Vedi MESOPOTAMICA, Arte dell'anno: 1961 - 1995
MESOPOTAMICA, Arte
Il termine Mesopotamia è greco (Μεσοποταμία) e indica la regione dell'Asia Anteriore compresa tra i fiumi Tigri ed Eufrate. In senso stretto la denominazione si applica alla parte superiore della pianura, fin circa all'altezza di Bagdad, mentre la parte inferiore (odierno Iraq) si identifica con l'antica Babilonia. Nell'area della Mesopotamia si sono svolte le civiltà dei Sumèri, dei Babilonesi e degli Assiri; in parte anche quella iranica (v. iranica, arte).
1. L'ambiente. - In questo territorio, che tocca a N-E e N-O le sponde del Mar Caspio e del Mar Nero e a S il Golfo Persico, dal preistorico ambiente di piccoli e sparsi villaggi emerse e si costituì, fra il 3500 e il 3000 a. C., una società urbana, contemporanea (ma forse con un certo anticipo) a quelle che nello stesso tempo si costituirono lungo il corso di altri grandi fiumi, elemento indispensabile per assicurare una sempre rinnovata fertilità alla terra lavorata da gruppi umani stanziali e non più nomadi: la civiltà del Nilo in Egitto e quella dell'Indo nella parte N-O del subcontinente indiano (v. asia, civiltà antiche; egiziana, arte; indiana, arte). Civiltà mesopotamica e civiltà egiziana ebbero precoci e continui contatti, e quindi anche reciproci influssi, anche se i rapporti tra loro furono prevalentemente di ostilità e di guerre. Si può affermare che la civiltà egiziana ricevette stimoli dall'esempio mesopotamico; ma costituzione e svolgimento dell'una e dell'altra furono assai diverse. Entrambe costituirono centri focali della civiltà umana dal 3000 al 500 a. C., quando la supremazia culturale passò decisamente alla Grecia (v. greca, arte). Alle civiltà artistiche delle altre regioni del Vicino Oriente (Anatolia, Siria, Palestina, Persia) mancò quella continuità di sviluppo derivante dalla stabilità per decine di secoli. Le loro civiltà presentano momenti salienti, che poi non ebbero conseguenze nel campo delle arti figurative, mentre, per esempio, la letteratura raggiunse vette altissime nei testi dell'Antico Testamento e meno elevate ma comunque notevoli in quelli trovati a Rās Shamrah. Può sembrare un luogo comune il fatto che lo studio dell'arte m. richieda la nozione del suo ambiente geografico e delle preoccupazioni politiche e religiose che la informano, ma la necessità di questa più vasta conoscenza diviene particolarmente sentita quando si comprende che nelle due civiltà più antiche e quasi contemporanee, cioè Mesopotamia ed Egitto, l'arte si sviluppò, sin dal suo inizio, secondo schemi divergenti. Sia dal punto di vista contenutistico che da quello formale, l'arte di queste regioni è profondamente diversa e questo fatto richiede una spiegazione in termini più chiari e precisi che non quelli di semplici idiosincrasie estetiche.
Per questa ragione non esiteremo ad usare come termine di paragone l'arte egiziana ogni qual volta essa possa chiarire il carattere dell'arte m. e farne risaltare il significato.
Per quanto riguarda l'ambiente geografico, la differenza con l'Egitto è troppo ovvia per richiedere un commento. La Mesopotamia era una vasta fertile pianura, mancante di difese naturali sia contro gli invasori dalle catene montuose del N e dell'E, sia contro i nomadi delle aride zone di Siria ed Arabia. I suoi fiumi spesso causavano disastrose inondazioni; la regione conobbe estremi di caldi e freddi in passaggi drammatici; piogge torrenziali e tempeste di tuoni, queste ultime del tutto sconosciute in Egitto.
Dal punto di vista politico il contrasto era altrettanto notevole: in Egitto la storia politica inizia con l'unificazione della regione in uno stato centralizzato sotto la guida di un sovrano assoluto di cui l'essenza e le funzioni divine divennero soggetto di speculazione teologica. La storia più antica della Mesopotamia, invece, cioè la storia del popolo sumerico, è tutta imperniata sulle città-stato indipendenti e sulle loro lotte egemoniche. Queste città in principio avevano una forma di governo democratico piuttosto semplice: il potere risiedeva in un'assemblea di anziani che poteva, richiedendolo le circostanze, eleggere un re come guida temporanea. Il mandato regio era perciò, generalmente parlando, un espediente militare o politico, ed in nessun modo un sacro dogma. La religione mesopotamica riflette in molti modi i violenti sbalzi climatici e politici ai quali erano soggetti gli sforzi umani. L'effimero, negli affari umani, era accettato come sicuro e la speculazione sull'al di là era in gran parte nulla. L'ordine trascendente nel moto dei corpi celesti e nel ritmo delle stagioni era attribuito a divinità cosmiche concepite in termini di volontà, passioni e poteri immensi. Nei testi più antichi questi dèi conferiscono e prendono drammatiche decisioni. Poiché tuttavia la loro saggezza rimane imperscrutabile ai mortali, l'uomo è costantemente preoccupato per la volontà divina, per il fato (concetto sconosciuto in Egitto). Nella sua personale e comune relazione con la divinità v'era un senso di assoluta dipendenza, ma anche di vicinanza, di intimità, che ondeggiava tra amore e timore.
È alla luce di tali differenze che l'assenza in Mesopotamia delle più familiari caratteristiche dell'arte funeraria egiziana, e precisamente la descrizione della vita quotidiana e dell'individualità degli uomini attraverso il ritratto, diviene significativa.
Con rare eccezioni, l'arte della Mesopotamia, fino ai tempi assiri fu, se non decorativa, religiosa nelle intenzioni e molto impegnata nel rituale e simbolico. Ciò non significa che quest'arte sia inespressiva o formalistica; al contrario, la sua altezza e la sua varietà sorprendono, benché lo sviluppo ne sia incoerente ed il livello generale di realizzazione sia basso. Qui due fattori devono essere presi in considerazione: in primo luogo la popolazione della Mesopotamia a partire dal terzo millennio consisteva di due distinti ceppi etnici, Sumeri e Semiti, e fin dai tempi più antichi questi gruppi dovettero ripetutamente assorbire invasori dalle regioni montagnose di N-E. Questa può essere una delle cause per gli improvvisi cambiamenti e per le inconsistenze di stile. In secondo luogo la pietra era molto rara nella pianura alluvionale, in modo che agli scultori mancavano l'esperienza e la tradizione. artigianale che in Egitto sostenevano artisti anche mediocri. In Mesopotamia, eccetto l'opera d'arte completa, ogni creazione è incredibilmente scadente. Il metallo, invece fu usato con grande abilità e molto prima che in Egitto.
2. Gli stanziamenti più antichi. - La Mesopotamia del N con il suo suolo alluvionale, è la prima regione che ci si documenti come abitata, forse da immigranti della Persia nord-occidentale. La loro ceramica finemente dipinta trovata a Samarra, Ninive e Tell Ḥassūnah, ha in comune con quella degli strati pressappoco contemporanei di Susa (Persia sud-occidentale) l'abile trasformazione di motivi animali in moduli decorativi. La parte meridionale del paese appare abitata più tardi, non tanto per una sua più recente formazione, quanto piuttosto per il bradisismo, rilevato soltanto in questi ultimi anni, che ha fatto scomparire sotto il Golfo Persico le terre più antiche. Negli strati più antichi attingibili dall'esplorazione archeologica sono documentati gruppi etnici forse discesi dagli altipiani della Persia di S-O. La loro ceramica (v. anche asia, civiltà antiche; ceramica), singolarmente uniforme, di povero disegno geometrico, scoperta in un primo tempo solo ad el-'Ubaid, è stata ora rinvenuta per tutto il paese e suggerisce una cultura di villaggio piuttosto stagnante. Verso la fine del periodo di el-῾Ubaid, tuttavia, un nuovo sviluppo annuncia cambiamenti di un certo peso: templi notevolmente grandi, a forma di cella con muri rinforzati da contrafforti, sono stati trovati ad Abu Shahrein (antica Eridu: v.) nel S ed a Tepe Gaura nel N. Ciò e già indice di abitati alquanto popolari ed indica una fisionomia che avrebbe dovuto durare per millennî.
Va tenuto presente che la Mesopotamia non solo mancava di pietre, ma anche di legname; il suo principale materiale da costruzione, astraendo dalle alte canne che avrebbero potuto essere riunite ed intrecciate, era l'onnipresente fango con il quale erano fatti i mattoni cotti al sole. Questo materiale piuttosto atono poteva essere avvivato o mediante applicazione di colori (v. più avanti) o da contrafforti e rientranze: se queste avevano originariamente uno scopo puramente pratico, le loro possibilità estetiche furono subito intuite, perché articolavano con un ritmico gioco di ombre e luci una monotona superficie muraria, Infatti nell'architettura religiosa l'edificio mosso da contrafforti fu in vigore dal periodo di el-῾Ubaid fino ai tempi ellenistici, divenendone uno degli elementi distintivi.
3. Periodo predinastico. - Fu con il sorgere delle città-stato meridionali, durante quello che oggi viene chiamato il periodo predinastico (o proto-letterario o di Uruk e di Gemdet Nasr secondo altre terminologie) che avvenne il fenomenale incremento nella creatività che, qui come altrove, segna la nascita di una distinta civiltà; fu inventata la scrittura, pittografica all'origine; l'arte figurativa si sviluppò nella scultura, nel rilievo, nella glittica, mentre i templi vennero costruiti su scala monumentale.
Tra questi il più impressionante è il cosiddetto Tempio Bianco, scoperto a Warka (l'antica Uruk). Esso ha ancora la forma di una cella, con una nicchia per l'emblema o la statua del dio ed una tavola d'offerte; i suoi contrafforti e nicchie sono uniformemente spazieggiati e l'esterno dell'edificio era interamente ricoperto di vernice bianca. Sua più notevole particolarità tuttavia è la sua posizione, perché mentre gli altri templi di Eridu ed el-῾Uqair, pressappoco ad esso contemporanei, furono eretti su un rialzo di terreno, il Tempio Bianco fu alzato una quindicina di metri sopra il piano su una potente piattaforma artificiale di forma irregolare e vi si poteva accedere tramite una lunga gradinata.
