MURARIA, Arte
A) Tecniche e tipi di costruzione: 1. Mattoni crudi. - 2. Mura pelasgiche. - 3. Opus quadratum. - 4. Opus caementicium. - 5. Opus incertum. - 6. Opus quasi reticulatum e reticulatum. - 7. Opus vittatum. - 8. Mattoni. - 9. Opus testaceum o doliare. - 10. Opus craticium. - 11. Tecniche provinciali. B) Materiali litoidi da costruzione: 1. Criteri generali. - 2. Asia Anteriore. - 3. Egitto. - 4. Libia. - 5. Grecia. - 6. Italia antica: a) Etruria; b) Magna Grecia; c) Sicilia; d) Roma; e) Italia romana.
Sotto questa voce si prendono in considerazione i sistemi murarî degli edifici pubblici e privati e i materiali usati per essi a esclusione del marmo (per il quale v. marmo).
Per le mura di cinta dei luoghi fortificati e delle città, si veda mura e fortificazione.
A) Tecniche e tipi di costruzione. - La tecnica costruttiva più semplice e più antica è quella che usa i sassi sovrapposti, senza particolare selezionamento, così come provengono dalla cava o dal terreno, uno sull'altro, reggentisi verticalmente per sola gravitazione. Muri così fatti richiedevano un notevole spessore, mentre la loro altezza era piuttosto limitata.
La copertura era sempre fatta con legno e strami e con inclinazione variante a seconda del clima. Appaiono costruite in tal modo le più antiche mura di fortificazione, le case delle popolazioni stabilmente insediatesi in quelle aree che diverranno poi città costituite, le tombe con un primitivo rituale funerario.
1) Mattoni crudi. - Nei paesi dove mancava la pietra, oppure dove abbondava l'argilla, si impastava questa materia con paglia tritata e pressata, lasciando la miscela seccare al sole per un certo periodo, entro formelle, o anche liberamente. Questo sistema era molto usato nei paesi secchi come il nord-Africa, l'Egitto e la Mesopotamia, dove si costruivano con questi grossi pani o mattoni crudi, anche palazzi di notevole mole. Per l'ultimo strato di superficie, che doveva eliminare dal muro inferiore l'infiltrazione dell'acqua piovana, si usavano dei mattoni impastati con sola argilla, manipolata con maggiore cura e sottoposta ad una leggera cottura in fornace, che costituisce il primo esempio di mattoni cotti. Vitruvio (ii, 8, 15 ss.) esalta molto questo tipo di muratura "che era stato usato perfino dai re", mentre a Roma - egli dice - era poco adoperato a causa della deficienza di spazio che costringeva a costruire muri sottili fatti di altro materiale, mentre i muri di mattoni crudi, per la loro stessa natura friabile, esigevano un notevole spessore.
Recenti scoperte in Magna Grecia (Velia) e in Sicilia (Eraclea Minoa, Gela, Selinunte, ecc.) hanno dimostrato come l'uso dei lateres seccati al sole, o con cottura assai limitata, fosse molto frequente sia in fabbriche private, sia anche nelle mura delle città. Il grandioso muro di Gela, in località Capo Soprano, è l'esempio più completo di un muro di fortificazione costruito in basso con una spessa fascia di opera quadrata, molto accurata e a strati leggermente digradanti verso l'alto, e al di sopra con un'alta parete di opera laterizia del tipo descritto. In Solunto il decumano massimo è pavimentato con grandi mattoni a disegno. Vitruvio (ii, 8, 9) e Plinio (Nat. hist., xxxv, 173) ricordano nell'Italia centrale due città che avevano le mura fatte di lateres, cioè di mattoni crudi: Mevania e Arretium. Recentemente sono stati segnalati resti di mura in mattoni crudi al disotto della cinta etrusca di Roselle (v.). In questo periodo (VI-IV sec. a. C.) era già nota la tecnica di cuocere l'argilla, ma questa era adoperata solo per le tegole (tegulae, embrices) e per le terrecotte di rivestimento delle trabeazioni dei templi (antefixae, antepagmenta, acroteria).
2) Mura pelasgiche. - Per i muri costruiti in tutta pietra dobbiamo distinguere tre maniere principali: pietre semplicemente spezzate, così come provenivano dalla cava, sovrapposte con semplice adattamento delle superfici orizzontali, lasciando larghi interstizi fra di loro, riempiti con fango o con piccoli sassi. Sono le mura dette pelasgiche, tirinzie o lesbiche della prima maniera, che si trovano in tutto il bacino del Mediterraneo, dall'Asia Minore (strati più antichi di Troia), a Creta, in Sardegna (nuraghi), nelle isole Baleari e in Etruria (Vetulonia, Populonia). Con la scoperta dei metalli duri, i massi vengono sbozzati in superficie e perdono le asperità eccessive: si giunge così alla seconda maniera, in cui non si hanno ancora piani orizzontali, ma solo un migliore assestamento degli scapoli fra di loro ed un migliore accostamento. Esempî: i grandi palazzi di Cnosso e di Festo; la Troia omerica; i sesi di Pantelleria; i nuraghi sardi più recenti; le fabbriche megalitiche di Malta e, nella penisola italiana, le mura ciclopiche o poligonali della seconda maniera (Arpino, Ferentino, Cori, terrazze inferiori, Segni, Sezze). Si giunge finalmente alla terza maniera delle mura poligonali (Alatri, Norba, Cosa, Fondi, ecc.). Tutte e tre le maniere descritte sono usate prevalentemente nei luoghi a fondo calcareo, o di roccia dura che difficilmente si riduce in blocchi parallelepipedi, e perciò portano il nome di opus siliceum.
3) Opus quadratum pseudoisodomum e isodomum. - Nei territorî, invece, dove prevale la roccia tenera o tufacea, fino da quando viene introdotto l'uso degli arnesi di bronzo o di ferro, si comincia ad adoperare il sistema detto saxum quadratum, cioè formato di blocchi parallepipedi, disposti a strati orizzontali. Nell'ètà più antica i blocchi sono di misure modeste, del volume e peso trasportabile a mano da due persone; i filari sono discontinui, i giunti spesso obliqui e mal combacianti, con raccordi e frazionamenti (mura di Caere, Volterra, Tarquinia, Pompei I fase); poi i blocchi sono tagliati più grandi e più regolari (mura serviane di Roma, Siracusa, Paestum, Tindari, Eurialo ed Epipole, Selinunte, Palermo); i filari seguono linee orizzontali continue, i giunti verticali si appiombano. Si formano così i due generi di opus quadratum, detti impropriamente isodomum e pseudoisodomum. Il primo è costituito da tutti blocchi parallelepipedi di uguale lunghezza, altezza e profondità: la lunghezza è di solito il doppio dell'altezza, per cui, ponendo i blocchi del filare superiore a metà lunghezza di quelli del filare inferiore i giunti verticali si allineano in modo alterno (Hephaisteion, Partenone). Isodomo si chiama anche l'altro sistema di costruire muri in facciata con grandi lastre quasi quadrate, che fanno da rivestimento ad un nucleo interno di materiale meno nobile, alternandole, ogni due o tre filari, con uno fatto delle stesse lastre, ma poste in piano a guisa di fasce (Pireo, Messene, Pergamo, Mileto).
Pseudoisodomo è detto invece il sistema più antico, cioè quello fatto con blocchi parallelepipedi, ma di altezze e lunghezze differenti, per cui il loro assestamento avviene secondo linee spezzate, ma sempre a piani orizzontali. In Roma, già nelle mura in tufo granulare sul Palatino (VI sec. a. C.), e poi nelle grandi mura di tufo di Grotta Oscura della metà del IV sec. a. C., i filari vengono alternati col sistema detto in chiave, od anche per testa e taglio, cioè disposti uno nel senso della lunghezza e uno nel senso della profondità. Esempî simili si trovano a Siracusa nel Castello Eurialo, nell'acropoli di Selinunte, nei templi di Veio, di Caulonia e di Ancona. In alcune città della Grecia s'incontrano anche muri costruiti intenzionalmente con andamento ondulato o convesso che non è tanto dovuto alla inclinazione del terreno, quanto ad una presunta credenza di maggiore solidità.
Il sistema isodomo è caratteristico della Grecia classica, particolarmente dell'Attica, adoperando come materiale il bianco marmo del luogo e delle isole; si trova poi con frequenza nelle città ellenistiche (Pergamo, Priene) ed in qualche caso anche in Sicilia (templi di Agrigento e di Selinunte); in Italia, solo nell'età imperiale (templi di Marte Ultore, di Apollo e di Antonino e Faustina, tempio rotondo del Foro Boario, Fori di Augusto e di Traiano). In alcuni templi dell'età repubblicana il podio è rivestito con ortostati alternati con diatoni (cosiddetto tempio della Fortuna Virile nel Foro Boario, di Ercole in Ostia, di Veiove sul Campidoglio).
Il sistema pseudo-isodomo è proprio delle mura di fortificazione in opera quadrata così fatto per risparmio di materiale e di lavoro (Veio, Faleri, Caere, Vulci, Ardea). Per dare un risalto di chiaroscuro ai lunghi muri in opera quadrata si usava di lasciare le superfici esterne, di tutti o di parte di essi, in leggera sporgenza, regolare o irregolare, detta bugnato. Negli edifici di maggiore importanza essa era limitata da una fascia piana che serviva per il raccordo dei massi fra di loro in modo da non far perdere l'allineamento, specialmente verticale; essa viene detta comunemente anathyrosis. I propilei di Atene presentano nel mezzo dei diatoni alcuni dadi sporgenti a tronco di piramide, che sono serviti poi da esempio a molti altri edifici; si deve riconoscere in essi il principio delle bozze o umboni che sono così frequenti negli edifici greci e romani (ginnasio di Atene, mura del Pireo, templi di Segesta, Selinunte, Agrigento, Crotone, anfiteatro di Nimes, porte di Aureliano a Roma), il cui significato è ignoto. Si è pensato ad una ragione tecnica per il sollevamento ed il trasporto dei massi, oppure ad uno scopo apotropaico, estetico, ecc., ma senza che nessuna spiegazione sia soddisfacente.
