre novità tra cui, in particolare, la regola dell’applicazione retroattiva della lex mitior anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, principio in precedenza sempre escluso a motivo della natura amministrativa del procedimento di cd. primo grado.
La professione forense può essere esercitata anche in forma associata, con la partecipazione ad associazioni professionali, anche multidisciplinari (art. 4, co. 1 e 2, l. n. 247/2012), ma l’incarico si intende sempre attribuito in via personale. Si tratta di formula di ampio successo, corrispondente a un modello organizzativo cui si riconosce un minimo di soggettività giuridica (pur privo di personalità giuridica, lo studio professionale associato rientra, infatti, nel novero dei fenomeni di aggregazione di interessi cui la legge attribuisce la capacità di porsi come autonomi centri di imputazione di rapporti giuridici: Cass., 13.4.2007, n. 8853).
Più problematica, è invece, la questione relativa alla possibilità di esercitare l’attività in forma societaria. La disciplina al riguardo era dettata dall’art. 5 l. n. 247/2012, ma in modo che non aveva trovato mai pratica attuazione; infatti, si faceva rinvio per la disciplina in concreto a un apposito decreto legislativo che si sarebbe dovuto adottare entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge, nel rispetto di taluni principi generali elencati nell’art. 5, co. 2, tra cui spiccava il divieto di partecipazione di soci di mero capitale (art. 5, co. 2, lett. a).
In precedenza la materia era regolata dalla l. 23.11.1939, n. 1815 che aveva introdotto il divieto «…di costituire, esercire o dirigere, sotto qualsiasi forma diversa da quella di cui al precedente articolo [e cioè l’associazione professionale] società, istituti od enti i quali abbiano lo scopo di dare, anche gratuitamente, ai propri consociati od ai terzi, prestazioni di assistenza o consulenza in materia tecnica, legale, commerciale, amministrativa, contabile o tributaria». Divieto originato dall’intento di evitare l’aggiramento di un’altra normativa e cioè quella delle cd. leggi razziali che impedivano agli ebrei di esercitare, tra l’altro, la professione forense. Quel divieto è formalmente rimasto in vigore sino alla l. 7.8.1997, n. 266 che lo abolì, ma senza che se ne potessero trarre conclusioni applicative coerenti posto che la legge rinviava a un apposito regolamento mai emanato. Il quadro di riferimento è stato parzialmente mondificato con l’emanazione del d.lgs. 2.2.2001, n. 96 che ha previsto la possibilità di esercizio della professione tramite società tra professionisti (STP), equiparabile, praticamente, a una società in nome collettivo, dotata di piena soggettività giuridica; formula che, tuttavia, non ha avuto successo continuando a essergli preferita quella dell’associazione professionale. Il quadro normativo si è arricchito poi con la cd. legge di stabilità 12.11.2011, n. 183, il d.l. 24.1.2012, n. 1 e la legge di conversione di quest’ultimo 24.3.2012, n. 27.
Il complesso di queste norme (art. 10, co. 3, della cd. legge di stabilità e art. 9 bis della legge di conversione n. 27/2012) delinea un quadro per effetto del quale è possibile costituire società tra professionisti utilizzando i tipi previsti dal codice civile ammettendo che possano assumere la veste di soci anche non professionisti – soci di puro capitale – con la riserva obbligatoria della maggioranza capitaria e di quella deliberativa di almeno due terzi in mano ai soci professionisti. La normativa, data la sua latitudine e la destinazione a tutte le professioni, era in grado di comprendere nel suo recinto operativo anche gli avvocati, ostili, peraltro, all’ipotesi della partecipazione di soci di puro capitale e non professionisti per il conflitto di interessi che ciò avrebbe potuto generare.