Testi più tardi confermano che per i Sumèri, che abitavano un paesaggio piatto e monotono, i luoghi rialzati avevano un valore sacro: questa prima ziqqurat o torre templare, sollevava in contrasto drammatico la dimora del dio sopra gli eventi umani. È un concetto profondamente toccante, specialmente considerando lo stupendo sforzo comune che deve essere costato. Nel lento avvicinarsi al baluginante Tempio Bianco che custodiva l'epifania del dio, possiamo riconoscere uno sforzo per sottolineare e colmare la distanza fra l'uomo ed il dio, una intenzione devota che - più di mille anni più tardi - doveva essere espressa nella stessa forma architettonica e che sopravviveva nei tempi assiri. Possiamo aggiungere che questo dinamismo inerente al concetto di ziqqurat contrasta fondamentalmente con la statica perfezione delle chiuse tombe piramidali egiziane.
È incerto se a Uruk vi fosse un tempio pure alla base della ziqqurat, come si avrà negli esempî più tardi. Il tempio contemporaneo a el-῾Uqair ha un dettaglio che rimane importante: la piattaforma, alta circa 4 m, sulla quale era costruito l'alzato del tempio, era divisa in due gradini: questa soglia articolata riappare nelle ziqqurat più tarde; gli autori classici menzionano sette piani, dipinti in colori differenti, nel caso di Babilonia.
È generalmente accettato dagli studiosi che il Tempio Bianco fosse dedicato al dio del cielo Anu. Un altro notevole tempio a Warka (chiamato é-anna "casa del cielo"), situato vicino, nella pianura, era consacrato a manna, la madre degli dèi. Questo tempio mostra singolarità architettoniche del tutto diverse, quali semicolonne appoggiate al muro e colonne libere, queste ultime del diametro di 3 m, raramente in uso anche nei tempi più tardi. Il tempio aveva inoltre una originalissima forma di decorazione parietale. Innumerevoli piccoli coni di argilla cotta, con la estremità allargata intinta di vernice rossa, nera o bruna erano inseriti in uno spesso strato di intonaco di fango per formare uno strato protettivo ornato con disegni. Questa tecnica elaborata, benché imitata in altri luoghi, fu tuttavia ben presto abbandonata. Astraendo da tracce di pitture murali scoperte a el-῾Uqair, si dovrebbe menzionare a questo punto un altro tentativo per vivificare la superficie muraria dei templi e precisamente l'applicazione di rosette ed animali erbivori, simboleggianti la benedizione divina delle piante e degli animali; questi sono generalmente in terracotta; ma si usano pure fregi di montoni intagliati in pietra e attaccati al muro per mezzo di fili di rame.
Se ci volgiamo all'arte figurativa del periodo, notiamo, in contrasto con l'Egitto a un comparabile stadio di sviluppo, che il suo principale tema figurativo non erano le imprese guerriere dei grandi re, ma i soggetti religiosi, e che gli dèi erano rappresentati o simbolicamente o in forma umana.
La scena rituale più impressionante che noi possediamo si trova su un sottile vaso d'alabastro trovato a Warka: questo può ricordare, benché non lo raffiguri di fatto, un importante evento religioso: le nozze sacre della dea madre, fonte della vita, che era ritualmente raffigurata per assicurare la fertilità.
Le scene, disposte su strisce orizzontali, si adattano perfettamente alla forma del vaso e, se lette dalla base verso l'orlo, rivelano una tensione meravigliosa. Le linee ondulate suggeriscono le acque della fertilità; una fila alternata di spighe di orzo e di palme stilizzate, e sopra questa una di pecore e montoni, conducono, attraverso l'intera fila delle benedizioni della natura, ad una processione di sacerdoti che portano offerte in nudità rituale secondo la regola degli antichi Sumèri. Sul registro più alto la figura piuttosto grossolana della madre degli dèi si identifica per mezzo di due fasci di canne, legati ed intrecciati, che sono il prototipo pittografico dell'ideogramma con il quale il suo nome fu scritto in tempi più tardi. Essa è più alta del sacerdote che le offre un cesto di frutta. Dietro la dea è la figura di un montone che sostiene un edificio a due piani su cui sono un uomo ed una donna: il senso di questa rappresentazione pittorica è oscuro. Dietro il montone è una sequela di offerte votive per lo più a coppie. Il raffronto tra sacerdote e dea ha una vivezza stupefacente, le figure sono intensamente vive e notevolmente umane, mancano della eleganza calligrafica e della astrazione formale di figure simili su scene rituali egiziane. È anche interessante confrontare i piccoli uomini muscolosi del secondo registro appena curvi sopra i grossi recipienti, con il tradizionale motivo dei portatori di tributo egiziani, che appaiono del tutto indifferenti al peso che portano. Questi mancano della coerenza organica, dell'intensità drammatica dei sacerdoti sumerici curvi al loro lavoro. L'artista mostra un meraviglioso disinteresse per il problema della riduzione della figura umana a un piano bidimensionale. Benché in alcuni casi la regione delle spalle sia realizzata con una goffa torsione, la maggior parte delle figure appare di pieno profilo ed ha una vigorosa corporeità.
Nessuno stretto canone per la linea di contorno del corpo umano si evolse mai in Mesopotamia come in Egitto.
A questo punto dovremmo menzionare due altri rilievi di questo periodo. Uno, benché in gesso alabastrino, mostra un disegno estremamente decorativo; da un piccolo stabbio formato di canne intrecciate esce, da entrambi i lati, un agnellino presso cui sono disposti un montone e una pecora.
Il fascio di canne intrecciate all'ingresso della stalla indica ancora la dea madre e la scena, se così la possiamo definire, simbolizza le benedizioni della fertilità.
Strettamente diversa in stile e contenuto è una scena apparentemente quotidiana, ricavata su un grezzo masso di granito: due figure umane (o una stessa figura rappresentata in due momenti diversi) in atto di attaccare leoni, rispettivamente con una spada e con arco e frecce. I lunghi abiti e le pettinature che le distinguono richiamano quelli dire e condottieri su monumenti più tardi. Infatti un sigillo protodinastico riporta una scena simile posta sopra una scena di battaglia, singolo esempio di una rappresentazione di vita reale. Scene di caccia non ritornano nell'arte m. per due millenni e mezzo; la lotta, frequentemente raffigurata, tra forze umane ed animali ha un significato mitologico e religioso. Una scena di caccia, se di questo si tratta, scolpita in pietra, su tale scala ed in questo periodo, sarebbe molto notevole.
Nessuna statua di culto di questo periodo è stata trovata in situ, ma è per lo meno probabile che la maschera femminile, di scala pressoché umana, in gesso alabastrino, pure questa trovata a Uruk, raffiguri la dea manna. Bisogna immaginare l'effetto delle sopracciglia in lapislazzuli e le pupille realizzate con conchiglie, come possiamo dedurre da esemplari più tardi; e possiamo immaginare pure il rivestimento aureo finemente inciso che una volta senza dubbio doveva coprire le piatte onde dei capelli; il modellato a piani larghi è delicato ed ha grande dignità. La bocca è gentilmente espressa.
Finalmente non mancano ragioni per supporre che un mostro leonino in calcare della Collezione Guennol nel Brooklyn Museum rappresenti la dea madre sotto un aspetto terrificante. La provenienza della figura è sconosciuta: essa può benissimo avere affinità elamite (v. sotto), ma la sua datazione è assicurata su piano tecnico e la identificazione può difficilmente essere messa in dubbio perché essa ha il simbolo della dea tracciato su una delle spalle. Inoltre la connessione tra dea e leone persisté attraverso le epoche. Questo sembra puntare a una traccia di ambivalenza nella dea madre fonte di vita e, nello stesso tempo, pure distruttrice, poiché tutte le creature sono preda della morte. La tortile posizione della ibrida leonessa - estremamente rara nell'arte antica in cui è di regola la più rigida frontalità - ha una ferocia appassionata e la figura è organicamente convincente; come disse uno studioso "visto come corpo antropomorfico il corpo appare bestiale, ma se si osserva sotto l'aspetto di leonessa essa ha un'orrenda aria di deforme umanità".
Dato che forme mostruose hanno un ruolo preponderante nell'arte m., a questo punto si dovrebbero considerare le loro origini e funzioni.
Ancora l'Egitto ci offre un parallelo significativo perché ivi, come ben sappiamo, una testa animale unita ad un corpo umano, era un semplice pittogramma che richiama a una connessione dei dio con una bestia particolare. In Mesopotamia, d'altro lato, gli animali erano compresi emozionalmente come creature sacre o con significato simbolico in termini religiosi.
Se si doveva esprimere figurativamente una idea religiosa piuttosto complessa o i diversi aspetti di un dio particolare, potevano essere combinate insieme varie forme animali simbolizzanti questa varietà. Il risultato in ogni modo non era un concetto pittografico; emozioni religiose di paura e timoroso rispetto saldavano gli incongrui significati verso una nuova entità, una mostruosa presenza.
Né si dovrebbe trascurare un altro aspetto di forma mostruosa. I mostri, anche più che gli animali, hanno tentato gli artisti in tutti i periodi per le loro possibilità decorative e già nel periodo protodinastico, alcuni di essi sono stati usati a questo proposito: il leone a testa di serpente che combina i due aspetti della fertilità, e precisamente la dea madre ed i serpenti attorcigliati - il più tardo caduceo - che simbolizzano il dio della fertilità.
In questo caso la figurazione compare su un sigillo cilindrico e fu proprio nell'arte degli incisori, alla quale ora ci volgiamo, che i mostri ebbero un ruolo molto importante. L'origine del sigillo cilindrico è sconosciuta ma l'idea può benissimo essere derivata da un grano cilindrico inciso che rotola su argilla molle e produce una striscia modellata.
In Mesopotamia la tavoletta d'argilla era l'unico materiale da scrivere reperibile e, poiché i più antichi documenti scritti consistevano in conti e contratti, la loro validità era aumentata se questi portavano il sigillo delle parti in causa. Un cilindro inciso, fatto rotolare sopra la superficie della tavoletta d'argilla fresca, produceva un disegno a nastro di indefinita lunghezza e poiché la raison d'être dei sigilli è di essere diversi l'uno dall'altro, ciò offriva un'illimitata possibilità per l'invenzione dei disegni.