I blocchi che costituivano il paramento esterno, venivano di solito collegati fra loro per mezzo di arpioni, o grappe, di metallo in forma di T, semplice o doppio, oppure di Ø fissati con piombo; quelli del nucleo interno erano spesso collegati con grappe a coda di rondine, di legno o di metallo. Per il sollevamento gli antichi usavano varî sistemi: l'imbraco per mezzo di funi passanti entro incassi laterali a U (Agrigento, Selinunte), oppure l'olivella a tre lamine incassate in un foro scavato a tronco di piramide sulla faccia superiore dei blocchi, oppure anche una specie di tenaglia a doppio S (ferrei forfices) che si addentrava in due fori nel mezzo delle pareti laterali. Gli strumenti usati per il sollevamento (machinae tractoriae) erano: la capra (rechamus) e il verricello (sucula).
In molti casi, tanto in Grecia quanto in Italia, si trovano sui massi delle mura e porte di fortificazione (mura serviane, di Pompei, di Tindari, di Caulonia; Porta Nigra di Treviri) e più raramente nei basamenti di alcuni templi e sepolcri (Tempio C dell'Argentina in Roma, Tomba della Cristiana in Algeri) scolpite alcune lettere che vengono spiegate o come sigle personali degli operai cavatori della pietra agli effetti del lavoro compiuto, o come scongiuri contro il malocchio, allo stesso modo degli umboni.
4) Opus caementicium. - L'opera quadrata, che è il sistema di muratura quasi esclusivo del mondo greco, tanto nell'Ellade quanto nell'Italia meridionale, va scomparendo gradualmente nell'edilizia romana già dalla fine della Repubblica, per lasciare il posto ad altre tecniche più agevoli e meno costose, introdotte insieme con l'invenzione della malta da presa (structura caementicia). Quando e da chi sia stata scoperta questa miscela di calce e arena che, impastata nella giusta temperatura, forma con gli scapoli di pietra (caementa) un masso unico, non sappiamo. Esempî sporadici compaiono in Oriente già nel V sec. a. C., ma colà si tratta di una materia composta soprattutto di gesso e argilla, di scarsa coesività (dròmos del tumulo di Alyasses presso Sardi; terrazza di Takht-i Madere in Persia).
La vera malta fa la sua apparizione nella Campania agli inizî del II sec. a. C. e risulta formata da calcare bruciato (calx, grassello), poi sciolto con acqua, e di terra vulcanica, detta harena fossicia, o lapis puteolanus ("pozzolana", da Pozzuoli che ne forniva la qualità migliore); oppure con sabbia di mare o di fosso (harena fluviatica o marina). Vitruvio (ii, 5, 1) dà le proporzioni da seguire per un'ottima materia, che sono: 1 di calce (calx) e 3 di pozzolana (harena fossicia), oppure 1 di calce e 2 di sabbia (harena fluviatica).
Contemporaneamente, l'opera cementizia fa la sua apparizione in Asia Minore (basamento del portico di Eumene II a Pergamo), nella Grecia peninsulare e insulare - case di abitazione a Vurva (Attica), Eretria, Delo, Creta, nella Sicilia (Solunto, Leontini, Mozia) e nell'Italia meridionale (Caulonia, Velia). Diversa è però la tecnica di lavorazione presso i Greci e presso i Romani (cfr. Vitr., ii, 8, 2 ss.; Plin., Nat. hist., xxxvi, 171 ss.). I primi si servono di grandi scaglioni di pietra, disposti alternativamente per lunghezza e per larghezza, occupando tutto lo spessore del muro; la malta, prevalentemente terrosa, più che essere una vera materia coesiva dei caementa, forma un piano di allettamento. I secondi, invece, tirano su dapprima le due fiancate esterne, usando sassi più piccoli e ben cementati, e quindi riempiono la parte intermedia con piccoli frammenti di pietra (calcare, o tufo) impastati separatamente con la malta (caementa minutissima ... inter seque imbricata).
5) Opus incertum. - In tal modo il muro è fatto di tre parti: due crustae esterne e una structura caementicia interna. La cubatura e il taglio irregolare dei caementa in facciata hanno dato a questo genere di muratura il nome di opus incertum; esso appare nelle fabbriche più antiche di Alba Fucente (301 a. C.), di Cosa (273 a. C.), di Solunto, di Pompei, di Paestum, di Marzabotto, di Gnathia; in Roma acquista fin dall'inizio un aspetto più uniforme, con scapoli di tufo tagliati in piccoli poligoni e cementati al filo: i primi esempî sono la sostruzione del clivo Capitolino nel Foro e la grande porticus Aemilia, ambedue del 179 a. C., cui seguono il primitivo portico di Metello (146 a. C.), alcune case del Palatino e il tempio rotondo (B) dell'Argentina (100 a. C.); da allora esso diviene il sistema comune di costruire, approfittando della particolare potenza coesiva della pozzolana vulcanica dei dintorni di Roma, assai utile specialmente nella struttura delle vòlte e delle cupole a grande raggio.
6) Opus quasi reticulatum e reticulatum. - Intanto gli scapoli del paramento esterno vanno a poco a poco regolarizzandosi, passando, all'inizio del I sec. a. C., dall'incertum al quasi reticulatum e, verso la metà del secolo stesso, al reticulatum, costituito da tante piccole piramidi tronche con la base in facciata, disposte secondo piani inclinati di 45 gradi sul terreno. Vitruvio così ne parla (ii, 8, 1): "I generi delle strutture sono i seguenti: il reticolato, che è oggi il genere usato da tutti, e l'antico, che è detto anche incerto. Dei due il più bello è il reticolato, ma è fatto in modo che le tessere della facciata sono distaccate dai coagmenta dell'interno. Al contrario i caementa dell'incerto, sovrapposti gli uni agli altri e ben collegati fra di loro, offrono una struttura meno bella, ma più solida della reticolata".
Si è discusso sulla precisa natura dell'opus incertum, ma oggi si è in massima d'accordo nel riconoscervi quel tipo di muratura descritto sopra, col quale furono ricostruite le città che ebbero a soffrire in seguito alle guerre sociali e alle guerre civili fra Mario e Silla (90-82 a. C.) e particolarmente Palestrina, Tivoli, Terracina, Cori, Fondi, Pompei, dandoci una nuova urbanistica a grandi terrazze con criptoportici a vòlta, esedre e nicchie di grande effetto scenografico; muratura solidissima di malta e frammenti di calcare che si prestava alle linee curve e che si era dimostrata particolarmente pratica per le mura e torri di città (Terracina, Fondi, Telesia, Formia, Ordona) e per i grandi monumenti (anfiteatri di Pompei e di Cassino; teatri di Pompei; templi di Ostia, ecc.).
Opus reticulatum. - Il teatro di Pompeo, inaugurato nel 55 a. C., è il primo monumento datato in cui è usato l'opus reticulatum, che perdura, solo o misto con l'opera laterizia (opus mixtum), fino all'età degli Antonini (mausoleo di Augusto, Circo Flaminio, teatri di Minturno, Carsulae, Cassino; innumerevoli edifici pubblici e privati del Lazio e della Campania: Ostia, Ercolano, Baia, Pozzuoli; la grandiosa Villa Adriana di Tivoli, ecc.).
7) Opus vittatum. - Nell'Italia settentrionale e in altre regioni periferiche della penisola, in Spagna e nella Gallia Narbonense, in luogo del reticolato, si trova, nell'età stessa, un paramento formato da blocchetti quadrangolari allettati a piani orizzontali, al quale si dà il nome convenzionale di petit appareil, o di opus vittatum (mura di Spello, Fano, Sepino, Trieste, Cividale, Ventimiglia; anfiteatri di Spoleto, Padova, Nîmes, Arles; teatri di Fiesole, Volterra, Verona, Assisi, Todi); questo soppianterà il reticolato anche nell'Italia centrale dal III sec. in poi e sarà la muratura caratteristica del tardo Impero in tutto il mondo occidentale, o formata di soli quadrelli di pietra o di strati alternati di quadrelli di pietra (tufelli) e di mattoni; il suo proseguimento nel primo Medioevo le ha fatto attribuire anche il nome di opera saracena.
8) Mattoni. - La grande innovazione della tecnica edilizia romana, che si verifica nei primi tempi dell'Impero e che porterà l'architettura imperiale al massimo del suo splendore, è il mattone cotto in fornace. La cottura al forno dell'argilla figulina, impastata con acqua e sagomata in formelle, in modo da darle una particolare resistenza al peso e all'umidità, era già nota per uso architettonico in Oriente e nell'Europa centrale fino dall'Età del Ferro. Nell'ultimo periodo di quest'età si cominciano a plasmare tegulae, antefixae e antepagmenta per la copertura e per il rivestimento esterno della trabeazione lignea dei templi ed in seguito delle case più importanti; ma deve passare oltre mezzo millennio perché il mattone venga anche adibito a rivestire le pareti, formando una cortina esterna o paramento (crusta) di un nucleo interno di altra muratura più modesta; concorre in modo particolare a questo abbinamento l'uso della malta per la coesione delle varie parti, che sono di solito la pietra, spezzata in piccoli scapoli, all'interno, e il mattone all'esterno tagliato in varia forma, in guisa da ammorsare bene col nucleo più interno.
