AVARNA, Giuseppe, duca di Gualtieri
Nato a Palermo il 19 marzo 1843 da Carlo e Maria Carmela Pignatelli d'Aragona, entrò in diplomazia nel 1866 all'indomani della guerra contro l'Austria, e sua prima destinazione fu proprio la capitale dell'impero asburgico. Dopo breve permanenza a Vienna, l'A. veniva nel 1869 assegnato all'ambasciata di Parigi, dove soggiornò a lungo, e dove intorno al 1880 strinse amicizia col più giovane collega R. Bollati, col quale doveva dividere molti anni dopo le ansie delle vicende politico-diplomatiche che precedettero l'intervento dell'Italia nella prima guerra mondiale. Nominato segretario di legazione di 1ª classe nel 1880, fu per qualche tempo anche primo segretario ad interim a Londra. Ma il contatto col mondo anglosassone fu alquanto fugace; nel 1886 C. Nigra, che aveva assunto l'ambasciata d'Italia a Vienna e aveva avuto modo di apprezzare le qualità dell'A. a Parigi, lo richiese quale consigliere d'ambasciata e lo ebbe così a collaboratore dal 1886 al 1894. La carriera dell'A. proseguì poi nell'ambito della penisola balcanica: fu ministro plenipotenziario a Belgrado nel 1894 e ad Atene nel 1896. Infine, dopo una parentesi in Svizzera nel 1902, l'A. tornava ancora a Vienna nel 1904, come ambasciatore, raccogliendo la successione del Nigra, che lo aveva segnalato come assai adatto a ricoprire quella sede.
Il carattere e la mentalità dell'A. sembravano in realtà assai confacenti all'ambiente della duplice monarchia, nel quale per oltre dieci anni avrebbe dovuto operare. Conservatore e liberale, più la prima cosa che la seconda, profondamente attaccato alla monarchia, l'A. era un diplomatico assai rispettoso delle forme, poco espansivo, fedele al proprio compito di informatore scrupoloso, tanto da essere molto assiduo al Ballhaus. La lunga consuetudine con gli ambienti e con i problemi dell'Europa danubiana e balcanica lo avevano reso interprete convinto della politica triplicista dell'Italia. Nei lunghi anni viennesi l'A. poté pertanto inserirsi con facilità nella ristretta cerchia dirigente austro-ungarica e soprattutto farsi apprezzare dall'imperatore Francesco Giuseppe, che ancora tanta parte aveva nella direzione della politica estera. La persona dell'A. finì per rappresentare agli occhi degli Austriaci la continuità di una certa politica italiana, iniziata ai tempi del Nigra e che, nel suo perdurare, doveva simboleggiare la conservazíone ad un tempo della pace in Europa e del sistema monarchico nei due paesi, di contro ai rivolgimenti interni ed esterni del periodo tra la fine del sec. XIX ed i primi del XX.
L'attività dell'A. sino al 1914 si identifica praticamente con lo sviluppo delle relazioni italo-austriache di quegli anni: anche se i momenti di frizione non mancarono, specie in occasione della crisi della Bosnia-Erzegovina, della guerra italo-turca e della minaccia austriaca alla Serbia nel 1913, la linea costante seguita dalla Consulta a Vienna non parve mutata e l'azione dell'A., pur nella sua preziosa caratteristica di rendersene fedele interprete, non ebbe particolare risonanza sino all'estate del 1914.
Alla fine del luglio 1914, benché acuto osservatore degli sviluppi della politica austriaca, anche l'A. fu sorpreso dal precipitare degli avvenimenti, né poté segnalare con particolare insistenza i segni della crisi imminente: poco propenso ad assumere iniziative, l'A. non sospettò le decisioni temerarie del governo austro-ungarico e le intese coi dirigenti della politica tedesca. Lo stesso convegno di Konopischt (giugno 1914) tra l'arciduca Francesco Ferdinando e Guglielmo II, apparentemente di mera cortesia, ma in realtà avente per oggetto anche la situazione dell'Italia nella Triplice, non sollevò speciale interesse nell'A., che ne riferì in modo generico a Roma. Dopo l'assassinio di Sarajevo però il governo viennese evitò di proposito di tenere il governo italiano al corrente dei suoi passi, e in particolare evitò di farne qualsiasi cenno all'A., che fu quindi coinvolto nella sorpresa.