In questo caso la stretta correlazione tra superficie e disegno che ogni arte decorativa richiede, comportava una peculiare difficoltà: l'incisione di una superficie cilindrica minuscola. Bisogna ammirare l'abilità con la quale a volte sono create scene cosi coerenti come quella di un sigillo da Tell Billa, in cui a un tempio che, strettamente parlando, dovrebbe formare il centro della scena, si avvicinano da un lato una barca e dall'altro dei sacerdoti che portano una collana ed una cintura come offerte. Questo cilindro mostra lo svantaggio di un disegno scenico; a meno che la superficie da sigillare non abbia uno spazio ampio per una raffigurazione continua, la scena può essere frammentata ed il suo significato può diventare oscuro. Per queste ragione troviamo più spesso l'uso di figure singole o intrecciate che potrebbero essere ripetute senza fine. Un motivo prediletto, a parte i gruppi antitetici, fu quello dei due animali con i corpi affrontati e le teste volte all'indietro, e perciò suggerenti un movimento bilaterale, che univa i gruppi separati. È chiaro come i mostri fossero molto idonei a raggruppamenti non realistici: nel caso dei leoni a testa di serpente le code sono incrociate per formare un disegno riempitivo ed il risultato è un disegno a strisce del tutto soddisfacente. Resta come caratteristica di questo periodo il fatto che tutte le figure sono chiaramente definite ed hanno una articolazione plastica.
Verso la fine del periodo predinastico troviamo il motivo animale usato in una nuova forma decorativa; tori e leoni appaiono su vasi di pietra in rilievo piuttosto rozzo. La testa è resa in pieno prospetto e quasi ottenuta a tutto tondo, con lo strano risultato che lo sguardo fissa lo spettatore. Ciò dà loro una qualità inusualmente impulsiva che differisce molto dagli animali placidi e sereni dei rilievi della glittica precedente. Inoltre comincia a predominare il tema del combattimento tra le fiere: i leoni attaccano tori; su alcuni vasi da Tell Agrab, eseguiti in una rozza specie di filigrana di pietra, con lo sfondo abolito, appare un motivo mitologico che avrebbe occupato la immaginazione artistica per secoli: un uomo dalla forza demoniaca, nudo, ad eccezione di una cintura (il cosiddetto Gilgamesh: v.), sottomette bestie feroci. Queste figure, una delle quali porta un tipo di calzari tipico dei popoli della montagna, sembrano esprimere un mondo differente di esperienza religiosa e può essere significativo che almeno su un sigillo protòdinastico dall'Elam noi troviamo una leonessa che sottomette due tori ed un toro due leoni in una maniera molto fiera, malgrado il loro aggruppamento antitetico di carattere decorativo. Spiritualmente questo sigillo è anche vicino al plastico mostro che abbiamo menzionato prima. La possibilità che un influsso di popoli dalle regioni montagnose del N-E avesse un suo peso nel cambiamento di stile e nel contenuto dell'arte predinastica tarda non può essere scartato, ma l'idea di un profondo conflitto fra forze opposte, non solo durò a lungo nella glittica ma raggiunse anche una grande profondità metafisica nella tarda letteratura mesopotamica.
4. Periodo protodinastico (sumerico). - L'arte del periodo protodinastico non mostra una completa rottura con il passato ma si arricchisce di un fresco impulso facente parte di nuovi sviluppi politici ed economici; sotto questo aspetto molto ci dicono i resti architettonici. La cella piuttosto semplice aperta su tutti i lati fu sostituita da un complesso sacro molto elaborato che formava il centro di ogni città. Occorre rilevare che in questa vasta regione amorfa solamente la città-stato fu riconosciuta in principio valida entità politica e che in ognuna di queste la necessità della protezione divina contro le calamità naturali e le contingenze della guerra era molto sentita. Gli dèi che si manifestavano nella natura o nella sfera celeste, erano adorati in tutta la regione, ma solo uno, e talvolta più di uno, era in peculiare relazione di mutua dipendenza con una sola città: in essa il popolo si era dedicato al suo servizio, e la divinità agiva come suo avvocato nel concilio degli dèi. Il concetto della signoria del dio sulla città aveva il suo correlativo in una organizzazione economica che può essere meglio descritta come forma di socialismo teocratico. Tutti i cittadini, nobili e popolani, lavoravano al servizio del dio, coltivando e lavorando i campi, e mantenendo le dighe ed i canali richiesti per l'irrigazione.
Il grano da semina, gli animali da tiro, gli strumenti per l'agricoltura erano forniti dal tempio, dove gli artigiani avevano le loro officine. Il raccolto dei campi e degli orti era immagazzinato e distribuito alla comunità sotto forma di razioni. È vero che questo sistema non fu rigorosamente mantenuto a lungo; infatti esso era già in declino verso la fine del primo periodo dinastico quando alcuni condottieri autoproclamatisi servitori del dio, si erano nominati governatori della città. Ma la base religiosa di questa notevole "società pianificata" è riflessa chiaramente nella sistemazione dei templi con i loro magazzini, le stanze da lavoro per gli scalpellini ed i fabbri, i lavoratori del metallo, i forni per il pane e gli uffici amministrativi. Nel tempio ovale di Khafāgiah (v.), ricostruito con cura, solo il tempio sulla piattaforma e l'altare sacrificale ai suoi piedi avevano una funzione religiosa in senso stretto. Non tutti i complessi templari di questo periodo, compresi entro la zona da Mari nel N ed el-῾Ubaid nel S, erano di forma ovale: la maggior parte erano rettangolari, ma è significativo che non fosse costruita alcuna ziqqurat; il tempio era divenuto il centro economico e religioso della città.
È inevitabile che con la crescita di una città un vecchio tempio dovesse essere ampliato. In tal caso si aveva una gran cura di costruire i nuovi recinti sacri su suolo ritualmente purificato. Ogni traccia di occupazione precedente era rimossa ed il luogo scavato era riempito con sabbia. Dentro il tempio la statua del dio era posta di fronte ad una nicchia, in fondo ad una lunga cella stretta: una piattaforma di mattoni, di fronte alla nicchia, serviva da altare; erano usati alti sostegni di terracotta in cui potessero essere posti rami, fiori e frutta; figure in pietra e bronzo sostenevano piccole tazze e vasi contenenti unguenti ed incenso; sono stati pure trovati dei sostegni per fiaccole. Passando ai resti della scultura e della glittica del periodo, dovremmo notare che i più antichi sigilli cilindrici ed alcuni vasi di pietra differiscono alquanto, stilisticamente, dagli esempi predinastici e protodinastici. La chiarezza plastica dei primi è perduta ed al suo posto troviamo un denso intrecciarsi di linee decorative in cui l'animale ed i motivi di riempimento sono così strettamente intessuti che uno studioso ha giustamente coniato il termine "stile di broccato" per questo tipo di sigillo.
Alcuni vasi di pietra in rilievo, datati alla fase più antica del periodo, mostrano lo stesso horror vacui, ma qui la mescolanza di scene in cui uomini ed animali spesso appaiono in barbarica confusione, è così diverso dal chiaro ed ordinato susseguirsi di figure su lastre di pietra poco più tarde, da far sospettare una influenza straniera. È certamente interessante che su un vaso appaiono tori gibbosi della razza dello zebù indiano, che non era indigeno della Mesopotamia.
Dovremo prima interessarci della scultura protodinastica a tutto tondo. Una rara scoperta a Tell Asmar, un deposito di statuette, interrate devotamente quando un piccolo tempio fu ampliato, ce ne ha restituito gli esempî più antichi. Qui in uno stretto e, probabilmente, piuttosto buio santuario, il dio Abu, identificato dal suo emblema alla base di una statua, ed una dea, presumibilmente sua sposa, dovevano essere sistemati di fronte a una numerosissima e confusa raccolta di statue votive che erano originariamente poste, ciascuna su una base di mattone, intorno ai muri interni.
Bisogna fare uno sforzo di immaginazione per comprendere la portata concettuale della scena. Perché qui l'uomo, in atteggiamento di adorazione, si esponeva alla presenza del dio che, con i suoi immensi occhi che tutto vedono, doveva incutere rispettoso timore. Le tese figure umane, alcune delle quali sono dal punto di vista della realizzazione di una goffaggine quasi patetica, mostrano una notevole, voluta stilizzazione che conferisce loro grande dignità. Tutti, ad eccezione delle due figure femminili, hanno una lunga sottana che si alza a forma di cono su anche goffe, un torso angoloso ed ampie spalle. L'enfasi maggiore è tuttavia riposta sulle spalle che sono scolpite sciolte dal corpo, con gomiti duramente appuntiti e mani alzate, giunte. Questo movimento verso l'alto delle mani, che riassume il raccoglimento spirituale della preghiera, è ripetuto plasticamente nella gonna conica, la cui circolarità aumenta l'impressione di estrema concentrazione.
La evidente differenza fra statuaria egiziana e mesopotamica è qui particolarmente significativa. Il "cubismo" dell'una, la preferenza per le forme rotonde nell'altra possono ben riflettere caratteristiche dominanti nel paesaggio come si è spesso detto, ma il contrasto è più profondo. Le statue funebri egiziane sono immagini del morto vivente. Al di là della loro rigidità geometrica, c'è un tentativo di trascendere l'effimero che è incompatibile con il gestire.
Una statuetta votiva sumerica, d'altronde, posta in un tempio raffigurava l'uomo in rapporto emotivo con la divina presenza; qui un gesto devoto, formalmente sostenuto, esprimeva la sua propria essenza. È stato notato che mentre la maggior parte delle figure del gruppo di Tell Asmar sono leggermente curve, solo i sacerdoti sollevano la testa completamente rasata in atteggiamento di timore.
È anche curioso che le due figure femminili, avvolte in un mantello inarticolato che manca di qualsiasi vitalità plastica, non dimostrino un'aria ispirata. Il modellato della figura più grande, che può aver rappresentato un tipo di dea madre a causa dei resti di una figura molto piccola posta alla base della statua, è di singolare goffaggine. Ed i grandi occhi non essendo integrati con il viso, falliscono nel tentativo di renderlo impressionante. Ciò è in completo contrasto con il dio perché in esso la decisa curva delle sopracciglia, le forti guance ed il bel naso sottolineano l'effetto degli occhi larghi oltre il normale.