I primi esempî che conosciamo sono alcune celle di sepolcri romani della fine della Repubblica (Cecilia Metella, Calo Cestio, Lucilio Peto, Aulo Irzio), alle quali seguono i Rostra Augusti, la domus Publica nel Foro, e il corridoio interno del teatro di Marcello; l'arte tradizionalista dell'età augustea tiene per un momento questa tecnica lontana da Roma, mentre essa si sviluppa con successo a Torino (Porta Palatina e mura), a Verona (mura) e altrove.
9) Opus testaceum o doliare. - Tiberio, con la sua casa sul Palatino e con i castra praetoria, porta per primo in facciata l'opera laterizia (opus testaceum o doliare), costruendo le pareti con due cortine di mattoni triangolari, posti con la base all'esterno, e infarcendo lo spazio intermedio con una miscela di sassi e malta (opus caementicium o emplecton). Da questo momento l'opera laterizia prende il sopravvento nelle fabbriche urbane (casa di Caligola, domus aurea Neronis, domus Augustana Domitiani), mentre l'opera reticolata viene limitata agli edifici privati e a quelli delle campagne. In Ostia essa perdura fino a tutto il II sec. d. C., mista con ricorsi regolari di mattoni. In Pompei l'opera laterizia è caratteristica dei restauri eseguiti dopo il terremoto del 62 (o 63), con mattoni sottili e bene arrotati.
Con l'impero di Domiziano tutte le fabbriche urbane vengono eseguite in opus doliare, che permette di svolgere più agevolmente le pareti curve e mistilinee di cui si arricchisce l'architettura imperiale. I mattoni vengono fabbricati in tre maniere differenti e sempre quadrati: bessales (cm 19 × 19), sesquipedales (44 × 44) e bipedales (59,6 × 59,6); vengono usati interi negli archi delle porte, nelle vòlte dei cunicoli e negli archi di scarico; vengono invece dimezzati diagonalmente a triangoli o spezzati in trapezi irregolari per il rivestimento delle pareti in opera cementizia. Il loro spessore varia da cm 4 a 2,8, decrescendo dai Flavi ai Severi e così pure il colore, prima giallo, acquista poi quel rosso caratteristico dell'età severiana, che rende così suggestive, ad esempio, le grandi sostruzioni del Palatino verso il Circo Massimo e le Terme di Caracalla. Il più bel laterizio romano è quello delle Terme e del Foro di Traiano, edifici che alcuni autori ci dicono essere stati incominciati da Domiziano. Sotto quest'ultimo imperatore comincia a diventare comune l'uso di timbrare i mattoni col nome del figulo o del suo servo e, spesso, anche con quello del proprietario del fondo in cui veniva estratta l'argilla, e con la data consolare. La percentuale dei mattoni timbrati varia secondo le età ed è particolarmente abbondante sotto Adriano nella grande ripresa edilizia della città dopo gli incendî del 64, dell'8o e del 103 d. C. Si fa notare, non si sa per qual motivo, l'anno 123.
La forma più antica dei timbri è rettangolare, su una o due righe, poi diviene lunata con un orbiculo nel mezzo e infine circolare (v. bolli laterizi). Si è voluto vedere nella forma a luna una particolare venerazione verso questo astro da parte degli addetti all'industria figulina, ma senza una ragione evidente. Tra i grandi proprietarî di fornaci laterizie figurano le famiglie dei Domizi, degli Antonini e dei Severi, che possedevano buona parte dell'agro Vaticano, donde si estraeva l'argilla migliore.
Verso la metà del III sec. d. C. l'industria laterizia subisce una crisi, per cui in molte costruzioni il mattone (solo in parte di nuova fabbricazione) viene mescolato col tufo tagliato in piccoli pani e allettato a strati (opus mixtum o vittatum) (circo e villa di Massenzio, restauri massenziani alle mura di Aureliano). Restano di soli mattoni le grandi fabbriche imperiali (Terme di Diocleziano e di Costantino, Basilica di Massenzio) che chiudono l'edilizia monumentale dell'Urbe.
10) Opus craticium. - In Roma era molto in voga il sistema a traliccio o graticcio (Fachwerk) specialmente per pareti interne, consistente in una intelaiatura di travi di legno, di solito a sezione quadrata di 10-12 cm, innestate fra di loro in croce e riempite con miscela di sassi e fango. Uno strato di intonaco formato con terra fine e gesso, o calce, rivestiva tutta la parete, prestandosi anche ad una decorazione pittorica. Ne abbiamo un bell'esempio nella cosiddetta Casa a Traliccio, in Ercolano, sul cardine IV. Naturalmente le pareti esterne e le principali interne, cioè i cosiddetti muri maestri, erano formati da materia più consistente.
Tecniche provinciali. - Nelle altre regioni del mondo antico il materiale locale ha naturalmente il sopravvento: in Gallia e in Germania è la roccia più o meno litoide tagliata en petit appareil che nel III sec. viene rinforzata con ricorsi regolari di tegole fratte; in Spagna perdura fino a tarda età l'opus incertum, che si regolarizza negli edifici di maggiore importanza; in Italia settentrionale prosegue il sistema di spezzare a metà le grosse brecce di fiume, formando con questo materiale, cementato con malta, grandi fasce, alternate con fasce più esigue di mattoni. Dove è possibile è usato ancora il laterizio (teatro di Rimini, terme di Viterbo e di Civitavecchia) mentre l'opera cementizia con paramento amorfo è il sistema preferito per molti edifici del tardo Impero in tutto il mondo romano (anfiteatri di Albano e di Catania; restauri alle mura delle città maggiori, ville rustiche).
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(G. Lugli)
B) Materiali litoidi da costruzione. - 1) Criterî generali. - Si considerano, qui, le rocce usate dagli antichi per le costruzioni in genere, con particolare riguardo all'architettura monumentale, e cioè i cosiddetti materiali litoidi da costruzione. Questi comprendono, per lo più, i materiali lapidei (come i calcari, le arenarie, i conglomerati, molte rocce magmatiche, ecc.), con comportamento geotecnico e proprietà che giustificano il loro impiego quali pietre da costruzione e da ornamentazione. Qualche cenno dovrà però essere dedicato anche ai materiali sciolti (coerenti e non) quali le argille, le sabbie, le ghiaie, molti tufi vulcanici ecc., privi o quasi di interesse come pietre da costruzione, ma che assumono un ruolo fondamentale per la fabbricazione di materiali litoidi artificiali (laterizi) o come indispensabili ingredienti per la preparazione - in aggiunta ai materiali leganti, aerei o idraulici - delle malte, dei conglomerati cementizi, ecc.
Già negli esempî testé accennati, alcuni tra i più comuni e noti materiali litoidi, impiegati nelle costruzioni, sono stati indicati in base ad un criterio petrografico di classificazione. Tale criterio che considera la composizione mineralogica, i caratteri strutturali, i processi genetici, il chimismo ecc. dei materiali stessi, è il solo che, nel suo rigore scientifico, consenta, almeno entro certi limiti, la caratterizzazione dei varî tipi litologici, anche con riferimento ad alcune fondamentali esigenze pratiche.
Altre esigenze geo-applicative e di carattere più propriamente tecnico, riguardano i fattori geologici e non solo quelli già considerati, che hanno condizionato la genesi dei vari tipi litologici, ma anche quelli intervenuti successivamente, riguardanti le deformazioni tettoniche delle masse da essi costituite, i processi di erosione, quelli di alterazione superficiale, ecc.
Con riferimento al criterio di classificazione di cui sopra, i materiali litoidi da costruzione si ripartiscono, anzitutto, tra le grandi famiglie secondo cui si raggruppano le varie rocce, con riferimento ai processi che hanno presieduto alla loro formazione, i quali possono essere di natura magmatica, sedimentaria o metamorfica.
Le ulteriori distinzioni dei corrispondenti tipi litologici riguardano le particolari modalità del processo genetico. Così tra le rocce magmatiche si hanno le plutoniti (come ad esempio i graniti, le sieniti, le dioriti, ecc.) e le vulcaniti (come i porfidi e le lave riolitiche, trachitiche, basaltiche, ecc.) originatesi per consolidamento del magma rispettivamente in profondità, in prossimità o addirittura alla superficie terrestre. E tra le rocce sedimentarie si possono presentare quelle di origine meccanica (clastiche) come le ghiaie e le sabbie, quelle di deposito chimico come i travertini, i gessi e gli alabastri calcarei e gessosi, e quelle di origine organica (zoogena e fitogena) quali molti calcari e varie rocce silicee, dovuti all'accumulo di resti inorganici di animali e di piante. Tra le rocce metamorfiche, infine, derivanti dalle più o meno intense trasformazioni di rocce preesistenti, si distinguono, ad esempio, quelle originate per termometamorfismo, in seguito al contatto di una massa magmatica, da quelle risultanti dall'effetto combinato di elevate temperature e pressioni nel metamorfismo di carico e nel dinamometamorfismo.