La nuova norma dell’art. 5 l. n. 247/2012 fu salutata sin da subito come manifestazione concreta del carattere di specificità proprio della professione forense cui era riservata una disciplina ad hoc. In specie l’art. 5, co. 1, rilasciava delega al Governo per emanare un decreto legislativo rispettoso di principi e criteri direttivi tra cui quello, principale, per cui l’esercizio in forma societaria è «…consentito esclusivamente a società di persone, società di capitali o società cooperative i cui soci sono avvocati iscritti all’albo» (art. 5, co. 2, lett. a). In tal modo restava superata la previsione sopra commentata che rende possibile – per le altre professioni – la partecipazione a queste società anche di soci di capitale e si riaffermava, anche per questa via, la specialità della professione forense cui era riservata una disciplina particolare che la distaccava dal regolamento di tutte le altre. Ma i motivi di compiacimento avrebbero avuto vita breve; anzitutto, perché quel decreto legislativo non fu mai emanato generando così il problema se i principi generali che avrebbe dovuto rispettare avevano o meno un’ultrattività tale da scongiurare comunque, pur in difetto di attuazione della delega, la possibilità di costituire società con soci di capitali anche nel caso della professione forense. Ma soprattutto è la recente l. 4.8.2017, n. 124 entrata in vigore il 29.8.2017 ad aver disatteso le aspettative. L’art. 1, co. 141, infatti, ha abrogato l’art. 5 l. n. 247/2012 e ha inserito dopo l’art. 4, l’art. 4 bis che, sotto la rubrica «Esercizio della professione forense in forma societaria» prevede che essa (professione) possa essere esercitata da società di persone, di capitali, o società cooperative. Si specifica – ed è questo quel che interessa – che i soci di tali società, per almeno due terzi del capitale sociale devono essere avvocati, ovvero «…avvocati iscritti all’albo e professionisti iscritti in albi di altre professioni», col che il venir meno di questa condizione costituisce causa di scioglimento della società. La maggioranza dei membri dell’organo di gestione deve essere composta da soci avvocati e i suoi componenti non possono essere estranei alla compagine sociale. Resta fermo il principio della personalità della prestazione professionale e l’incarico può essere svolto solo da soci professionisti. Di rilievo, oltre al resto, il fatto che anche la società è tenuta al rispetto del codice deontologico.
È riconosciuta agli avvocati la possibilità di ottenere e indicare il titolo di specialista secondo modalità stabilite con regolamento del Ministro della giustizia previo parere del CNF; il regolamento è stato adottato con d.m. 12.8.2015, n. 144 prevedendo le seguenti aree di specializzazione: a) diritto delle relazioni familiari, delle persone e dei minori; b) diritto agrario; c) diritti reali, di proprietà, delle locazioni e del condominio; d) diritto dell’ambiente; e) diritto industriale e delle proprietà intellettuali; f) diritto commerciale, della concorrenza e societario; g) diritto successorio; h) diritto dell’esecuzione forzata; i) diritto fallimentare e delle procedure concorsuali; l) diritto bancario e finanziario; m) diritto tributario, fiscale e doganale; n) diritto della navigazione e dei trasporti; o) diritto del lavoro, sindacale, della previdenza e dell’assistenza sociale; p) diritto dell’Unione europea; q) diritto internazionale; r) diritto penale; s) diritto amministrativo; t) diritto dell’informatica. Per il conseguimento del titolo occorre la frequenza con esito positivo, negli ultimi 5 anni, di corsi di specializzazione (art. 7) o, alternativamente, la comprovata esperienza nel settore di specializzazione (art. 8); l’assenza nei tre anni precedenti di sanzioni disciplinari definitive, diverse dall’avvertimento, conseguente a un comportamento realizzato in violazione del dovere di competenza o di aggiornamento professionale; l’assenza, nei due anni precedenti, di revoca di un precedente titolo di specialista. Il regolamento è stato impugnato con più ricorsi al TAR Lazio che, tra l’altro, con la sentenza 14.4.2016, n. 4424 ha bocciato l’elencazione delle materie di specializzazione considerata «intrinsecamente irragionevole e arbitraria»; valutazione condivisa anche dal Consiglio di Stato in sede di appello il quale con la sentenza della sez. IV, n. 5575 del 28.11.2017, ha ritenuto in sovrappiù quell’elencazione «... omissiva di determinate discipline». Lo stesso Consiglio di Stato ha ritenuto illegittimo l’art. 2, co. 3, del regolamento nella parte in cui prevede che commetta illecito disciplinare l’avvocato che spende il titolo di specialista senza averlo conseguito e ciò alla luce della tipicità dell’illecito deontologico la cui previsione è demandata al relativo codice. La conseguenza è che la disciplina relativa va ora rimodulata.