Il dio Abu (se veramente di lui si tratta e non di un semplice orante come altri ritiene) rappresenta l'unica statua sumerica di culto che sia stata scoperta; le grandi statue di rame erano formate da piccoli elementi uniti insieme su un'anima di legno o bitume: questo spiega perché nessuna di esse ci sia pervenuta. Queste statue mostrano, a parte una aumentata tendenza verso forme rotonde, un notevole interesse a sperimentare posizioni, espressioni del viso, pettinature femminili. La mancanza di disciplina stilistica - così forte in Egitto - spesso sfociò in orrori estetici, più raramente in originali opere, altamente individuali che abbiano un forte contenuto umano. Come esempi possiamo citare la donna seduta con le gambe incrociate da Mari (v.), ma in alcune delle figure femminili stanti da Khafāgiah con le mani unite e la testa leggermente rialzata, lunghi indumenti che avvolgono la figura raggiungono un valore plastico che non ancora possedevano le statue di Tell Asmar. In una di queste, stante, forma, gesto ed espressione del viso suggeriscono la concentrazione di una profonda pietà. Non possiamo essere certi se si mirasse seriamente alla ritrattistica ma sembra più probabile che alcuni artisti indulgessero in esperimenti. Se è così, certamente essi raggiunsero contrasti potenti: il viso di una testa da Tell Agrab con la sua austera cornice di capelli ha una grande nobiltà, quella di un'altra, del medesimo luogo, con la pettinatura così vistosa e strana, sembra - almeno a noi - volgare.
Dove si tratta di figure maschili, la tendenza verso la circolarità nei torsi, abiti ed anche sgabelli, spesso le fa apparire pesanti, anche quando dettagli realistici come le clavicole, i capezzoli o i ciuffi di abiti di lana sono indicati, per vivificare la superficie. I migliori esempi sono quelli che raggiungono una bella armonia di volume, cioè la statua di Ebikh-il da Mari ma, in generale, prevale un'aria di libera compiacenza invece della rigidità timorosa delle figure arcaiche di Tell Asmar.
Il porre statue votive nel tempio era divenuto una moda il cui siguificato religioso era molto scarso; esse divennero sempre più usuali e, per quanto riguarda i privati cittadini, l'abitudine cessò con quel periodo.
Fu specialmente nell'ambito della plastica ritrattistica animale che la fase più tarda dell'arte protodinastica, produsse alcuni rari capolavori. Infatti in nessun altro periodo fu dimostrato cosi chiaramente che per i Sumèri la perfezione animale e la saggezza dell'animale, incorporavano ed insieme rivelavano il divino.
Una piccola scultura in serpentino da Khafāgiah, raffigura una mucca (probabilmente simbolo della dea della nascita Nintu) con una falsa barba legata intorno al muso per indicare la sua divinità. La piccola testa rotonda è volta verso il centro del corpo recumbente con le sue zampe piegate ma elastiche. Tutta la figura ha una vitalità concentrata che suggerisce una potenza molto superiore a quella meramente animale. Alla stessa maniera la testa di toro, in oro e lapislazzuli, pure questa con falsa barba, che era fissata alla cassa di risonanza di un'arpa trovata ad Ur, è enfaticamente una non fatua decorazione. Potentemente viva, anche essa è una insistente "presenza" divina. Il piccolo onagro dorato d'altro canto, che sovrasta un passaredini, anche da Ur, ed è un raro esempio nell'arte più antica di una figurazione plastica di animale in movimento, ha caratteristiche niente affatto divine bensì naturali. La sua andatura piuttosto goffa e gli orecchi ondeggianti sono osservati con cura.
Al contrario il famoso caprone rampante con le zampe anteriori poste su un albero stilizzato è una creatura che ha del divino. Tecnicamente è un capolavoro, i piedi delicati sono in oro, come la testa finemente modellata con le corna di lapislazzuli incisi, uniti insieme con bitume sopra un'anima dileguo. Noi sappiamo che il caprone era sacro al dio Tammuz ma qui l'impressione che ne riceviamo non è quella di un simbolo o di un attributo, ma di un'apparizione divina. La raffigurazione di animali in rame giunse, in questo periodo, a risultati di grande interesse. Gli esempi più notevoli sono stati trovati ad el-῾Ubaid, quali i leoni ornamentali che custodiscono il tempio di Ninkhursag (la Signora della Montagna), che hanno la lingua di diaspro rosso ed occhi ad intarsio. Numerosi tori o lupi di rame, trovati fuori del tempio, possono aver formato dei fregi di animali erbivori in pietra, sulle mura del tempio, come si usava nel periodo protodinastico. A el-῾Ubaid i corpi di profilo sono di fogli di metallo uniti su un anima di bitume, mentre le teste in pieno prospetto sono state fuse separatamente.
Un grande pannello rappresenta l'aquila Imdugud con la testa di leone che afferra con un artiglio un cerbiatto. Questa è una sistemazione decorativa, quasi araldica nei suoi risultati, non una scena che rappresenti forze opposte. Imdugud che riuniva l'aspetto della più antica e terrificante delle creature selvagge, può apparire come simbolo o attributo di alcuni dèi della fertilità, ad esempio sulla base della statua del dio Abu, ed è a volte raffigurato mentre afferra altri animali, mai nell'atto di attaccarli.
È stato suggerito che la mostruosa forma di Imdugud significa la minaccia delle nere nuvole tempestose ed il brontolio del tuono. Tali spiegazioni plausibili in termini di fenomeni naturali sono raramente illuminanti dove si tratti di genuine entità mostruose, ma in questo caso c'è almeno un parallelo fra Imdugud, il congiunto del dio della fertilità, che ispira terrore ed una violenta tempesta mesopotamica: la minaccia di questa mantiene però la promessa di una fertile pioggia. Le figure animali da Ur ed el-῾Ubaid appartengono alla seconda metà del periodo protodinastico.
Se trattiamo ora il rilievo e la glittica, dobbiamo volgerci indietro a qualcuno dei suoi più antichi e primitivi monumenti. Questi sono di particolare interesse perché con loro ci muoviamo nell'ambito della storia vera e propria: si intravvedono nomi di persone e si identificano eventi. È significativo che i primi re di cui si conoscono i nomi appaiano su modeste lastre di pietra poveramente scolpite e che, come in Egitto, non siano ritratti in abiti da guerra ma in aspetto devoto, mentre fanno offerte agli dèi o elevano un tempio. Di fatto le lastre che commemorano tali atti rientrano più nella natura di un voto al dio che di un monumento che esalti la propria personalità. Possediamo il ricordo di un evento storico nelle scene di battaglia sulla stele del re Eannatum. Questa stele non fu eretta per commemorare solo la vittoria sopra la città di Umma: era pure una pietra di confine con l'iscrizione della posizione contrattuale tra vinto e vincitore. Ed il re non era raffigurato come vincitore vero e proprio. Noi lo vediamo sul retro della stele alla testa di una solida falange di soldati protetta da un muro di scudi, e su un registro più basso in piedi sul carro, mentre squassa la lancia e guida la fanteria in battaglia. Il retro indica chiaramente, in un linguaggio simbolico, l'artefice della vittoria: vediamo il dio Ningirsu che tiene la rete nella quale ha preso il nemico.
Benché piccoli frammenti di ciò che sembra essere scena di battaglia, siano stati trovati altrove, la stele di Eannatum è rimasta un fenomeno isolato. Tuttavia lastre di pietra continuarono ad essere usate. Queste erano quadrate con un buco nel mezzo, presumibilmente per fissarle al muro del tempio.
Tutte queste rappresentano un solenne banchetto o una celebrazione nel registro superiore e spesso mostrano scene di guerra, come carri e prigionieri. Possiamo dunque concludere che questi erano oggetti votivi dedicati al dio che aveva concesso la vittoria. Poiché questi non avevano un carattere puramente decorativo né erano rappresentazioni puramente religiose sembra che non abbiano ispirato molto gli artisti: le file di piccoli uomini e donne in festa sono in genere piuttosto atone.
In alcuni esempî, intagli di conchiglie e lapislazzuli, uniti su un' anima di bitume, erano usati invece del rilievo di pietra per tali scene e le figure isolate trovate a Mari sono intagliate molto delicatamente e straordinariamente vivide. Quelle del ben noto "stendardo" trovato ad Ur sono decisamente inferiori, ma qui tutte le scene sono state conservate ed hanno una bellezza piuttosto ingenua.
La funzione cui era destinato lo stendardo, con la sua strana forma a pannelli ed i lati trapezoidali, è sconosciuta, ma poiché le scene rappresentano rispettivamente una vittoria ed una festosa celebrazione, doveva essere senza dubbio un oggeno votivo, posto nel tempio. Nelle scene di guerra, il re, che appare di statura leggermente più alta dei suoi soldati, è visto mentre ispeziona prigionieri nudi e feriti.
Soldati in azione e carri da guerra con onagri che caricano nemici caduti completano la raffigurazione di guerra che manca delle qualità drammatiche della stele di Eannatum. La scena di festa sull'altro pannello è più elaborata di quelle su lastre di pietra, ma la disposizione è la stessa. Qui, tuttavia, le donne non hanno alcuna parte. Intagli di conchiglie furono in grande uso per la decorazione del mobilio ed uno dei più belli è stato trovato sulla cassa di risonanza di un'arpa da Ur. Le scene sono del tutto enigmatiche; vediamo animali che rappresentano qualche offerta rituale e fanno della musica, vediamo anche un uomo-scorpione, conosciuto da miti più tardi, in atteggiamento di adorazione ed un uomo-toro che abbraccia due tori. Ci manca qualsiasi chiave per interpretare questo mondo fantastico e ciò vale per la maggior parte della glittica di questo periodo.