Da un punto di vista costruttorio, con riguardo alle loro proprietà tecniche (omogeneità, volume e forma, peso specifico, compattezza, resistenza meccanica, aderenza con le malte, lavorabilità, scolpibilità, capacità di imbibizione, durevolezza, gelività, colore, ecc.), anche per i materiali lapidei usati nelle antiche civiltà, si può considerare, di massima, valida l'odierna classificazione in tipi utilizzabili per murature ordinarie, per murature speciali, per rivestimenti, per coperture e per uso decorativo. Ricordiamo che per la muratura ordinaria serve la cosiddetta pietra grezza. Questa, costituita da qualsiasi tipo di roccia non friabile, è usata in pezzi informi, quali massi, scapoli, ciottoli, ecc. per muri di fondazione e di riempimento, e per quelli d'elevazione, sempre però provvisti di rivestimento, o tutt'al più in pezzi grossolanamente lavorati (sbozzati), per la costruzione di facce a vista, del massiccio di muri retti o curvi, degli spigoli di edifici, ecc. (pietra concia). Per le murature speciali servono, invece, pezzi particolarmente lavorati su tutte le facce (secondo un disegno prestabilito, almeno fino alla martellinatura), delle cosiddette pietre da taglio. Queste comprendono rocce per le quali sono requisiti fondamentali, oltre ad un certo grado di coerenza - e quindi di resistenza agli agenti esterni degradatori - la estraibilità dai loro giacimenti in pezzi facilmente trasformabili negli elementi costruttorî richiesti e, naturalmente, la facile lavorabilità.
Come materiali da rivestimento possono servire sia le rocce facilmente suddivisibili in lastre - impiegabili anche non lucidate e scolpite - quali gli scisti in genere ed i sedimenti sottilmente stratificati, sia le rocce massicce segate in lastre, ed eventualmente lucidate, comunemente impiegate per scalini, per la pavimentazione, per paramenti, zoccolature, ecc.
Anche le lastre usate per le coperture dei tetti si ricavano da rocce aventi una facile suddivisibilità secondo un solo verso, quali le ardesie, le filladi, gli gneiss e gli scisti in generale.
I materiali decorativi sono costituiti da rocce bianche o colorate, monocrome o policrome (marmi, calcari marmorei, alabastri, graniti, sieniti, porfidi, serpentine, oficalci ecc.), scolpibili ed atte ad un più o meno perfetto polimento, impiegate per rivestimenti esterni o interni, per comporre motivi ornamentali di edifici, di opere monumentali, ecc. (v. marmi antichi).
I tipi di rocce lapidee e sciolte più comunemente usate dagli antichi si identificano, in gran parte, con quelle di impiego attuale, di cui, qui di seguito, viene riportato un sommario elenco:
- calcari duri a frattura irregolare, calcari dolci, calcari teneri (segabili con lame dentate), lumachelle, calcari arenacei, alabastri calcarei;
- dolomie e calcari dolomitici;
- gessi ed alabastri gessosi;
- puddinghe, brecce, arenarie, molasse;
- sabbie per malte, argille da laterizi;
- graniti, sieniti, dioriti, ofioliti, oficalci;
- porfidi e porfiriti;
- rioliti, trachiti, andesiti, basalti, leucititi;
- tufi, risultanti dalla cementazione dei materiali sciolti delle esplosioni vulcaniche; tufi sciolti, con particolari caratteristiche, per la preparazione di malte speciali;
- marmi in senso stretto: cipollini, micascisti, gneiss, quarziti, filladi, serpentine, ecc.
È evidente che nella scelta dei materiali per le murature ordinarie, ancor più che nei tempi moderni, giocavano, presso gli antichi, un ruolo fondamentale fattori di carattere economico, quali il costo di estrazione e di trasporto delle rocce dalle cave ai centri di utilizzazione, e la facile lavorabilità. Queste condizioni determinarono un orientamento verso l'utilizzazione praticamente esclusiva di pietre locali, là dove le condizioni geo-litologiche lo consentivano. Così ai primordî di Atene e di Roma trovarono largo impiego rispettivamente i calcari del Licabetto ed il tufo granulare (v. più oltre, 5 e 6).
Per le murature speciali e decorative, i requisiti tecnici (natura petrografica, in relazione con la struttura, con la compattezza, con le proprietà meccaniche, ecc.) e quelli artistici (colorazione, aspetto in piccolo ed in massa, scolpibilità, attitudine al polimento) richiesti per i relativi materiali, non sempre potevano essere soddisfatti dai prodotti locali di cava. Di qui la tendenza, per l'approvvigionamento di pietre da taglio, da rivestimento ecc., a servirsi di centri produttivi anche abbastanza discosti dalle zone d'impiego. Così a Roma antica, dove, come vedremo, tra le pietre da taglio più usate, si ebbero il travertino di Tivoli (km 18 circa) ed il peperino di Albano (km 20 circa); così ad Atene, dove, fra i materiali lapidei più impiegati nell'antichità, sono da ricordare i calcari estratti nella zona di Eleusi, cioè a circa trenta chilometri da quella metropoli.
Si potevano, così, almeno sino ad un certo grado, conciliare esigenze economiche, tecniche ed artistiche, impiegando rocce spesso tipiche, prodotte in un certo Hinterland del centro o della zona d'impiego.
Si deve, a questo punto, osservare che è proprio dall'impiego secolare di uno o di pochi tipi caratteristici di materiali lapidei da costruzione, che sono derivati il "volto" ed il "colore" caratteristici di molti centri antichi. Si rifletta, in merito, al ruolo del travertino e del peperino, or ora ricordati, non solo per la fisionomia generale, ma per le stesse forme architettoniche di Roma antica, al ruolo di alcuni calcari rosati prealpini per i centri romani della Venezia Euganea, a quello dei "tufi lionati", prodotti del vulcanismo sabazio e cimino, per le costruzioni etrusche dell'alto Lazio, ecc.
I fattori economici considerati vedono naturalmente ridotta di molto la loro importanza, di fronte alle esigenze di carattere artistico - o per lo meno di carattere estetico - nelle opere architettoniche alle quali i materiali lapidei erano destinati. Al limite, le rocce di maggiore pregio - marmi in senso lato - usate a scopo decorativo, per il rivestimento delle strutture murarie, nella pavimentazione, ecc. o come veri e propri materiali da costruzione in opere di carattere monumentale o comunque di una certa importanza architettonica, erano importate da centri produttivi anche assai lontani da quelli d'impiego. Basterà, a tal proposito, ricordare i marmi antichi dell'Attica, del Peloponneso, delle Isole Egee, dell'Asia Minore e dell'Africa settentrionale, che, durante l'epoca imperiale romana, furono esportati in tutti i centri del bacino del Mediterraneo, superando difficoltà nei trasporti terrestri e marittimi, naturalmente ben più forti di quelle dei tempi moderni ed attuali (v. marmi antichi, Commercio).
Gli stretti rapporti che abbiamo visto sussistere tra i materiali da costruzione impiegati in una data regione e la sua costituzione geo-litologica, assumono un particolarissimo significato per le regioni di pianura, le quali, per la natura alluvionale del loro sottosuolo, non offrono, di norma, possibilità di rinvenimento, nel loro àmbito, dei materiali stessi. Nelle piane alluvionali non molto vaste, assieme ai laterizi - che sempre sono stati il tipico materiale da costruzione delle regioni pianeggianti e, comunque, di quelle geologicamente costituite da rocce sciolte - potevano trovare impiego le rocce lapidee di particolare pregio, che entrano nella costituzione dei rilievi che le bordano. È il caso dei citati calcari del Veronese, della pietra d'Istria o della trachite euganea, già largamente impiegati nelle costruzioni romane in tutta la pianura veneta.
Vedremo che in regioni di pianura di ben maggiore ampiezza - come ad esempio quella della Mesopotamia - il materiale laterizio ha assunto un ruolo fondamentale, ed in molti casi esclusivo, improntando l'architettura delle antiche civiltà che hanno trovato sede in quel particolare ambiente geografico.
Il materiale laterizio, del resto, ha proprietà così nettamente positive per quanto riguarda la relativa semplicità dei processi di fabbricazione, la facilità del suo trasporto e la comodità del suo impiego, da renderne diffusissimo l'uso anche in centri (come Roma) in cui si poteva disporre di svariati e pregevoli materiali naturali locali.
Il mattone cotto rappresenta però il risultato di un certo progresso tecnologico. Più diffuso, nelle zone povere o prive di altri materiali, era pertanto l'uso, nell'edilizia comune - e non solo in quella rurale - del mattone crudo e cioè semplicemente essiccato al calore del sole (Mesopotamia, Grecia, Sicilia, Etruria).
Prima di passare alla descrizione dei caratteri litologici e costruttori di alcuni dei materiali litoidi più usati dagli antichi, dobbiamo avvertire che, data l'estrema vastità dell'argomento e la generale dispersione delle fonti - talvolta molto povere di elementi informativi - abbiamo dovuto limitare il nostro studio quasi esclusivamente alle regioni che si affacciano sul Mediterraneo. Dei materiali stessi abbiamo tentato una rassegna aderente ai criterî di classificazione e di caratterizzazione petrografico-tecnologica più sopra accennati, e, per quanto possibile, riferita all'ambiente ed alle diverse esigenze e forme architettoniche delle varie civiltà.
2) Asia Anteriore. - Ci riferiamo essenzialmente alla Mesopotamia in senso lato, culla degli imperi assirobabilonesi (v. mesopotamica, arte). Gran parte di questa terra, a S-E della regione di Bagdad - in cui il Tigri e l'Eufrate, i due grandi fiumi che la percorrono, tendono ad avvicinarsi - comprende la cosiddetta bassa Mesopotamia (Babilonide degli antichi), e corrisponde alla vasta pianura alluvionale, originata dai due corsi d'acqua ora ricordati, i quali, ancora in tempi storici, scendevano separatamente al mare. A monte della regione di Bagdad, si ha l'alta Mesopotamia (che è, poi, quella intesa in senso classico), in parte ancora terra di pianure e, verso N, tra la Gesira e la zona di Mossul, con il carattere di un tavolato prevalentemente calcareo e dolcemente inclinato verso S. Questa ripartizione di carattere geografico ha una notevole importanza anche con riferimento alla locale disponibilità, nella nostra regione, di materiali da costruzione.