Superando iniziali restrizioni non più in linea con l’attuale assetto della società, è ora libero l’utilizzo di qualsiasi mezzo per pubblicizzare la propria attività professionale, sennonché, esclusa la pubblicità comparativa (art. 10, co. 2, l. n. 247/2012), le restrizioni riguardano ora il contenuto e cioè a) l’attività professionale, l’organizzazione e b) la struttura dello studio, c) le eventuali specializzazioni, d) i titoli scientifici e e) professionali posseduti (art. 10, co. 1), con l’ulteriore limite per cui la pubblicità deve essere trasparente, veritiera, corretta, e non può essere (oltre che comparativa) equivoca, ingannevole, denigratoria e suggestiva.
Sussiste a carico degli avvocati un obbligo di doppia assicurazione, per la responsabilità civile e per gli infortuni. La norma che lo prevede e cioè l’art. 12 l. n. 247/2012 è stata a lungo inoperante dovendo essere attuata con decreto del Ministro della giustizia concernente le condizioni essenziali e i massimali minimi delle polizze assicurative. Il decreto è stato emanato solo il 22.9.2016 e l’obbligo è diventato operante a partire dall’11.10.2017, termine poi prorogato al 10.11.2017.
Il compenso deve essere pattuito «di regola per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico» (art. 13, co. 2, l. n. 247/2012); ciò comporta, secondo la lettura che sembra più ragionevole, che è stato abrogato l’art. 2233, co. 3, c.c. secondo cui era, invece, necessaria la forma scritta a pena di nullità; ciò rende valida anche una pattuizione verbis. Per la determinazione del compenso opera il principio della libera pattuizione (art. 13, co. 3), in difetto di che si applicano i parametri di cui al d.m. 10.3.2014, n. 55.
L’aspetto problematico della questione è, peraltro, legato all’interpretazione da dare ai commi 3 e 4 dell’art. 13. Il primo prevede, infatti, che esso (compenso) può essere forfetario, commisurato al tempo, stabilito in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, «… a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene … il destinatario della prestazione». Il secondo vieta i patti con cui è stabilito in una quota del bene oggetto della prestazione, o della ragione litigiosa. Secondo l’interpretazione corrente quest’ultima disposizione avrebbe reintrodotto nel sistema il divieto del patto di quota lite in precedenza abrogato dalla l. n. 248/2006 e prima di questa da sempre in vigore giusta la previsione dell’art. 2233, co. 3, c.c. L’applicazione dottrinaria e giurisprudenziale di quel divieto portava a ricomprendere nella sua area sia il patto avente a oggetto un compenso a) rappresentato da una parte dei beni, o crediti litigiosi, sia quello b) correlato al risultato pratico dell’attività svolta e, comunque, stabilito in percentuale sul valore dei beni, o degli interessi litigiosi; applicazione, quest’ultima, non direttamente ricavabile dalla lettera dell’art. 2233, co. 3, c.c., e, tuttavia, giustificata con l’attingere alla ratio del divieto ricostruito in funzione della tutela dell’interesse del cliente e della dignità, moralità e decoro della professione forense, beni esposti a pregiudizio se il professionista avesse preso parte negli interessi economici coinvolti nel rapporto. Sicché, se il caso del compenso costituito da una parte dei beni, o crediti litigiosi (ipotesi sub a), tipizzava quello del massimo coinvolgimento dell’avvocato, esso non esauriva gli altri della sua possibile mistione negli interessi del cliente, come quello – per l’appunto – ipotizzato sub b).
Ci si domanda in che modo le disposizioni dei commi 3 e 4 citt. si integrino; infatti, l’art. 13, co. 4, afferma l’illegittimità di un patto sul compenso avente la configurazione più ortodossa e tradizionale del patto di quota lite e cioè quella sopra indicata sub a); ma pare non risolvere con altrettanta chiarezza l’altro quesito concernente il caso del compenso correlato al risultato pratico dell’attività svolta e, comunque, stabilito in percentuale sul valore dei beni, o degli interessi litigiosi. Infatti il precedente comma 3 legittima il compenso «...a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene ... il destinatario della prestazione». Senza dubbio con ciò si consente la pattuizione a percentuale sul valore dei beni, o degli interessi litigiosi; ma non è altrettanto certo che siano diventati legittimi anche i patti in cui il compenso è previsto a percentuale sul valore del risultato ottenuto, ipotesi che – come si è visto – rientra nell’articolazione inizialmente vietata del patto di quota lite e poi legittimata dall’art. 2, co. 1, lett. a), l. n. 248/2006.