Abbiamo visto che la definizione plastica delle figure su sigilli protodinastici era sacrificata nel cosiddetto "stile di broccato" a causa dei motivi figurativi intricati e strettamente intrecciati. Questa tendenza persistette quando apparvero nuovi motivi che richiedevano più attenzione al contenuto da rappresentare: un eroe nudo ed un uomotoro sono mostrati in feroce combattimento con fiere selvagge. Queste sono dapprima rese in stile lineare e benché le figure tendano gradualmente ad una maggiore plasticità, appaiono tuttavia subordinate al disegno. Quello che noi troviamo non è una più o meno lucida affermazione che potesse dare adito alla comprensione di queste contese feroci; troviamo un pasticcio di figure combattenti, eroi ignudi, uomini-tori, leoni, capre e tori di montagna, aggruppate decorativamente a due o tre, diagonalmente o in posizione antitetica e cosi legate fra loro che è impossibilè decidere quale combatta l'altro. Sembra che un severo motivo mitologico, che deve aver quasi ossessionato gli artisti per secoli, divenisse gradualmente un puro esercizio per disegnatori esperti e superficiali.
5. Periodo accadico. - Il primo periodo dinastico non terminò - come sovente accadde nella storia della Mesopotamia - con invasioni straniere e confusione politica. Le forze dominanti che apportarono cambiamenti fondamentali si svilupparono dall'interno della cultura sumerica, benché i loro protagonisti non fossero Sumeri.
Occorre infatti tener presente che la cultura sumerica, che era accentrata nel S, si era diffusa senza interruzione dal Golfo Persico fino in Siria, ma la regione di N-O era probabilmente, fin dall'inizio, abitata da una popolazione diversa e si è supposto che vi si parlasse una lingua semitica.
Fu questo elemento semitico che cominciò ad affermarsi. Alcuni grandi generali tentarono per la prima volta la unificazione politica della regione a spese dei patriottismi locali e questo non solo accrebbe la loro personalità ma lo stesso significato della regalità.
Narām-Sin, nipote di Sargon il primo grande re accadico, si definiva con orgoglio Re dei quattro quarti dell'Universo. Questi cambiamenti sono tutti del più grande interesse perché essi hanno trovato una superba espressione nell'arte; i pochi capolavori del periodo accadico che noi possediamo, ignorano o contraddicono la tradizione sumerica.
La testa bronzea di Ninive (v. assira, arte) raffigura un comandante accadico non identificato: si tratta di un ritratto veramente regale, di ineguagliabile nobiltà: unico elemento tradizionale è l'elaborata pettinatura con diadema e chignon, che richiama Eannatum: il fermo modellato del viso, che si equilibra sottilmente tra il formale e l'individuale, e soprattutto la sua espressione, l'effetto dell'imperioso sguardo a terra, non hanno nulla in comune con lavori protodinastici. Questo è un viso potente, virile, unico, e non sembra accentrato su una presenza divina; esso contrasta con le rappresentazioni sumeriche, con il loro sguardo ingentilito da palpebre arrotondate, attonito, mite, mai imperioso.
Riguardo al rilievo, frammenti di alcune stele con scene di battaglia del periodo di Sargon mostrano ancora la tradizionale sistemazione a registri orizzontali; ma vi troviamo un cambiamento significativo: il nemico è ancora preso in una rete che ora è tenuta dal re e non dal dio.
La stele di Narām-Sin, l'unica stele integra che noi conosciamo (v. accadica, arte), presenta una narrazione discorsiva: qui la scena di vittoria è unificata sia nello spazio che nel tempo; essa è l'acmè drammatica di una singola azione localizzata.
Il sorprendente afflato di questa grande opera d'arte è che essa, pur essendo decorativa e venata di significati simbolici, resta saldamente ancorata alla realtà. È decorativa in quanto la forma della montagna si accorda con la forma della pietra e l'avanzata dei soldati vincitori è bilanciata dai nemici caduti e cadenti, trattenuti da quattro sopravvissuti. La torreggiante figura del re, che porta un elmo con corna - prerogativa divina - e si erge di fronte al nemico trafitto, simbolizza la trascendente potenza; ma alla topografia della scena è stata data una sbalorditiva vivezza con il fatto che le vittime in prospettiva, voltandosi a riguardare il re ognuna da una differente posizione, volgono la testa con un angolo differente. Il re diventa così il centro drammatico, decorativo e simbolico della composizione; lo spazio vuoto sopra di lui accentua il suo isolamento. Benché i simboli astrali in cima alla pietra implichino una benedizione divina su questa vittoria, tuttavia questa fu un'impresa compiuta da un individuo.
Lo storico dell'arte è quasi riluttante a prendere congedo dall'ultimo, originale ed audace capolavoro dell'arte m. fino ai tempi assiri.
Gli incisori di sigilli accadici immisero nella tradizione uno spirito nuovo.
Il vecchio motivo dell'uomo-toro ed eroe non fu dimenticato ma fu trattato in una maniera del tutto nuova.
Le figure di démoni ed animali combattenti erano, nelle mani di artisti protodinastici, divenute astrazioni lineari, in funzione di disegno continuo; gli incisori accadici li vivificarono sollevandoli dal mero intreccio decorativo e dando loro una nuova vitalità plastica. Il risultato è un curioso ibridismo di realismo e fantasia, di muscolature dettagliate e di movimenti improbabili, per non dire impossibili, che non sempre soddisfano.
Più successo ebbe il tentativo di trattare i soggetti mitologici. Questi non erano mai stati tentati prima in maniera così esplicita e complessa, né lo furono dipoi, se non come riecheggiamento di questo periodo, ed è singolare che il tentativo sia stato fatto sulla superficie di un piccolo cilindro.
Per la prima e l'ultima volta vediamo gli dèi della Mesopotamia in azione, il dio del tuono nel suo carro trascinato da un drago; il dio del sole a bordo della sua barca dalla prua umana con una creatura, il prototipo di Eracle che lega un mostro a sette teste. In breve, il dominio della poesia fu saccheggiato per trarne dei soggetti, un fenomeno unico nell'arte dell'intero Vicino Oriente.
Fu introdotto un tipo di scena religiosa che, di fatto, sopravvisse per secoli al periodo accadico, seppure in forma stereotipata e piuttosto ovvia, la cosiddetta scena di presentazione: essa raffigura un uomo ed un dio in forma essenzialmente drammmatica; un divino demiurgo conduce un personaggio umano pervaso da timore reverenziale verso la presenza divina. La semplice pietà di questa scena continuò a trovare il favore delle generazioni più tarde per le quali la grande realizzazione dell'arte accadica era divenuta senza significato, nel sussegnirsi di tragici eventi.
6. Periodo neo-sumerico e babilonese. - Il dominio accadico fu abbattuto da un'invasione di tribù delle catene montuose di N-E: i Gutei. Seguì un intermezzo barbaro che non lasciò alcuna traccia, oltre alla devastazione, attraverso il paese.
Per ragioni non ancora note la città di Lagash sfuggi alla distruzione. Un suo governatore, Gudea, credette che il destino della sua città fosse stato determinato dalla volontà divina e che egli fosse stato scelto per il suo speciale fervore nel servire gli dèi i cui santuari altrove erano stati distrutti. La pietà religiosa fu perciò la nota fondamentale della sua attività e la devozione e non l'orgoglio informarono il sorprendente numero di sue immagini che egli eresse nei templi. Queste statue erano, come chiaramente dimostrano le iscrizioni dedicatorie, una forma di preghiera divenuta monumento: poste di fronte alla divinità esse esplicitamente le ricordavano le buone azioni compiute e le chiedevano un prolungamento della vita. Un tal pio concetto di regalità, se espresso in forma plastica, mostrava maggiore affinità con le figurette votive del primo periodo che con quelle accadiche così imperiose. Difatti le statue di Gudea hanno in comune con le opere protodinastiche una passione per le forme rotonde ma mancano interamente di qualsiasi traccia dell'esperimento gioioso che nelle altre così spesso supplisce all' imperizia. Le statue di Gudea sono molto rifinite: benché lavorate nella pietra più dura, i loro soffici contorni sembrano modanati; esse sono pure molto inespressive.
I volti, spesso sormontati da un copricapo di lana simile ad un nimbo solido, sono completamente formalizzati, senza traccia alcuna di individualità: esse di fatto sono quasi indistinguibili nelle varie redazioni. Le fattezze non mancano di una certa gentile nobiltà, e la resa della bocca è particolarmente sottile. Braccia e mani denunziano una nozione di struttura muscolare ed ossea, benché non riescano a dare un'impressione di forza in potenza (v. gudea). Queste lisce e reverenti figure, rifinite e perfette, sono distanti dal rappresentare un punto d'arrivo nell'arte sumerica: esse si rivolgono piuttosto ad ideali antichi e soffrono del difetto di ogni arte arcaizzante: mancano essenzialmente di vita.
I Gutei furono alla fine espulsi dagli stati meridionali sotto la guida di Uruk e Ur, con una grande ma non certo definitiva vittoria.
Per secoli la lotta contro invasori stranieri doveva continuare, mentre all'interno un susseguirsi di potere portò alla ribalta politica prima il S e poi il N.
La città di Lagash, la favorita dal dio, cadde in uno stato di dipendenza quando il re di Ur, Urnammu, unificò la regione e stabilì la cosiddetta III dinastia di Ur che durò per circa un secolo. La lingua accadica fu ora generalmente usata, eccetto per documenti ufficiali, ed in essa furono redatte opere letterarie di grande profondità ed originalità. L'ideale politico di Sargon di un re che governasse l'intero regno per diritto divino fu ancora in voga ed i capi locali divennero vassalli del re di Ur.
La III dinastia di Ur ci ha lasciato poco in valore artistico malgrado la sua architettura sia imponente.
Frammenti di una grande stele, alta circa 3 m e larga 1, provano che Ur-Nammu, grande soldato indubbiamente, seguiva una tradizione antica nel ricordare il suo atto più devoto, la fondazione di un tempio.
La lastra di pietra è di forma regolare ed è stata divisa in registri. Uno solo di questi registri è stato ben conservato e da questo possiamo farci un'idea del suo carattere formale: in due gruppi identici, affrontati, un dio in trono che ha in capo una corona a corni è posto di fronte al re che fa una libagione. Niente potrebbe portarci più lontano dalla drammatica unità della scena di vittoria di Narām-Sin. È tuttavia possibile che i registri più in basso, che forse descrivevano l'attività edilizia di quel periodo, fossero più vivaci.