Condizioni assolutamente sfavorevoli, da questo punto di vista, si presentano, infatti, nelle zone della bassa e di una parte dell'alta Mesopotamia, mentre i caratteri geolitologici del tavolato determinano ben diverse possibilità d'approvvigionamento dei materiali litoidi. L'uso pressocché obbligato, da parte degli antichi, del materiale laterizio, nelle estese pianure della regione, divenne, in ogni caso, una tradizione - legata, naturalmente, anche ai generali orientamenti artistici e, in particolare, a quelli architettonici - che si estese a tutta la Babilonia, indipendentemente dalle risorse naturali di ogni singola zona. È questa una delle cause fondamentali del pessimo stato di conservazione che, comunemente, presentano i resti delle antiche, fiorenti civiltà che qui si sono sviluppate, per aver esse sacrificato all'innegabile economia, offerta dai laterizi, la capacità delle loro fastose architetture di resistere ai secoli.
Nella terra dei Sumeri (situata a monte dell'attuale confluenza del Tigri con l'Eufrate) assieme ai comuni mattoni, impiegati nelle murature con legante bituminoso, si ebbe un largo uso di particolari pezzi decorativi, sempre in cotto, per le costruzioni di maggior pregio. Ne danno testimonianza le rovine di Ur (tempio di Nannar, ornato di piastrelle smaltate), di Eridu, di el῾Ubaid, ecc. Solo ad Eridu la vicinanza di basse alture calcaree, consentì di costruire in pietra - raro esempio in Babilonia - le mura cittadine. Nella stessa località, si è avuto anche l'uso di marmi - forse importati dall'Asia Minore - per la gradinata della ziqqurat.
I Sumeri avevano case molto primitive - poco più che capanne - con pareti di canne, di solito intonacate con un impasto di argilla e paglia indurito al sole, con tetti ad arco (pure di canne) e con pavimenti in terra battuta (v. casa).
Con mattoni d'argilla essiccata erano pure costruite le comuni case di Babilonia. Benché i laterizi fossero diffusissimi un po' in tutte le costruzioni d'una certa importanza (l'esempio più notevole d'applicazione si ha nelle mura della cittadella, costruita da Nabucodonosor), troviamo qui templi, come quello della dea Ninmakh, di Ishtar e l'é-patutila del dio Ninurta, costruiti con mattoni crudi.
A Babilonia si fece anche un largo uso della pietra da taglio - di ignota, ma certamente lontana, provenienza - limitatamente, però, alla costruzione dei giardini pensili (v. giardino).
Di più largo uso, anche se spesso in associazione con i laterizi, furono i materiali lapidei in Assiria, regione compresa nell'alta Mesopotamia, nella quale i materiali stessi abbondavano. Lo attestano le rovine di Ninive, ed in particolare le sue celebri mura, costruite con mattoni crudi, e rivestite con grandi e spessi lastroni calcarei ed alabastrini, di provenienza locale.
3) Egitto. - La costituzione geologica dell'Egitto è senz'altro favorevole all'approvvigionamento di materiali da costruzione e da ornamentazione, talora di alto pregio, sia dal punto di vista tecnico, che da quello decorativo.
L'imbasamento geologico della regione, costituito da una potente serie scistoso-cristallina, cui si accompagnano rocce magmatiche, sia intrusive che effusive, offre ottimi graniti, come quelli bianco-neri e rosei (questi ultimi anche con varietà a grossa grana) della zona dell'antica Syene (attuale Assuan), porfidi e porfiriti, talora di magnifico effetto decorativo, come il cosiddetto porfido rosso antico dell'alto Egitto (Gebel Dukhan), e persino rocce clastiche, largamente impiegate nell'antichità, come la breccia verde della valle del Qessir, pure nell'alto Egitto (per questi materiali v. anche marmi antichi).
Le coltri sedimentarie mesozoiche (Cretaceo) e paleogeniche, eminentemente calcaree, offrono materiali - talvolta, come vedremo, anche arenacei - di più modesto pregio, ma di più facile escavazione e lavorazione, e perciò di assai più largo impiego, anche nelle lavorazioni monumentali. Tra questi ultimi materiali, ricordiamo anzitutto i calcari a grandi nummuliti dei cosiddetti "strati di Mokattam" dell'Eocene. L'impiego più importante di questi calcari fu, indubbiamente, quello per la costruzione della massa principale delle piramidi del gruppo di Gīzah (Kheops, Khephren e Mykerinos).
Le cave erano negli immediati dintorni, dove gli strati di Mokattam affiorano largamente. L'esistenza degli strati in parola era già stata rilevata anche dagli antichi; in particolare da Erodoto e da Strabone, colpiti dall'abbondanza dei resti fossiliferi nei calcari delle piramidi. Il rivestimento delle piramidi di Gīzah era ottenuto con blocchi di due materiali diversi: il granito rosso di Assuan, estratto dalle cave poste in vicinanza della Prima Cateratta del Nilo, nella parte inferiore, ed il calcare bianco, scavato a Tura, sulla destra del Nilo - pure di età paleogenica - impiegato nella parte più elevata della costruzione.
Nella zona dell'antica Memfi, dei resti di piramidi conosciuti a Saqqārah, sempre sulla sinistra del Nilo, circa km 35 a S di Gizah, più di quelli della piramide di Khenzer, il corpo della quale è costruito con mattoni d'argilla grigia, disposti in letti orizzontali, ci interessano quelli della piramide di Aba, presso il tempio di Phiops II. Quest'ultima, infatti, che aveva il sarcofago costituito da un enorme blocco di granito, fu costruita con il calcare bianco di Tura, la già menzionata località sulla destra del fiume, in una posizione intermedia tra Gīzah e Memfi. Nella zona dell'antica Tebe, capitale per tutto il periodo del cosiddetto Medio Regno, hanno ancora sviluppo i calcari più o meno scistosi degli "strati di Mokattam" (qui con i loro estremi lembi meridionali della regione egiziana), che costituiscono il Gebel Gurnah, in faccia a Luxor, e che presentano un notevole interesse archeologico essendo in essi scavate le Tombe della Valle dei Re. A Tebe, però, i materiali più usati per le costruzioni monumentali furono il granito rosso di Assuan, impiegato oltre che per ricavarne gli obelischi, per le colonne ed altri elementi architettonici (ad esempio nel tempio di Amon e in quello di Amenophis III), l'alabastro calcareo (con funzioni eminentemente ornamentali), e soprattutto un'arenaria silicea chiara, ricavata localmente da una formazione mesozoica (quella delle cosiddette "arenarie nubiane", di deposito continentale). Con questa arenaria sono prevalentemente costruiti il tempio di Amen-Rē di Mōt e le altre costruzioni monumentali di Karnak.
4) Libia. - Le colonie romane, dislocate lungo la costa libica, ricadono in zone per lo più costituite da formazioni terziarie e quatemarie, capaci di fornire materiali da costruzione facilmente estraibili e lavorabili. Oltre ai materiali locali - di cui diamo qualche cenno - nelle costruzioni monumentali di tali centri furono in gran copia usati, nel periodo imperiale, anche marmi e cipollini di provenienza greca e graniti egiziani.
A Cirene, tra i materiali adoperati per la costruzione della Fonte e del tempio d'Apollo, del tempio di Artemide, ecc., si riconoscono i calcari marnosi verdastri e giallastri dell'Aquitaniano e dell'Oligocene e, soprattutto, i calcari compatti medio-eocenici, pieni di grandi nummuliti.
Leptis Magna, anche nella parte monumentale, era costruita con i calcari miocenici di Rās el-Margheb (bianchi teneri, spugnosi, ceroidi e subcristallini), e di Rās el-Hamman (bianchi e giallastri, di solito arenacei), località poste rispettivamente ad O e S dell'antico centro. Con il calcare del Rās el-Margheb fu, in particolare, costruito l'arco di Traiano. Il marmo delle parti decorative dovette essere importato, sia grezzo che già lavorato.
Un altro materiale locale usato a Leptis Magna è costituito dalla panchina sabbiosa, grossolana, del Quaternario del litorale. Quest'ultima roccia è diffusa anche nella zona dell'antica Sabratha, dove trovò largo impiego come materiale da costruzione, ad esempio nel teatro.
5) Grecia. - La Grecia è nota come il maggior centro di produzione dei marmi usati nell'antichità, ricavati, in massima parte, dall'imbasamento cristallino della regione. Il suolo greco ha però anche grande dovizia di rocce che, senza possedere la nobiltà ed i pregi ornamentali dei marmi, offrono ottimi requisiti come materiali da costruzione. Sono taluni calcari mesozoici (soprattutto del Cretaceo) e terziarî che, assieme ai conglomerati ed alle arenarie cenozoici, trovarono largo uso sin dai più lontani tempi.
Ad Atene, tra i materiali usati nell'antichità, è, anzitutto, da ricordare il calcare grigio-azzurrognolo, con vene calcitiche giallastre o rosso brune, del Cretaceo, affiorante sulla rocca dell'Acropoli e sulle alture del Licabetto e del Turkovuni. Questa roccia, usata anche attualmente come materiale per fondazioni, era allora scavata sulle circostanti colline e, soprattutto - a quanto sembra - al Barathron, la rupe che taglia verso N-O il Colle delle Ninfe. Essa fu impiegata, tra l'altro, nelle più antiche mura di sostegno dell'Acropoli e in qualche tratto delle mura poligonali.