Allorché, scoppiato il conflitto, l'Italia dichiarò la propria neutralità appellandosi al trattato della Triplice per il carattere offensivo dell'azione bellica intrapresa dall'Austria, l'A., pur riconoscendo la ineccepibilità giuridica della posizione italiana, ritenne che, dopo un'alleanza più che trentennale, che, bene o male, aveva garantito all'esterno il pacifico sviluppo del nostro paese, non fosse rispondente allo spirito di questa alleanza distaccarsi dalle due nazioni amiche nel momento della prova. Di più, l'autentico interesse italiano spingeva, secondo l'A., ad allinearsi con Germania e Austria nella lotta contro l'infiltrazione panslavistica nella penisola balcanica.
L'A. si rifaceva al concetto dell'inorientamento della monarchia asburgica come direzione di una politica che l'Italia aveva tutto l'interesse a favorire. Come alcuni degli uomini politici più in vista a Vienna e a Budapest (vedi in particolare la presa di posizione di Julius Andrassy nell'autunno 1914) egli pensava, e lo disse apertamente a Roma, che l'Austria costituisse nella regione danubiano-balcanica il valido baluardo europeo di fronte alla pressione russa, che i veri interessi nazionali italiani non fossero nel mare Adriatico, ove la presenza dell'Austria anziché minaccia rappresentava un elemento di sicurezza, bensì nel Mediterraneo e sulle sponde africane. Una Serbia ingrandita a spese dell'Austria, e spalleggiata dalla Francia e dall'Inghilterra, avrebbe costituito nell'Adriatico il vero elemento perturbatore, aprendo le porte del Mediterraneo all'influsso di Pietroburgo. Anche se il Trattato non lo contemplava espressamente, il posto dell'Italia nell'agosto 1914 era per l'A. con gli alleati.
Poiché con la dichiarazione di neutralità il governo di Roma sembrava chiaramente mutare la politica che era stata la ragione dell'azione diplomatica dell'A., egli lasciò Vienna per recarsi a Roma e presentò al ministro degli Esteri, di San Giuliano, ed al presidente Salandra le proprie dimissioni. Ma questi, esponendo all'A. i motivi che sconsigliavano un mutamento nella nostra ambasciata a Vienna e soprattutto facendo intervenire il re, ottenne che l'A. ritornasse alla sua sede e tenesse in sospeso le proprie dimissioni.
Da questo momento (11 ag. 1914) sino alla dichiarazione di guerra all'Austria l'A. ebbe un compito difficile quanto ingrato, quello cioè di essere strumento di una politica che non approvava. Testimonianza di questi mesi, ultimi della carriera, è il carteggio che intrattenne con il collega di Berlino, Bollati, che condivideva le sue posizioni filotripliciste.
Il carteggio è uno dei documenti più significativi del difficile momento della nostra politica estera. I due diplomatici, che dall'autunno 1914 furono tenuti dal governo all'oscuro dei sondaggi intrapresi presso le potenze dell'Intesa, seguirono passo passo l'evolversi della situazione, consci che la decisione sarebbe stata la guerra eppure adoperandosi sino in fondo nel vano tentativo di favorire un accordo. L'A., più misurato e più pessimista del collega berlinese, lo convinse dell'impossibilità per loro di dimettersi, anche nell'imminenza di una rottura con gli Imperi centrali, e della necessità comunque di operare silenziosamente pur nella situazione senza uscite che il governo andava creando all'Italia. Un momento di speranza si aprì all'A. allorché Sonnino assunse agli inizi di novembre il portafoglio degli Esteri; ben presto, tuttavia, - anche attraverso i contatti personali durante il soggiorno a Roma per la riunione degli ambasciatori, indetta dal nuovo ministro degli Esteri ai primi di dicembre - si convinse che Sonnino aveva abbandonato le iniziali posizioni favorevoli alla Triplice. Rientrato in sede, condusse per quasi cinque mesi le faticose trattative che il 9 dic. 1914 l'Italia aveva aperto circa i compensi previsti dall'articolo VII del trattato della Triplice.