La glittica del periodo, d'altronde, è incredibilmente stereotipata e sorda dopo la ricchezza dei motivi spiegati nel periodo accadico; il loro unico tema è la cosiddetta scena di presentazione. Al contrario, la ziqqurat di Ur-Nammu a Ur, la prima ad essere costruita dopo il Tempio Bianco del periodo predinastico, è basata su un concetto originale di grande effetto: è racchiusa in un cortile e misura m 65 × 43. Tre scalinate sul lato N-E davano accesso al primo piano ed una specie di dépendance segnava il punto del loro incontro. La gradinata centrale continuava oltre la dépendance fino a raggiungere il secondo piano: si è supposto che ci fosse pure un terzo piano oggi scomparso. Un così vasto progetto denunzia una considerevole prosperità economica che è confermata del resto dall'estensione dello stato sumerico (che testi pubblicati nel 1960 hanno mostrato giungere fino alla Fenicia) e dall'attività edilizia negli stati vassalli.
È interessante notare che a Tell Asmar (l'antica Eshnunna) fu costruito un tempio per il culto di Shu-Sin, re di Ur, come annesso al palazzo del governatore locale, sottolineando in tal modo lo stato di vassallaggio di quest'ultimo.
La dinastia di Ur crollò per un attacco di Elamiti da E e di Amorrei da N-O. Questo significò il crollo del potere centrale e, una volta assorbita dalla popolazione indigena la massa di invasori, l'antica rivalità fra le città indipendenti dominò ancora la scena politica.
Questo periodo va sotto il nome di periodo di Isin-Larsa, dalle due città principali protagoniste nella lotta per l'egemonia.
Regni indipendenti più piccoli, come Mari ed Eshnunna, gareggiarono con loro in importanza, come dimostrano i loro templi su scala monumentale. Le città erano un semplice agglomerato di case di mattoni crudi: quelle messe in luce ad Ur sono spaziose, con un cortile centrale ed una balconata di legno che dava accesso ad un piano superiore. Una novità è la cappella domestica con un altare in mattoni crudi, mentre agli angoli della strada erano eretti tempietti nei quali sono state rinvenute statue di povero artigianato.
Rilievi di terracotta potevano a volte sostituire queste statue: essi sono di grande interesse perché ponevano all'artista un nuovo problema. Il rilievo fino allora aveva favorito una visione figurativa di profilo, ma la relazione tra divinità ed adorante, richiedeva una resa di pieno prospetto. Una delle terrecotte che destano più impressione è la minacciosa dea, forse Lilit, raffigurata alata con piedi provvisti di artigli posta sopra un leone e fiancheggiata da civette. Essa regge il simbolo di una corda di misurazione, lo stesso che tiene in mano il dio di fronte a Ur-Nammu, sulla stele. In questo caso essa può indicare la durata della vita umana o il giudizio dopo la morte, perché non c'è alcun dubbio che questa figura rappresenti l'inesorabile dea della morte che si muove velocemente e silenziosamente come una civetta.
Si dovrebbe notare che questa è la prima figura di culto nuda di una dea che noi conosciamo in Mesopotamia, e che il suo appello sensuale è convincente come il terrore che essa ispira. Essa simboleggia il tragico problema di vita e morte in forma molto drammatica.
Rilievi più piccoli furono rilevati da matrici e sono stati trovati sia in templi dove potevano servire come doni votivi, sia nelle case private, posti sull'altare domestico. La dea Nintu, per esempio, dea della nascita, è mostrata con una testa di bimbo emergente da ogni spalla, fiancheggiata da due figure embrionali e da due simboli uterini. Questi rilievi di terracotta, popolari e a buon mercato, presentano un notevole repertorio secolare, piccole scene come quelle dei cuccioli di un mastino o un uomo che cavalca uno zebù sono deliziosamente leggere e vivaci e danno un ben accetto sollievo alle cupe preoccupazioni religiose del periodo.
Astraendo da alcune statuette votive senza pretesa d'arte, ci sono conservate alcune statue di culto notevoli, quali la dea Ningal da Ur, ed una dea che tiene in mano un vaso traboccante, da Mari: la prima benché convenzionale ha una certa elegante vivacità, la seconda è pesante, ma mostra inusuali dettagli plastici.
Le figure maschili del periodo rappresentano quasi tutte condottieri locali. Quelle trovate a Mari differiscono dagli esempi più antichi in quanto tutto l'interesse è centrato nel trattamento decorativo della sola superficie. Lunghi panneggi fluenti nascondono più che rivelare le forme che coprono, ma i loro orli molto elaborati con frange hanno un ritmo spesso pieno di grazia. Barbe e baffi non sono solo stilizzati ma ridotti ad un rigido motivo nel quale predominano le spirali: torna alla mente l'estrema stilizzazione dell'arte achemènide e ci si potrebbe aspettare che anche qui si fosse raggiunto il punto morto della decorazione senza vita. Ma non fu così. Ancora una volta un grande condottiero, Hammurapi, riunì il paese dopo la sconfitta di Larsa, Eshnunna e Mari e dette a Babilonia un importanza che durò per secoli. Ancora una volta sotto un condottiero semitico un nuovo spirito sembra pervadere quei pochi monumenti che possediamo.
Una testa di granito al Louvre si suppone che rappresenti un re: per generale consenso è un lavoro piuttosto ibrido, perché il copricapo rotondo ed il trattamento della barba e delle sopracciglia è convenzionalmente sumerico, mentre il viso con le palpebre pesanti e rugose ha una straordinaria virilità assolutamente non sumerica. Il viso, con il labbro inferiore che sporge in fuori, non ha niente della perfezione delle statue di Gudea, l'espressione degli occhi, con le pupille profondamente incise e le palpebre leggermente contratte, è intelligente e vivace più che devota. I corti peli che circondano la bocca non sono disposti in riccioli eleganti e decorativi, ma leggermente incisi con un tocco inusualmente realistico. Come opera d'arte non è pienamente riuscita: ha il dinamismo vivace di un conflitto non risolto tra stili opposti, ma è potentemente viva.
Due statue in bronzo dello stesso periodo mostrano, ciascuna a suo modo, una animazione del tutto nuova, senza perdere niente in dignità formale. Nel caso del re che s'inginocchia in atto di adorazione, la straordinaria elasticità della figura dà al suo gesto rituale una qualità quasi drammatica. La misteriosa dea dalle quattro facce, da Ishchali, è viva nella stessa misura, benché il piede appoggiato sul montone accosciato non indichi movimento. Il torso leggermente curvo, lo slancio in avanti della mano destra, il ruotare indietro della scimitarra, tutto suggerisce un movimento in potenza. Anche un tema puramente convenzionale come il raffronto dell'uomo e del dio, può ricevere in questo periodo una nuova vitalità.
Il famoso codice legislativo di Hammurapi fu iscritto su un'alta stele sulla cima della quale era raffigurato il re di fronte al dio Shamash come dispensiere di giustizia (v. babilonese, arte). L'imperioso gesto del dio, il timoroso ma in nessun modo servile atteggiamento del re che per una volta è tenuto per mano da un demiurgo, hanno una insolita vivezza.
Sfortunatamente questo germinare di nuova vita in un arte piuttosto ferma e stantia durò poco; il regno di Hammurapi si concluse con una invasione di tribù guerriere dalle montague curde, i Cassiti. Prima di trattare i rari resti del periodo cassita si dovrebbe fare menzione delle pitture murali trovate nel palazzo del governatore a Mari, che fu distrutto da Hammurapi nel tredicesimo anno del suo regno e perciò a lui contemporaneo. Può essere un puro caso che del periodo predinastico nessun affresco sia stato conservato in templi o palazzi. L'interesse delle pitture di Mari (v.) sta nel fatto che, astraendo da scene convenzionali quali possono riscontrarsi in innumerevoli sigilli cilindrici del periodo, questi apparentemente hanno un repertorio più ricco, quale è dimostrato da almeno un frammento di una figura mitologica, di prospetto, barbata, alcuni frammenti raffiguranti soldati nemici e scene di offerta nelle quali animali da sacrificio sono condotti da inservienti che indossano scialli e copricapi di feltro. Questi sono dipinti in uno stile notevolmente fluente e libero. I motivi di contorno, a spirali ricorrenti, suggeriscono influenze egee, ma le scene sono dichiaratamente mesopotamiche. Questi dipinti sollevano la questione, piuttosto pericolosa, se gli accidenti di sopravvivenza non possano aver falsato tutta la nostra visione dell'arte mesopotamica. Bisognerebbe ricordare che Mari, situata anche più lontano al N che Akkad, è situata fuori del raggio di influenza sumerico vero e proprio, in modo che queste pitture così vivaci potrebbero aver avuto uno sviluppo solo locale. Abbiamo già visto come Hammurapi unificasse la regione sottomettendo le più importanti città-stato, ma già durante il suo regno nuvole tempestose si addensavano all'orizzonte.
Durante il XVIII sec. a. C. migrazioni molto più numerose delle precedenti e che movevano dall'Asia Centrale verso S, portarono gli Hittiti nell'Asia Minore ed orde di varia origine fino in Egitto, dove il loro governo è conosciuto come quello degli Hyksos o Re Pastori. I Mitanni, popolo che parlava una lingua indoeuropea, si stabilirono in Siria e nella Mesopotamia del N compresa l'Assiria.
Dalle montagne curde i Cassiti, le cui ascendenze etniche sono sconosciute, tentarono l'occupazione della Mesopotamia. Dapprincipio furono respinti ma dopo che un re hittita ebbe saccheggiato Babilonia nel 1530 a. C. circa, essi poterono stabilire il loro impero che doveva durare per 500 anni. Fu un periodo infruttuoso per quel che concerne le arti perché il travaglio etnico portò ad una disintegrazione degli stili indigeni.
Motivi e tecniche straniere furono adottati dagli emigranti e si diffusero in zone molto lontane del paese. E il periodo in cui sui sigilli mesopotamici appaiono motivi della Siria, dell'Egeo e dell'Egitto.