A nostro parere, se la percentuale può essere rapportata al valore, non lo può al risultato, perché in tal senso deve interpretarsi l’inciso «...si prevede possa giovarsene», che evoca un rapporto con ciò che si prevede e non con ciò che costituisce il consuntivo della prestazione professionale. Interpretazione, questa, che ha dalla sua, oltre che la conformità al dato letterale, anche la coerenza con la ratio del divieto dato che accentua il distacco dell’avvocato dagli esiti della lite, diminuendo la portata dell’eventuale mistione di interessi quale si avrebbe se il compenso fosse collegato, in tutto, o in parte, all’esito della lite, correndo così il rischio della trasformazione del rapporto professionale, da rapporto di scambio ad uno associativo.
Da notare che ora la recente l. n. 124/2017 ha modificato l’art. 13, co. 5, l. n. 247/2012 con la soppressione delle parole «a richiesta»; ciò vuol dire che dal 29.8.2017 il preventivo deve essere fornito al cliente per iscritto automaticamente e obbligatoriamente al momento del conferimento dell’incarico e non più solo quando il cliente lo richieda.
Va anche aggiunto che la l. 4.12.2017, n. 172 ha introdotto la norma (art. 13 bis l. n. 247/2012) sul cd. equo compenso, successivamente modificata dall’art. 1, co. 487, l. 27.12.2017, n. 205. La normativa introduce una regolamentazione del compenso quando esso sia disciplinato in convenzioni aventi ad oggetto la prestazione dell’attività prevista dall’art. 2, co. 5 e 6, l. n. 247/2012 in favore di imprese bancarie e assicurative nonché di quelle non rientranti nella categoria delle micro, piccole e medie imprese allorché le convenzioni sono unilateralmente predisposte dalle predette imprese (art. 13 bis, co. 1). In tal senso si stabilisce, essenzialmente, che il compenso convenuto deve essere «equo» tale dovendosi ritenere quello che risulti proporzionato alla qualità e quantità dell’attività prestata e sia conforme ai parametri ministeriali (art. 13 bis, co. 2); si considera la natura vessatoria delle clausole contenute in dette convenzioni che determinano, anche in ragione del compenso non equo, un significativo squilibrio contrattuale a carico dell’avvocato (art. 13 bis, co. 4); si formula un elenco di clausole considerate vessatorie (art. 13 bis, co. 5); si stabilisce che le clausole vessatorie sono nulle mentre la convenzione resta valida per il resto e che la nullità opera solo a vantaggio dell’avvocato (art. 13 bis, co. 8); si prevede che nel caso di nullità, il compenso è determinato dal giudice adottando i parametri ministeriali.
L’iscrizione all’albo, condizione per esercitare l’attività professionale, è a sua volta condizionata al superamento dell’esame di Stato per l’abilitazione cui non si può accedere se non previo tirocinio (artt. 41 ss. l. n. 247/2012) della durata di diciotto mesi (art. 41, co. 5) a partire dal momento dell’iscrizione dell’interessato nel registro dei praticanti. Può svolgersi presso un avvocato con anzianità di iscrizione non inferiore a 5 anni (art. 41, co. 6, lett. a), presso l’avvocatura dello Stato, l’ufficio legale di un ente pubblico, o un ufficio giudiziario per non più di dodici mesi (art. 41, co. 6, lett. b), in un altro paese dell’Unione presso professionisti legali con titolo equivalente a quello di avvocato per non più di sei mesi (art. 41, co. 6, lett. c), oltre che in concomitanza col corso di studio universitario (art. 41, co. 6, lett. d); fermo rimanendo che deve comunque svolgersi per almeno sei mesi presso un avvocato (art. 41, co. 7).