Un altro calcare compatto dei dintorni di Atene, chiaro, un po' poroso (assomiglia al travertino romano) e di età terziaria, usato dagli antichi come eccellente materiale da costruzione (ad esempio nel tempio di Zeus, nell'antico tempio sui cui resti sorse il Partenone, nelle mura di Temistocle al Dipylon, ecc.: v. atene), veniva estratto nella zona di Karà, circa km 3,5 a S-E dell'Acropoli. Più largo impiego trovò, per la sua facile lavorabilità e per la sua durevolezza, la pietra del Pireo (penisola Aktè). Si tratta di un calcare, talora marnoso e sabbioso, di colorazione assai variabile (in genere bianco-grigiastra nella roccia fresca, e grigio-giallognola in quella alterata), che, non avendo pregi decorativi, nelle costruzioni monumentali veniva spesso rivestito di marmo; (esempî d'applicazione, l'Odeion di Erode Attico, il teatro di Dioniso, l'Asklepieion e il cosiddetto Theseion).
Ancora più mediocri, dal punto di vista estetico, i conglomerati grossolani pliocenici (a ciottoli prevalentemente calcarei, con cemento calcareo-arenaceo) della piana compresa tra la città di Atene, il Licabetto, il Turkovuni e l'Imetto. Perciò si usarono, per lo più, per la parte interna delle murature, con rivestimento di pezzi squadrati di calcare del Pireo.
Ricordiamo ancora l'impiego, nelle costruzioni dell'antica Atene, del calcare grigio-bluastro, escavato nei pressi di Eleusi, dove tuttora si osservano le tracce delle vecchie cave (tagli, camere di coltivazione).
Tra i marmi usati, anche come materiali da costruzione, per nobilitare le più insigni architetture, in prima linea è senz'altro il Pentelico. Con esso sono completamente costruiti, in Atene, l'Olympieion, i Propilei, il tempio di Atena Nike, il Partenone, l'Eretteo, ecc. Ad Eleusi, oltre ai calcari locali, di cui si è fatto cenno, e che venivano soprattutto scavati presso il convento di Dafnì, si impiegarono i calcari mamosi, chiari e fossiliferi di Megara, i calcari del Pireo, conglomerati ed arenarie terziarie, e - là dove esigenze artistiche lo richiedevano - il Pentelico e varî marmi insulari.
Passando al Peloponneso, ricordiamo che Tirinto e Micene appaiono costruite soltanto con materiali locali; principalmente calcari compatti variamente colorati del Cretaceo e conglomerati riferiti al Pliocene. I primi sono stati impiegati esclusivamente a Tirinto; a Micene (v.) si usarono invece, di preferenza, i conglomerati: ad esempio nelle mura, compresa la celebre Porta dei Leoni.
A Tegea, in Arcadia, i templi sono costruiti con il calcare marnoso grigio-bluastro chiaro, escavato a Dolianà, dove ancora esistono resti delle cave.
Nella costruzione delle mura e delle torri di Messene e di Figalia e del tempio di Bassae (v. figalia), trovò impiego un altro bel calcare grigio-giallastro di età cretaceo-eocenica, diffiiso localmente.
Ad Olimpia (v.), infine, i più importanti monumenti antichi, quali il tempio di Zeus, l'Heraion, la palestra, ecc., sono costruiti con un locale calcare concrezionare e fossilifero, di età pliocenica. Largo impiego trovarono, in questa città, anche un calcare grigio-giallastro proveniente dalla valle dell'Alpheios e molti pregiati marmi come quello di Nasso, il caristio e il rosso antico.
6) Italia antica. - L'Italia, nella complessità e molteplicità delle formazioni che partecipano alla sua costituzione litologica, presenta un quadro assai vario, riguardo ai tipi di rocce impiegate o impiegabili, come materiali da costruzione. Ne deriva, per i centri abitati, una diversità, spesso assai marcata, sià dell'aspetto generale che del "colore".
Vi sono zone, come la Riviera Ligure, la Maremma Toscana, il Senese ed il Sulcis in Sardegna, in cui l'estrema variabilità dei caratteri litologici può accentuare tali diversità; abbiamo, in compenso, settori relativamente ampi, come le Prealpi lombarde e venete, le sezioni umbro-marchigiana ed abruzzese dell'Appennino, la parte del Preappennino laziale-campano occupata dai prodotti del vulcanismo quaternario ecc., in cui questi caratteri, mantenendosi in complesso costanti, possono conferire una relativa uniformità alla fisionomia complessiva degli abitati.
Vanno d'altra parte considerati - in questo quadro di generale dovizia di materiali da costruzione - anche i vasti territori in cui l'accennata costanza d'ambiente geologico, assume aspetti estremamente negativi per l'edilizia. Sono, essenzialmente, quelli dei sistemi collinari o addirittura montuosi, costituiti da terreni argillosi o comunque sciolti, le maggiori pianure, soprattutto quella padana, dove, sin dai più lontani tempi, si è ricorsi all'uso dei laterizi, di solito accoppiato con quello di pietre da taglio d'importazione.
Sta di fatto che, nel suo complesso, il quadro del patrimonio italiano in materiali da costruzione, è assai ricco e variato, e i tipi litologici, talvolta caratteristici, che lo compongono trovarono, generalmente, una larga utilizzazione in ogni tempo. Di qui le difficoltà che si presentano per una rassegna di quelli più importanti e già in uso nell'arte muraria dell'Italia antica.
a) E t r u r i a. - Trascurando i tempi preistorici, durante i quali, del resto, la pietra entra soltanto nelle costruzioni megalitiche dell'Età del Bronzo, iniziamo il nostro esame dall'epoca etrusca, limitatamente alla vera e propria Etruria.
A grandi linee ed in prima approssimazione, si può affermare che, mentre nella parte centro-meridionale della regione, gli Etruschi potevano disporre dei tufi lapidei dei centri vulcanici quaternarî di Bolsena (tufo vulsinio di cui una varietà grigio-nera compatta è il notissimo nenfro), di Vico (tufo cimino) e di Bracciano (tufo sabazio), nella parte settentrionale, e cioè nel Grossetano, nel Senese-Volterrano, nell'Aretino e nell'Umbria, potevano, tra l'altro, contare su diversi tipi d'arenaria d'età terziaria, con costituzione, con grado di cementazione, e quindi proprietà costruttive assai variabili, su calcari e calcari marnosi pure terziarî, bianchi, grigi e giallognoli, spesso stratificati in piccoli banchi, e quindi facilmente lavorabili, e sui travertini quaternarî.
Scendendo a qualche esempio, ricordiamo i tufi lapidei giallastri, a grosse pomici nere, con cui furono costruiti i muri ed i basamenti delle tombe a camera e dei tumuli della necropoli di Caere (Cerveteri), i tufi leucitici grigio-giallastri di Orvieto, usati in grossi blocchi per la costruzione della Necropoli del Crocifisso, quelli di Blera, Norchia, Castel d'Asso (Viterbo), e di Sovana (Grosseto), che costituiscono i dirupi nei quali si scavarono le note "tombe a dado", "tombe a casa" e "tombe a tempio"; quelli giallastri di Veio (attuale Isola Farnese), a N di Roma, originati dal vulcanismo sabazio, con i quali, tra l'altro, è costruito il basamento del tempio locale.
Tra le arenarie più pregiate in uso nell'Etruria settentrionale, ricorderemo il notissimo macigno, di età terziaria - a granuli quarzoso-feldspatico-micacei e con cemento calcareo-marnoso - che, fresco, ha un simpatico colore grigio-azzurrognolo da cui deriva la denominazione di "pietra serena", riservata ad alcune sue varietà, mentre con l'esposizione agli agenti atmosferici tende ad assumere una colorazione giallastra e, talora, a sfaldarsi.
Ricordiamo, fra i tanti esempî d'applicazione di questa roccia, il muro di cinta, con conci spesso giganteschi e ottimamente lavorati, dell'antica Cortona, e quello di Fiesole. In quest'ultima località, con la locale pietra serena sono costruiti anche l'ara ed il basamento del tempio.
Di età più recente (pliocenica) sono le sabbie, ben cementate da legante calcareo, della collina di Volterra, localmente dette panchina, con cui è costruita la Porta dell'Arco dell'antica cinta muraria. Tenere sono, invece, le sabbie gialle delle colline di Perugia (cronologicamente riferite al Villafranchiano) e di Chiusi (del Pliocene superiore) in cui sono scavate le locali necropoli. A Chiusi le camere delle tombe più tarde erano spesso rivestite con travertino locale. Quest'ultima roccia, per la sua facile lavorabilità e la sua relativa leggerezza, è stata del resto usata dagli Etruschi con funzioni propriamente costruttorie: ad esempio a Perugia nel cosiddetto Arco di Augusto.
Ricordiamo ancora che gli Etruschi, negli elevati, non solo delle case di abitazione, ma anche di opere monumentali (ad esempio nei templi), si servivano largamente dei mattoni crudi, quando non ricorrevano al legno con eventuale rivestimento fittile. A ciò è, essenzialmente, dovuta la pressoché totale distruzione cui andarono soggette, con il tempo, le relative strutture. Un esempio d'impiego si ha nella recente constatazione che la parte più grandiosa delle mura di Roselle (Grosseto), le cui fondazioni giacciono in terreno archeologico databile alla fine del VII-inizio del VI sec. a. C., era stata preceduta da un muro di mattoni crudi. Un tardivo esempio di tale impiego si ha nella cinta muraria di Arezzo.
b) M a g n a G r e c i a. - Anche se stabiliti, di norma, lungo il mare, su pianure costiere o in zone di costa bassa, gli stanziamenti greci nell'Italia meridionale ed in Sicilia poterono quasi sempre disporre di materiali locali, estraibili in pezzi di dimensioni anche rilevanti, facilmente lavorabili e di gradevole aspetto.