I Cassiti costruirono molto: i templi esistenti furono ricostruiti ed alla nuova capitale Dur-Kurigalzu (v. aqarquf), vicino la moderna Bagdad fu eretta, sul modello di Ur, una ziqqurat a triplice scalinata. A Uruk, un tempio cassita dedicato alla dea Inanna, mostra una particolarità del tutto nuova: divinità maschili e femminili reggenti un vaso traboccante erano inserite in nicchie che decoravano l'esterno del tempio (v. cassita, arte). Queste statue non sono scolpite ma ottenute in mattoni crudi modellati e fanno parte della struttura architettonica. Per questa tecnica noi non troviamo precedenti ma essa doveva essere usata ancora quasi mille anni più tardi quando i templi neobabilonesi furono decorati con rilievi ottenuti in smalto dipinto.
7. Il periodo medio-assiro. - Benché l'Assiria avesse tentato già nel XVIII sec. a. C. di costituirsi politicamente come stato, non fu che nella seconda metà del XIV sec., quando gli Hittiti ebbero scosso il giogo mitannico, che si formò uno stato indipendente e fu allora che apparve l'arte assira, del tutto diversa per forma e contenuto.
Ciò è molto notevole perché Babilonia rimase il centro culturale riconosciuto. La sua influenza nell'architettura assira fu profonda: benché poco rimanga degli edifici del periodo medio-assiro si può stabilire che le ziqqurat (v.) furono numerose e facevano ora parte integrale del complesso templare. Scribi assiri riunivano e copiavano testi letterarî scientifici e religiosi per i loro padroni. La divinità nazionale, Assur, richiamava per molti aspetti il dio babilonese Marduk ed almeno un rilievo assiro raffigurante una divinità ctonia della fertilità con piante germoglianti dai fianchi e dalle mani e con capre pascolanti, ci ricorda gli dèi della fertilità più antichi della Mesopotamia.
Nel campo religioso vi sono cambiamenti significativi. Le scene di presentazione sono per lo più assenti; l'uomo non è posto più di fronte alla vera immagine del dio. Al curioso legame personale implicito nelle statue votive sumeriche e nelle consimili scene di presentazione è sostituito un concetto di divinità infinitamente più lontano dall'uomo. Il dio può essere raffigurato dal suo emblema soltanto, come è il caso su un altare che indica il re Tukulti-Ninurta I che celebra un atto rituale. Su un obelisco troncato di data tarda, due mani emergono da una nuvola come a benedire il re cui dei vassalli fanno omaggio. In un caso il dio Assur appare in un fiammeggiante disco solare sopra il carro reale mentre tira l'arco contro i nemici del re. Sarebbe avventato concludere che questa nuova enfasi sullo iato tra poteri umani e divini significasse necessariamente una più grande spiritualità. Vi sono pochi segni di ciò nella storia assira: al contrario, oggetti ed emblemi sacri abbondano in tal quantità nel rituale da apparire simili a feticci.
Comunque sin dai suoi primordi, esiste una grande differenza nell'arte assira tra la realizzazione di oggetti destinati al culto ed oggetti secolari. La scena rituale sull'altare da noi menzionato, e quelle su sigilli a cilindro sono del tutto formali e di grande interesse perché su questi ultimi appaiono due motivi sconosciuti finora in Mesopotamia, e precisamente un albero sacro ridotto a schema decorativo ed un grifone crestato. Entrambi sembrano indicare un'origine mitannica. L'albero sacro che doveva apparire in rilievi tardoassiri, appare anche in pitture murali del palazzo di Tukulti Ninurta.
Fu tuttavia non in scene religiose, ma in quelle secolari che il genio assiro rivelò se stesso, soprattutto sui sigilli cilindrici. La loro freschezza ed originalità sono la cosa più impressionante se si considera la povertà della glittica cassita contemporanea. È come se l'alta serietà e severità degli artisti mesopotamici fosse improvvisamente spazzata via e tutto l'interesse si accentrasse sulla bellezza della vita animale. Per la prima volta creature selvagge, anche se mostruose, appaiono del tutto naturali, non legate a significati religiosi. Le ali del magnifico cavallo alato che difende la sua preda non danno all'animale un'aria soprannaturale, sembrano la proiezione del sogno di un amante di cavalli veloci e leggeri. Il centauro leonino è non più simbolico del superbo cacciatore impegnato in una lotta simile. Ci sembra di essere entrati in un mondo diverso, più gaio, nel quale la grazia di un cervo ripreso nell'atto di saltare o la goffa andatura di uno struzzo potevano diventare materia di appassionato interesse. Sfortunatamente quest'arte deliziosa ebbe breve durata: nel periodo seguente il repertorio iconografico e lo stile dei sigilli mutano completamente, anche se nelle scene di caccia resta un ricordo dei cavalli alati.
8. Periodo neo-assiro. - L'impero assiro che durò per circa due secoli e mezzo fu un periodo di guerre senza tregua. Una giovane virile nazione si trovò esposta alla costante minaccia di popoli a N, a oriente e occidente. Al fine di affermare la propria potenza e garantire la sua salvezza fu adottata una strategia impostata su una sempre maggiore espansione nel territorio nemico. Così il Kurdistan, l'Armenia, la Siria, la Palestina e finalmente l'Egitto, furono invasi, il che significò spedizioni militari piene di rischi nel deserto, nelle paludi e la conquista delle quasi imprendibili fortezze montane. La guerra divenne la principale occupazione della nazione.
Possediamo un notevole ricordo di queste campagne nei rilievi di battaglia delle residenze reali. Questi mostrano - come vedremo - che le conquiste dei re assiri non furono mai viste come episodi di una singola decisiva vittoria ma come episodi di una lotta senza fine. Sotto questo aspetto essi differiscono molto dalle più antiche scene di battaglia come la stele di Narām-Sin oi rilievi commemorativi di Sethos I nel tempio di Karnak. In questo la figura reale dominava la composizione in tal modo da dare alla scena il significato di una simbolica affermazione della invincibilità del re.
I rilievi assiri mancano assolutamente di tono metafisico, sono un ciclo pittorico essenzialmente narrativo - il primo della serie - nel quale il re è mostrato come un soldato in azione.
La locazione di questi rilievi sui muri dei palazzi reali e non in un tempio, conferma il loro carattere puramente secolare. Tuttavia non si dovrebbe pensare che la funzione del re assiro fosse soltanto quella di guerriero. Sappiamo dai testi che le sue funzioni religiose, come capo di stato, erano complesse e che egli si considerava sotto la protezione divina. Una prova di ciò l'abbiamo anche nella disposizione dei vasti palazzi reali che noi considereremo. Non è sorprendente trovare in questi un forte elemento di ostentazione perché i vassalli e gli ambasciatori stranieri potessero esserne impressionati. I re assiri costruirono molto; la proclamazione del proprio diritto da parte dei vari monarchi che si succedevano richiedeva un frequente cambiamento delle loro capitali: cosi Assumasirpal II costruì Kalkhu (Nimrud), Sargon II Dur-Sharrukin (Khorsābād), mentre i suoi discendenti si stabilirono a Ninive.
Di queste città residenziali solo Khorsābād (v.), è stata sistematicamente scavata. Essa copriva quasi un miglio quadrato ed era circondata da un muro con sette porte. Sul lato N-O una cittadella separata con cinta di mura proprie, comprendeva il palazzo reale, un tempio al quale il re aveva accesso diretto dal suo palazzo ed una ziqqurat con una rampa circolare continua che conduceva alla cima ora denudata. Due porte con lunghi passaggi davano accesso alla cittadella; queste erano originariamente a vòlta ed allineate con ortostati a rilievo alti 4 m. Quelli esterni rappresentano il genio protettore Lamassu, un toro alato a testa umana. La parte anteriore della figura era ricavata a tutto tondo ed era posta di fronte a chi venisse, mentre il corpo in rilievo si estendeva lungo il passaggio. Dietro Lamassu un secondo genio alato a forma umana aveva la stessa funzione apotropaica. Tori alati fiancheggiavano anche le porte del palazzo e nell'ingresso principale alla sala del trono alcuni di essi appaiono in rilievo in un ordinamento molto impressionante, mentre due Lamassu stanno a guardia dell'ingresso su ciascun lato. Possiamo immaginare l'effetto di queste forme mostruose su quelli che avevano sperimentato la impietosa crudeltà delle campagne assire e ora dovevano essere ricevuti in udienza dal re. Dopo l'attesa in un cortile con le pareti rivestite di ortostati che mostrano il re e la sua corte, in bassorilievo e in scala superiore all'umana, questi dovevano passare attraverso i terrificanti custodi per entrare nella sala, dipinta brillantemente con motivi decorativi, in cui era il trono con la spalliera formata da un pesante ortostato monolita. La base del trono scolpita in rilievo mostrava Sargon II sul suo carro da guerra, mentre i soldati ammucchiano i resti della carneficina.
Benché siamo meno informati su altri palazzi, possiamo supporre che i più bei rilievi assiri apparissero in un contesto analogo e che la distruzione, la carneficina e la tortura che essi talvolta dipingono con dettagli nauseanti, non mancassero al loro scopo. Se questo effetto fosse o no deliberatamente richiesto è questione che non ha importanza se consideriamo i rilievi con battaglia come opere d'arte. Abbiamo già sottolineato il loro carattere secolare e colpisce il fatto che il re non fu mai raffigurato mentre esplica un atto rituale benché i dèmoni alati potrebbero spruzzarlo con acqua sacra (?). Solo una volta in un antico rilievo di Assurnasirpal II vediamo il dio Assur che tira il suo arco nel pieno della battaglia, una figura piuttosto piccola ed insignificante. Le scene religiose, quando ne troviamo, in genere raffiguranti un albero sacro fiancheggiato da genî o grifi, sono del tutto formali ed atone, e non offrivano alcun estro al genio degli artisti assiri che furono i più acuti osservatori della realtà drammatica che l'antico Vicino Oriente abbia mai conosciuto.