La norma che consente lo svolgimento del tirocinio nell’ultimo semestre del corso di studi universitario, è stata caricata di particolari aspettative, ma è priva, in realtà, di effettivo significato e costituisce nulla più che riedizione, aggiornata, di una vecchia norma, la cd. legge Mortara dell’8.6.1874, n. 1938 che all’art. 39, co. 5, prevedeva che per l’iscrizione nell’albo dei procuratori, la pratica forense potesse «…farsi contemporaneamente agli ultimi due anni di studio». L’aspettativa di cui la norma è stata caricata corrispondeva all’idea che si trattasse di un primo passo nella direzione della professionalizzazione dei corsi di studio universitari; in realtà, qui si prevede solo che il tirocinio possa essere svolto «…per non più di sei mesi in concomitanza con il corso di studio per il conseguimento della laurea dagli studenti regolarmente iscritti all’ultimo anno del corso di studio per il conseguimento del diploma di laurea in giurisprudenza nel caso previsto dall’articolo 40…» (art. 41, co. 6, lett. d). La norma esibisce due limitazioni: la prima, espressa dalle parole «in concomitanza», relativa al fatto che si tratta di un tirocinio ordinario svolto mentre si frequenta l’ultimo anno di corso, non anche di tirocinio svolto presso l’Università; la seconda, espressa dal riferimento all’art. 40, relativa alla necessità che sia stata stipulata una previa convenzione con CNF e/o Ordini.
La prima convenzione è stata stipulata, in forma di accordo quadro, dal CNF e dalla Conferenza nazionale dei Direttori di Giurisprudenza e Scienze giuridiche il 24.2.2017; a seguire sono in corso di stipulazione singole convenzioni specifiche tra Dipartimenti universitari e locali Ordini circondariali.
Il tirocinio, oltre che nella pratica presso uno studio professionale «...consiste altresì nella frequenza obbligatoria e con profitto, per un periodo non inferiore a diciotto mesi, di corsi di formazione di indirizzo professionale tenuti da ordini e associazioni forensi nonché dagli altri soggetti previsti dalla legge» (art. 43, co. 1).
Al termine del tirocinio il Consiglio dell’ordine presso il quale è compiuto il periodo di tirocinio (art. 45, co. 1) rilascia il relativo certificato che consente di essere ammessi a sostenere l’esame di Stato presso la sede di corte di appello nel cui distretto si è svolto il maggior periodo di tirocinio (art. 45, co. 3).
Nella Gazzetta Ufficiale n. 63 del 16.3.2018 è stato pubblicato il d.m. n. 17 recante il regolamento per la disciplina dei corsi di formazione in questione entrato in vigore il 31.3.2018 e applicabile ai tirocinanti iscritti nel registro dei praticanti a partire dal 28.9.2018
Quella delle scuole forensi è una realtà ben articolata e oramai ampiamente diffusa su tutto il territorio nazionale. Di scuole si parla nella legge per la disciplina dell’ordinamento della professione forense:
i) nell’art. 11, co. 5, laddove si prevede che le regioni possano disciplinare l’attribuzione di fondi per l’organizzazione di «…scuole, corsi ed eventi di formazione professionale per avvocati»; ii) nell’art. 29, co. 1, lett. c), laddove, elencando le funzioni e i poteri del CNF si dice che questi «…istituisce ed organizza scuole forensi»; iii) nell’art. 29, co. 1, lett. e), laddove si stabilisce che sempre il CNF «…organizza e promuove l’organizzazione di corsi e scuole di specializzazione e promuove, ai sensi dell’art. 9 comma 3, l’organizzazione di corsi per l’acquisizione del titolo di specialista d’intesa con le associazioni specialistiche…».
Le modalità di istituzione e organizzazione di scuole forensi sono stabilite dal CNF che vi ha provveduto tramite il regolamento attuativo n. 3 del 20.6.2014. Dopo il regolamento, l’istituzione in concreto della scuola forense è di competenza dei singoli Consigli dell’ordine, salvo il controllo da parte del CNF per la valutazione della coerenza dell’organizzazione e del funzionamento della scuola col suo regolamento.