Qualche notizia circa la natura litologica e gli altri principali caratteri dei materiali in parola, è possibile naturalmente solo per i centri nei quali tuttora si conservino ruderi di qualche entità.
Nella parte dell'Italia meridionale, relativa alla Magna Grecia, ricordiamo il travertino quaternario di Capaccio (nella pianura costiera alla foce del Sele) largamente usato nelle costruzioni di Paestum e fra l'altro - in grossi blocchi parallelepipedi - nelle mura, nelle porte, e nei grandi templi detti di Minerva, di Nettuno e Basilica (v. paestum).
Si tratta di un travertino bigio, a tessitura microcristallina, di solito molto spugnoso, che, con la lunga esposizione, assume una simpatica tinta calda, giallorossastra. Ad onta della sua modesta apparenza, questo calcare ha una notevole durevolezza, anche nei confronti della salsedine.
Di un calcare tenero locale, molto eroso e con qualche traccia di stuccatura, sono anche costituiti i resti del tempio di Metaponto, conosciuto con il nome di Tavole Palatine.
c) S i c i l i a. - Passando alla Sicilia, ci è solo sommariamente nota la costituzione litologica dei materiali da costruzione di vari insediamenti anche importanti come Segesta - dove si usò un calcare nummulitico, di color bianco grigiastro, piuttosto erodibile, ricavato dai terreni terziarî della zona - e come Selinunte, dove trovò invece impiego un calcare tufaceo recente (quaternario) escavato nei dintorni.
Notizie più precise si hanno per altri centri greci, e soprattutto per Agrigento e Siracusa.
La prima di queste due città presentò condizioni particolarmente favorevoli all'approvvigionamento di materiali lapidei, per l'esistenza nella zona stessa in cui sorse, della potente ed estesa coltre di calcari teneri plio-pleistocenici, distesa sulle argille plioceniche tra il Monserrato e la Rupe Atenea.
I più usati, nelle costruzioni monumentali, furono quelli grossolani, conchigliari, pleistocenici. Molto teneri in cava, questi tufi, dopo la loro messa in opera, tendono ad indurire: non tanto, però, da preservarli dalle azioni dell'erosione meteorica, che li attacca gravemente dopo la scomparsa della rivestitura di stucco che anticamente li ricopriva.
Condizioni più favorevoli si avevano a Siracusa. Qui, oltre che del calcare tenero conchigliare quaternario - diffuso sulla sinistra, ed ancor più sulla destra dell'Anapo - si poteva disporre dei calcari miocenici del tavolato ibleo, che ha il suo margine meridionale poco a N della città. Tra i calcari miocenici, la varietà più usata, in ogni tempo, fu quella denominata pietra di Siracusa, giallino-chiara, a grana fine, tenera e quindi facilmente lavorabile appena estratta, ma suscettibile, se lungamente esposta, di un sensibile indurimento, che la rende resistente e durevole. Con questa pietra, scavata nelle grandiose cave sotterranee dette "latomie", furono costruite la cinta muraria difensiva della città, il Castello Eurialo, i templi, ecc.; nella stessa roccia, sul colle Temenite, fu scavato anche il teatro.
d) R o m a. - Nell'uso dei materiali da costruzione dell'antica Roma, si possono distinguere alcune fasi evolutive, corrispondenti ad un mutevole orientamento nella valutazione dell'ordine dei fattori economico-tecnici ed estetici che entrano nella scelta dei materiali stessi.
In una prima fase, è alle rocce dello stesso suolo cittadino che si fa quasi esclusivamente ricorso: rocce piroclastiche, la cui genesi è connessa all'attività dei vulcani quaternarî (soprattutto di quello laziale, ma subordinatamente anche di quello sabazio). Sono i tufi leucitici detti granulari (e anche, impropriamente, cappellaccio), di deposito lacustre, della formazione basale dei colli di Roma. Di color grigio-cenere, a grana piuttosto minuta, con piccoli inclusi leucitici, augitici e granatiferi, i tufi granulari, per la loro scarsa cementazione e per la tendenza a dividersi in sfoglie, sono materiali da costruzione molto modesti. Con tutto ciò trovarono impiego pressoché esclusivo in Roma, nel VI e V sec. a. C., e continuarono ad essere usati anche più tardi (sino al II sec. a. C.) nei muri di fondazione, ed in genere nelle murature sotterranee.
Tracce delle cave di questa roccia (dette lautomiae) sono state scoperte presso il Tullianum (v. roma), nella zona della platea del Tempio di Giove Capitolino, in quella retrostante al Monumento a Vittorio Emanuele e fuori Porta S. Lorenzo. Tra le opere nella costruzione delle quali fu usata, ricorderemo le mura del Comitium, gli acquedotti dell'Aqua Appia e dell'Anio Vetus, il tempio di Giove Capitolino, le mura serviane, le sottostrutture dei templi di Saturno, di Castore, di Apollo Sosiano, ecc.
Alla fase d'impiego di questi tufi, segue quella di utilizzazione di altri, sia granulari che litoidi, di solito di mediocre consistenza, in parte ancora ricavabili nell'area cittadina (Monte Verde, Palatino, Campidoglio, ecc.), e in parte nei dintorni immediati di Roma (Grotta Oscura, Fidene, valle dell'Aniene). Il tufo di Grotta Oscura, escavato nell'omonima località (km 4, fuori Prima Porta) è di consistenza semilitoide e di colore grigio-giallastro. Non fu impiegato a Roma prima del IV sec. a. C.; dopo quell'epoca, e fino alla metà del II sec. a. C., fu il materiale da costruzione più usato. Più tardi, benché mediocre, per la sua friabilità e porosità, continuò a trovare campo d'applicazione come materiale per fondazioni, e - per la sua particolare leggerezza - nella costruzione delle vòlte. Fu usato nei ponti Milvio ed Emilio, nelle mura serviane, nel tempio della Concordia, ecc. (v. roma).
I tufi lionati di Monte Verde, degli altri colli di Roma e della valle dell'Aniene, rientrano tra i litoidi, e possono considerarsi come semplici varietà del saxum rubrum o lapis robur, così chiamato per la sua colorazione giallo-rossastra. Si tratta di tufi leucitici di varia compattezza, da collegare alle fasi esplosive del vulcano laziale, con numerosi inclusi di frammenti lavici e calcarei, di cristalli di leucite e d'altri silicati,
I tufi di Monte Verde (giallastri o bruno-rossastri) erano essenzialmente scavati nella zona compresa tra la stazione di Trastevere e la via Portuense, nei dintorni meridionali dell'antica città. Generalmente più scuri e compatti erano i tufi della valle dell'Aniene (Anio tufa). Quelli di Monte Verde, usati a partire dalla prima metà del IV sec. a. C., ebbero particolare diffusione verso la fine del II sec. a. C. Ai tempi di Silla - al quale comunemente se ne attribuisce la introduzione e la diffusione in Roma - erano in realtà già confinati tra i materiali per l'edilizia minore. Esempi di loro applicazione sono il tempio della Concordia, il Tempio A dell'Area Argentina, le Scalae Caci al Palatino, la Tomba di Galba, il Tullianum, ecc. I tufi dell'Aniene furono introdotti più tardi (fine del II sec. a. C.) e, dopo aver avuto uno scarso uso per tutto il II sec., riuscirono a soppiantare definitivamente quelli di Monte Verde, nella prima metà del I sec. a. C. Nell'epoca augustea furono, anzi, i soli materiali tufacei usati in Roma. Esempî d'applicazione: Tomba degli Scipioni, Templi A e B dell'Area Argentina, Tabularium, tombe dei Claudi e di Bibulo, carcere sulla via Sacra, Foro Giulio, ecc.
Una decisa evoluzione fu segnata dall'impiego di due caratteristici prodotti del vulcanismo laziale (il lapis Albanus e il lapis Gabinus) e del travertino. Il lapis Albanus - il cui nome moderno è peperino, per il suo caratteristico color grigio-pepe - è un tufo di consistenza lapidea, diffuso nelle zone di Marino, Albano Laziale, Castelgandolfo ed Ariccia, costituito da una massa fondamentale granulare, comprendente frammenti lavici (talora scoriacei) e di calcari marmorei, ed altri inclusi, anche vistosi, di minerali varî, generalmente scuri (miche, pirosseni, ecc.). Questa roccia, d'aspetto e di durevolezza piuttosto mediocri, per le sue caratteristiche meccaniche e per la sua facile lavorabilità e scolpibilità, trovò largo impiego sia come pietra da taglio, sia per ornati ed altri elementi decorativi delle costruzioni. Anche se certamente impiegato prima, sembra che il peperino sia divenuto d'uso comune solo nel tardo II sec. a. C., continuando ad esserlo sino alla fine del I secolo. Meno usato, a partire dalla metà dell'amministrazione di Augusto, ebbe un secondo periodo di grande diffusione dopo l'incendio di Roma da parte di Nerone, per la sua notevole resistenza al fuoco. Fu certamente un materiale piuttosto costoso per la distanza dalla città delle cave (circa 25 km) e per l'impossibilità di un trasporto fluviale. Nell'architettura monumentale venne spesso associato al travertino.
I primi esempî di impiego si riferiscono al sarcofago di Scipione Barbato ed al Tullianum. Altre costruzioni in cui fu più o meno largamente usato, sono la Tomba degli Scipioni sulla via Appia e i templi della Magna Mater al Palatino, di Giano, di Giunone Sospita, della Speranza e di Marte Ultore.
Non bisogna confondere il peperino dei colli laziali con l'omonima roccia del viterbese, una lava trachitica con eccellenti proprietà costruttorie e decorative, che in Roma antica trovò una unica rilevante applicazione nel portico del Foro Olitorio.