L'A. ebbe il torto di palesare a uomini di governo austriaci e ad amici tedeschi, nei primi momenti della guerra europea, il suo dissenso dal proprio governo: così, benché osservasse poi una correttezza esemplare, egli apparve agli occhi degli Austro-Tedeschi a poco a poco sempre più staccato e isolato dalla politica della Consulta. Anche il fatto che fra i nostri due ambasciatori a Vienna e Berlino intercorresse una corrispondenza sul problema del nostro atteggiamento nel conflitto, ed evidentemente in termini di dissenso da Roma, era noto alle cancellerie della Triplice (l'A. era in confidenti rapporti con l'ambasciatore tedesco a Vienna von Tschirschky e con l'ex ambasciatore a Roma Monts).
Pur convinto, a differenza del Bollati, che fosse possibile richiedere compensi da parte italiana per occupazioni temporanee dell'Austria nei Balcani, sul finire del 1914 e ai primi del 1915 riteneva che la discussione fosse condannata a un insuccesso. Analogamente ritenne che la missione a Roma del principe von Bülow non potesse condurre a risultati positivi e che Giolitti e i suoi amici agissero solo più cautamente ma non diversamente dal governo. Tuttavia, quando le pressioni tedesche su Vienna presero a metà gennaio più consistenza, l'A. non escluse più la possibilità che le trattative potessero dare qualche risultato: per lui però la vera difficoltà era nell'azione del governo italiano, evidentemente orientato verso la guerra. L'A. si andava chiudendo nel suo pessimismo. Il 6 marzo Tschirschky gli comunicava che Francesco Giuseppe avrebbe ceduto Trento all'Italia in caso di estrema urgenza e avrebbe considerata sopraggiunta tale urgenza quando l'A. gli rappresentasse che la cessione di quel territorio era inevitabile per eliminare la guerra tra Austria e Italia. Tale sorprendente comunicazione, che poi si rivelò proveniente da circoli austriaci in contatto con Berlino e non dalla Hofburg, rendeva comunque evidente il credito che l'A. continuava a godere presso le più alte sfere viennesi. In quegli stessi giorni il ministro austriaco Burian comunicava la decisione di Vienna di trattare sulla base di compensi in territorio austriaco all'Italia: l'A., che giudicò pienamente leale la condotta di Burian e sinceramente volta a concludere un accordo, ritenne che la decisione fosse tardiva. Nel corso di quel mese e del successivo si sforzò di convincere Burian della estrema urgenza di addivenire praticamente a un accordo, trovando, tuttavia, nel ministro ancora persistente l'illusione sulla evitabilità della guerra con l'Italia. Da parte austriaca intanto, e specialmente da parte tedesca, si comprendeva che l'ambasciatore italiano era isolato dal suo governo anche se fungeva da tramite per le crescenti richieste di Roma. Dopo la comunicazione fatta dall'A. al governo viennese, il 4 maggio, con la denuncia della Triplice, egli rimase in effetti per nove giorni senza notizie da Roma: ormai la decisione era stata presa e gli ultimi strascichi della vicenda si svolgevano nella capitale italiana. L'A. assistette senza speranze ai fatti del maggio: il 23, secondo le istruzioni del governo, consegnava a Burian la dichiarazione di guerra dell'Italia.
Lo stesso giorno lasciava Vienna per tornare in Italia. Si ritirava nel silenzio. Due mesi prima aveva già convinto il collega Bollati a non inviare a Sonnino, in occasione della rottura, alcun telegramma di protesta a motivare le ragioni del dissenso. Sonnino lo chiamò a collaborare alla Consulta, ma la sua attività fu qui assai breve a causa delle non buone condizioni di salute. L'A. moriva in Roma il 31 marzo 1916.
Aveva sposato nel 1884 a Pietroburgo la principessa Maria Dolgorukij, figlia del principe Michele e dell'italiana marchesa Maria Luisa Vulcano di Cercemaggiore. Dal 1909 era senatore; nel febbraio 1914, in occasione del decimo anniversario della nomina ad ambasciatore a Vienna, aveva ricevuto da Francesco Giuseppe una lettera personale di felicitazioni e dal re d'Italia il collare dell'Annunziata. A Vienna, durante la lunga permanenza, aveva provveduto a far dare all'ambasciata la nuova sede sul Rennweg, nell'antico palazzo del principe di Metternich.
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