Funzioni e compiti delle scuole forensi corrispondono a settori elettivi quali la formazione continua (art. 11), le specializzazioni (art. 9) e il tirocinio (art. 43). In questi ambiti, però, esse possono subire la concorrenza di altri soggetti diversi dai Consigli dell’ordine; l’art. 41, co. 1, – ad esempio – non riserva alle scuole (potremmo dire per individuarne la matrice) ordinistiche la possibilità di organizzare i corsi di formazione, mentre l’art. 11, co. 3, – a proposito di formazione continua – prevede che la gestione e l’organizzazione dell’attività di aggiornamento possa essere curata, oltre che dagli ordini territoriali, anche dalle associazioni forensi e da terzi. Quanto al tirocinio, nuovamente l’art. 43, co. 1, avverte che il settore non è di esclusiva competenza delle scuole forensi, potendo i corsi di formazione di indirizzo professionale essere tenuti anche dalle associazioni forensi, nonché dagli altri soggetti previsti dalla legge. Non è così, invece, per quanto riguarda le specializzazioni, settore nel quale la scuola forense potrebbe ritagliarsi una riserva di competenza dal momento che l’art. 9, co. 3, prevede che i percorsi formativi al termine dei quali si consegue il titolo di specialista «…sono organizzati presso le facoltà di giurisprudenza, con le quali il CNF e i consigli degli ordini territoriali possono stipulare convenzioni per corsi di alta formazione»; il che consentirebbe di attribuire alle scuole forensi un ruolo di primo (ed esclusivo) piano quali strumenti operativi dei Consigli dell’ordine nell’organizzare corsi di alta formazione.
Per arginare il fenomeno dell’iscrizione all’albo di avvocati che in realtà non esercitano la professione, vige ora il requisito – per l’iscrizione e il mantenimento di quest’ultima nel tempo – dell’esercizio professionale «effettivo, continuativo, abituale e prevalente». L’iscrizione all’albo comporta, a sua volta, l’automatica iscrizione alla Cassa forense.
Fonti normative
L. 4.12.2017, n. 172; l. 27.12.2017, n. 205; l. 31.12.2012, n. 247; d.lgs. 2.2.2001, n. 96; d.lgs.lgt. 23.11.1944, n. 382; d.lgs.C.p.S. 28.5.1947, n. 597; r.d.l. 27.11.1933, n. 1578; r.d. 22.1.1934, n. 37; d.m. 9.2.2018, n. 17; d.m. 10.3.2014, n. 55; d.m. 12.8.2015, n. 144; Nuovo codice deontologico forense del 31.1.2014.
Bibliografia essenziale
Senza intento di completezza, per l’analisi in generale dei profili concernenti l’ordinamento e la deontologia forensi, si rinvia, per le opere di respiro monografico a Perfetti, U., Ordinamento e deontologia forensi, Padova, 2011; Danovi, R., Manuale breve. Ordinamento e deontologia, Milano, 2006; Ricciardi, E., Lineamenti dell’ordinamento professionale forense, Milano, 1990.
Per l’analisi delle caratteristiche dell’ordinamento professionale, v. Lega, L., Ordinamenti professionali, in Nss. D.I., XII, Torino, 1965, 6 ss.; Rossi, R., Enti pubblici associativi, Napoli, 1979; Orsoni, G., L’ordinamento professionale forense. Aspetti problematici, Padova, 2005.
Per l’aspetto concernente natura e caratteristiche delle regole deontologiche v. Sandulli, A.M., Regole di deontologia professionale e sindacato della Corte di cassazione, in Giust. civ., 1961, I, 616 ss.; Alpa, G., Le fonti del diritto civile: policentrismo normativo e controllo sociale, in consiglionazionaleforense.it; Danovi, R., Il codice deontologico degli avvocati, in Foro it., 1997, V, 337 ss.
Per la problematica del divieto del patto di quota lite, v. Perfetti, U., Patti e modalità di determinazione del compenso nella novella di cui alla l. 248 del 2006. La morte apparente del divieto del patto di quota lite, in Contr. e impr., 2007, 71 ss.; Gasbarri, F., Brevi considerazioni sui fondamenti del divieto di patto di quota lite, in Giust. civ., 1998, 3207; Vigoriti, V., Patto di quota lite e libertà di concorrenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 583 ss.; Perlingieri, P., Cessione dei crediti, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, IV, Obbligazioni, sub artt. 1260-1267, Bologna-Roma, 1982, 84 ss.