Il lapis Gabinus si differenzia dal peperino soprattutto per le maggiori dimensioni dei suoi inclusi scoriacei, nerastri e verdastri. Le sue cave erano presso Gabi, a circa km 15 da Roma sulla via Prenestina. La possibilità di avviarlo a Roma con trasporto fluviale (su chiatte) dopo un carreggio di pochi chilometri, lo rendeva certamente meno costoso del lapis Albanus. Con tutto ciò e benché le sue proprietà tecniche non siano molto diverse da quelle del peperino, ebbe un più limitato impiego.
Tra le opere in cui fu usato, ricordiamo la Cloaca Massima, il Ponte Emilio, il Ponte Milvio, ecc. Introdotto a Roma nel II sec. a. C., ebbe il suo massimo impiego (spesso associato al travertino) nel I sec. a. C. In seguito continuò ad essere saltuariamente usato sino ai tempi di Antonino Pio.
Il travertino (lapis Tiburtinus), entrato in uso piuttosto tardi (alla fine del II sec. a. C.), assunse ben presto una posizione di particolare rilievo tra i materiali da costruzione di Roma antica. È questo un calcare bianco o giallino chiaro, spesso vacuolare, di deposito chimico e di età quaternaria, diffuso nella zona di Bagni di Tivoli. Di facile estrazione, ben lavorabile e di notevole resistenza sia meccanica, sia rispetto agli agenti esterni degradatori, costituisce un'ottima pietra da taglio, non priva di pregi ornamentali. Ebbe largo impiego nell'architettura monumentale (v. anche marmi antichi). Le sue cave, di cui tuttora si riconoscono le tracce, erano collegate a Roma mediante un'apposita rotabile.
Oltre ai tufi vulcanici e al travertino, a partire dal III sec. a. C., incominciarono a trovare impiego a Roma anche alcuni prodotti lavici, originati sia dal vulcano laziale che da quello Sabazio. Di tali rocce di gran lunga la più usata fu la leucitite (roccia a tessitura porfirica o, più di frequente, compatta, nella quale alla leucite si associano l'augite e, di preferenza, la melilite) della colata del vulcano laziale che maggiormente si avvicina a Roma: quella di Capo di Bove, sulla quale si sviluppa un tratto della via Appia Antica.
Questa lava, grigio-nerastra e compattissima, era denominata dai Romani lapis Tusculanus o lapis silex: di qui il nome volgare di selce che tuttora ad essa è localmente attribuito. Per la sua straordinaria durezza, essa mal si presta ad essere lavorata allo scalpello. Per l'esistenza di particolari piani di frattura ha però la tendenza a suddividersi secondo parallelepipedi. Questa proprietà, utilizzata anche attualmente, per la preparazione dei piccoli pezzi a forma di piramide tronca, detti sampietrini, era già nota ai Romani che se ne valsero largamente per la preparazione, con questa roccia, di pietre da pavimentazione stradale. Tra le vie urbane, lastricate con la lava di Capo di Bove, è la via Sacra; tra le vie consolari sono da ricordare l'Aurelia, l'Ostiense, l'Appia, ecc. A parte questo fondamentale impiego, questa roccia era adattissima per molti tipi di muratura; per il suo colore, poi, si prestava alla preparazione dei mosaici bianco-neri.
Dopo essersi serviti, per secoli, dei materiali da costruzione ed ornamentali offerti dal loro suolo, o tutt'al più dalle zone circostanti alla città, i Romani, presi ormai dal desiderio di rendere più fastosi i loro templi, i loro monumenti e le loro case, a partire dal II sec. a. C., cominciarono ad usare i marmi bianchi: in via principale il marmo apuano (marmor Lunensis), e in minor misura i marmi greci (Pentelico e Imetto).
Nel I sec. a. C., ebbe poi inizio l'uso dei marmi colorati (quasi tutti di importazione dalla Grecia, dall'Asia Minore e dal Nord-Africa), come i cipollini, il pavonazzetto, il giallo, il rosso ed il verde antichi, la breccia "africana", ecc. Quest'uso continuò e si sviluppò nell'epoca augustea ed in generale nei tempi imperiali (v. marmi antichi).
Oltre ai materiali lapidei da costruzione, sin qui considerati, l'architettura romana fece largo ricorso ai laterizi. Per la fabbricazione di questi si usarono soprattutto le argille (cretae) locali, e specialmente quelle plioceniche del versante settentrionale del Gianicolo e della parte meridionale del Vaticano. Qui ebbero sede le più importanti fornaci dell'epoca imperiale.
In Roma, le malte per il collegamento delle strutture murarie erano - di norma - confezionate con speciali tufi vulcanici incoerenti o semicoerenti, detti pozzolane. Queste traevano la loro denominazione da Pozzuoli dove furono da principio escavate ed utilizzate, ricavandone malte tenacissime e con marcate proprietà idrauliche.
Le pozzolane dei dintorni di Roma, usate largamente dagli antichi, che le chiamarono anche harenae fossiciae sono dei tufi leucitici grigi, grigio-rossastri, rossi e scuri, composti da granuli e minuti frammenti di pomice e scorie vulcaniche. Esse, che si rinvengono in estesi e potenti depositi, traggono il potere idraulizzante oltre che dalla loro composizione chimica, dal particolare stato fisico (natura pumicea) di larga parte dei granuli.
I Romani, a quanto sembra, dei numerosissimi giacimenti di pozzolana dei dintorni della città, utilizzarono soprattutto quelli esistenti fuori Porta S. Paolo.
e) I t a l i a r o m a n a. - Accenniamo ora ai materiali da costruzione usati in qualche altro centro dell'Italia romana.
Aosta, baluardo del sistema difensivo alpino, ha i suoi resti romani costruiti con i travertini e con i conglomerati puddingoidi a cemento calcareo, che di solito si rinvengono associati, dei vicini giacimenti di Bibbiana, di Clorou e di altre località della valle.
A Torino, come attestano le vestigia dell'antica cinta murale (Porta Palatina), pur avendo predominante impiego il materiale laterizio, già si ricorreva alle rocce della Val di Susa (soprattutto agli gneiss ed agli stessi marmi cristallini usati a Susa per la costruzione dell'arco imperiale).
Già erano stati riconosciuti gli eccezionali pregi costruttorî ed ornamentali dei calcari liassici chiari, compatti o semicristallini dei dintorni di Brescia (Botticino): tanto da farli prescegliere per le locali opere monumentali (tempio di Vespasiano, teatro, ecc.).
Ben più largo impiego avevano i calcari teneri, biancogiallastri (tufi) dell'Eocene ed i calcari mesozoici del Veronese (Valpantena, Chiusa d'Adige, Valpolicella). Questi ultimi, comprendenti i calcari lastriformi ed il compattissimo biancone del Cretaceo, ed i calcari bianchi, rosati e rossi ammonitiferi del Giura, estratti, in epoca romana, nelle cave della Valpantena, non solo servirono per molti monumenti veronesi (Arena, Porta Leona, Porta dei Borsari, Arco dei Gavi, ecc.), ma furono certamente anche esportati in altri centri della valle padana, fino a Ravenna. I calcari teneri trovarono, tra l'altro, uso - sempre a Verona - nelle antiche fortificazioni repubblicane e nel teatro.
Per la costruzione di Aquileia, i Romani si valsero della pietra di Aurisina, già Nabresina, presso Trieste (un calcare grigio, ricco di resti fossiliferi, ottimamente lavorabile ed assai durevole), che trasportavano via mare, servendosi del porto di Sistiana. L'importanza delle cave romane di Nabresina è testimoniata dal volume dei loro detriti che si calcola dell'ordine di un milione di metri cubi.
I Romani fecero anche largo uso della pietra d'Istria, e cioè dei calcari del Cretaceo compatti, bianchi, grigi o giallognoli, i cui giacimenti più importanti ricorrono lungo la costa istriana tra Parenzo e Pola. Essi conobbero certamente anche la pietra d'Orsera, che usarono a Parenzo e di cui quasi sicuramente avviarono l'esportazione verso il Veneto e i centri costieri della Romagna e delle Marche, e persino della Dalmazia. E svolsero una intensa attività anche nelle cave di Veruda, di Vincurale e di Port'Olmo, dalle quali provenivano i calcari usati nella costruzione dei monumenti di Pola, tra cui il notissimo anfiteatro.
Ancona romana ebbe come suo più comune materiale da costruzione un calcare tenero locale, usato, ad esempio, nel basamento dell'arco di Traiano.
Ad Ostia antica - dove in un primo tempo trovò impiego il tufo di Fidene, con cui risulta costruita la più antica cinta murale - fu diffusissimo l'uso del tufo litoide di Monte Verde (v. sopra, 6 d) che poteva considerarsi di provenienza quasi locale, dato il suo sviluppo, su entrambe le sponde del Tevere, a valle di Roma. Piuttosto comune fu, qui, anche il travertino.
Venendo, infine, ai più importanti centri romani della Campania, ricorderemo il fondamentale ruolo avuto nella costruzione di Ercolano, dai locali tufi litoidi. In questo centro, che aveva le strade lastricate di lava trachitica vesuviana e di calcare, ebbero però largo uso anche i laterizi.
Per Pompei (v.), i materiali più usati furono: un calcare tufaceo quaternario, scavato lungo il Sarno, facilmente lavorabile (impiegato sino al III sec. a. C.); le scorie vulcaniche e la crosta superficiale (detta cruma) delle lave locali, particolarmente adatte per la costruzione di muri leggeri e di vòlte; il tufo giallo e giallo-bruno, leggero, di facile lavorazione e scalpellatura, diffuso tra Sarno e Nocera.
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(A. Moretti)