Una innovazione architettonica, l'allinearsi sui muri interni di lisci ortostati, offrì un'eccellente opportunità per il dispiegarsi di scene discorsive. Le lastre di pietra erano alte più di 2 m e generalmente erano divise in dùe registri di 60 cm, separati da una striscia di iscrizioni. Le scene più antiche che noi conosciamo, e per quanto si sappia, le più antiche che si siano mai intraprese, sono quelle nel palazzo di Assurnasirpal II. In questi delicati bassorilievi non c'è niente di sperimentale, essi mostrano una completa padronanza tecnica ed una stupefacente freschezza e vitalità nell'accingersi a nuovi soggetti. È vero che la storia narrata in quasi tutti i rilievi di battaglia assiri ha una spaventosa monotoma fortezze assalite, città distrutte, nemici sgozzati o impiccati o fatti prigionieri; lo spettatore prova un senso di sollievo quando la descrizione permette a qualche prigioniero la fuga! Ma anche se in alcum casi veniva fuori un modello di composizione che poteva portare a ripetersi, si tratta sempre di un modulo vivo, mai schematizzato. Gli assalti con arieti, il selvaggio gesticolare degli assediati, la confusione di un campo di battaglia, sono pieni di tocchi drammatici. Si combatteva a ferri corti e la sconfitta del nemico non è mai una conclusione: soldati nemici che si allontanano dal cocchio reale si voltano a lanciare dardi al re o si afferrano al morso dei cavalli reali nello sforzo di trattenerli. Essi non mostrano mai terrore, il combattimento è fiero e virile. Gli avvenimenti si sviluppano in una serie di scene che non mostrano una minima cesura, ma presentano una continua cronaca pittorica in cui l'azione non è mai sospesa. C'è un piacere spontaneo nel ricordare vivamente dettagli spesso irrilevanti come uomini e cavalli a bivacco o nemici che attraversano un fosso su pelli enfiate.
Nell'ultima scena la ineguale striscia d'acqua - così diversa dai rigidi rettangoli nella pittura e nel rilievo egiziano - e l'indicazione di una riva coperta d'alberi produce uno straordinario effetto di profondità scenica. Questo non significa tuttavia che il problema della profondità o di uno sfondo scenico fosse stato intrapreso consciamente. La ondulata linea della spiaggia, in armonia con il movimento dei nuotatori è un risultato artistico, proprio come in una scena di trasporto fluviale e le onde gonfie contrastano vivamente con la solida curva dell'imbarcazione.
In generale la maggior parte delle figure aderisce alla linea del terreno del registro che agisce come orizzonte; solo in azioni localizzate molto vivacemente alcune delle figure sono poste sopra di esso.
La resa dei cavalli è oltremodo superba. Gli artisti assiri devono averli conosciuti ed amati come nessun altro prima dei Greci, in modo da renderne sfumature di modi, di temperamento e diversità nel movimento, quando faticano sulla china di una montagna mentre il cavaliere è curvo sulle reni, o mentre calpestano goffamente l'acqua, se forzati ad attraversare un fiume.
Una scena di caccia di Assurnasirpal II rivela lo stesso sensibile trasporto per la forma ed il carattere dell'animale, già evidente nei sigilli medioassiri. I leoni non sono messi per pura e semplice scenografia ma per sottolineare la potenza del re; belva e monarca sono ben affrontati.
Al paragone la resa degli esseri umani è meno sottile, quantunque il loro gestire sia vivo e convincente. Questi non sono resi in puro profilo; la torsione delle spalle è notevole in figure piuttosto amorfe generalmente chiuse in lunghi mantelli.
Dal regno del successore di Assurnasirpal, Salmanassar III, noi possediamo scene di guerra molto simili, eseguite in metallo su scala molto piccola (v. balawāt). Strisce di bronzo, lunghe 2 m e mezzo e alte una trentina di cm, erano inchiodate alle porte lignee del palazzo; queste erano decorate a rilievo con il ricordo delle gesta disposte su due registri alti solo otto cm (figg. 1275 e 1291).
Le scene sono per lo più interessanti perché ci offrono un accurato racconto storico di diverse campagne, ma in un caso solo è descritta un'azione non bellicosa e quindi l'originale estro dell'artista altamente descrittivo entra in gioco. Il re aveva scoperto la sorgente del Tigri "il luogo dove fuoriesce l'acqua", aveva purificato ritualmente le sue armi, fatto sacrifici e dedicato un'immagine di se stesso ed una lunga descrizione che ricordasse l'evento. L'artista che nella resa dello scenario montuoso aderiva ancora alla vecchia convenzione di un disegno a squame formalizzato, dipinge non solo la grotta, che forma l'effettiva sorgente, con le gocce d'acqua che cadono dal soffitto sulle stalagmiti in basso, ma anche l'inizio del corso d'acqua sotterraneo. Egli riesce a ciò aprendo tre "finestre" nel fianco della montagna attraverso le quali appaiono uomini immersi nella corrente fino al petto e reggenti torce accese. Al punto di fuoriuscita dell'acqua vediamo uno scultore, in piedi su un blocco intento a scolpire sulla roccia una statua del re.
Gli 8o anni che separano i regni di Salmanassar III e Tiglatpileser 111(745-727) devono essere stati un periodo di declino per l'Assiria perché quasi nessun monumento è sopravvissuto. Quelli di Tiglatpileser III non sono numerosi ma tuttavia interessanti perché mostrano un curioso rilassamento delle scene prima fittamente compatte. Le figure principali non riempiono più il registro e troviamo sopra di questo, immersi in uno spazio vuoto, altri gruppi di cui il legame con l'evento principale resta oscuro. La vaga spazialità che ne risulta sembra preludere ad una pratica più tarda e precisamente a quella di porre figure a livelli diversi in una disposizione topografica più o meno articolata. Ne parleremo subito. In un palazzo di provincia a Till Barsip, datato a questo regno, sono stati trovati alcuni dipinti murali che ripetono lo stesso tipo di scene belliche, il lavoro è, però, duro e goffo, ovviamente un surrogato alla buona del rilievo. Molto superiori sono invece alcune teste virili le quali, pur essendo iconograficamente simili a quelle dei rilievi, appaiono dotate di una vivacità e di una leggerezza insospettate. Strisce di decorazione, gaiamente colorata, assomigliano molto a quelle già citate nella sala del trono del palazzo di Sargon II a Khorsābād che tuttavia è posteriore a Till Barsip.
I rilievi dei palazzi del periodo di Sargon II differiscono per un aspetto sia dai più antichi, sia dai più tardi: essi sono di gran lunga più rigidi e non hanno più quel gaio trasporto proprio dell'arte narrativa. Infatti, benché sia conservato un frammento di una scena bellica ed una stanza del palazzo fosse dedicata a scene di caccia, l'accento è completamente rivolto alla statica raffigurazione della potenza del re. La processione dei cortigiani, che converge verso il re, e degli uomini con le offerte, figure pesanti di oltre tre metri di altezza, ha una poderosa solennità, una pesantezza fisica stranamente minacciosa. Queste figure non sono ripetute meccanicamente, come è spesso il caso in simili figurazioni achemènidi, esse hanno una potente carica di individualità ed il loro effetto riesce a suggerire il carattere inesorabile del potere regio. Né questo effetto è diminuito da una barbara esibizione di raffinatezze, un piacere nel mostrare braccialetti preziosi, diademi, foderi di spade ed abiti ricoperti di pietre preziose. Bisognerebbe notare che, malgrado ciò, non c'è alcun tentativo di dare al re una statura sovrumana come era uso in Egitto. Sargon II, imponente, conscio di sé appare circondato da un cerimoniale di corte ma non sostenuto da divinità. Il suo potere è statico, evidente, rivelato da azioni di forza sovrumana; anche nella scena della caccia sono gli scudieri che tirano e fanno il gioco per il re; non è mostrato alcun leone che attenti alla sua incolumità.
La rigidità, la mancanza di inventiva pittorica nei rilievi sargonidi potrebbe ben suggerire l'avanzarsi della decadenza. Fu vero però il contrario. Nei rilievi del figlio di Sargon, Sennacherib, solamente una particolarità fu presa da Khorsābād, l'altezza degli ortostati, e lo spazio così guadagnato fu usato al massimo per nuove esperienze nel campo della narrativa monumentale.
Queste esperienze furono in gran parte concentrate sul problema di come ottenere una chiara disposizione topografica delle figure, ciascuna nel suo campo di azione, o montagna o palude. Dal punto di vista artistico il risultato può spesso apparire un goffo fallimento, ma i problemi cui gli artisti si erano accinti erano troppo vasti e tuttavia essi furono cosi intrepidi che bisogna ammirarli per il loro coraggio. Nel parlare di questi rilievi espressioni come cavalier prospective o "veduta a volo d'uccello" dovrebbero essere evitate perchè esse presuppongono una relazione definita se pure non usuale tra osservatore e cosa osservata, che è qui del tutto assente.
Troviamo qui, per esempio, che la superficie rientrante di un fianco della montagna è stata resa più o meno concreta da una figurazione convenzionale e che su questa superficie alberi e soldati sono sparsi irregolarmente in modo tale da suggerire una posizione naturale senza tener conto che essi dovevano essere osservati da un solo punto di vista.
C'è una vivace scena di una campagna militare nelle paludi meridionali che riempie l'intero registro e in cui manca il piano di posa. Qui barche e soldati appaiono in veduta frontale ma le piccole isole paludose coperte di canne, nelle quali si rifugia il nemico, sono state con tanta cura unite da strisce d'acqua così ben tracciate che la loro mutua relazione appare fissata come su una carta geografica. È chiaro che nonostante l'assenza di un solo punto di vista che abbracci figure e località, il risultato di un paesaggio illusionistico che sarà poi ignorato fino ai tempi ellenistici - era stato accettato. Non si può negare che tutto ciò condusse a esperimenti molto banali. Nell'assedio di città in collina scale disposte diagonalmente avevano spesso offerto un tono drammatico alla scena, ma ora si ambiva a rendere il naturale approccio dell'esercito attaccante sul fianco della collina. Un tale accesso era di necessità in linea diagonale e così noi vediamo, invece di scale, sentieri diagonali pavimentati che conducono alla cima della collina. In uno sforzo mal riuscito verso il realismo, fra questi sentieri ed i soldati che vi salgono, fu mantenuto un angolo di 90 gradi: i soldati sembrano cadere all'indietro.
Parrebbe che gli artisti comprendessero subito l'insidia di queste avventure topografiche: l'armonia della composizione si dissolveva in una confusione barbarica. L'artista che ideò i rilievi di Assurbanipal, il più delle volte, introdusse di nuovo i registri e le linee di posa che riportavano le figure alla superficie della parete, o le legavano con sottili mezzi in una situazione drammatica che poteva pure tralasciare l'indicazione della località. Si dovrebbe ricordare solo un tentativo di suggerire la profondità scenica: m un rilievo vediamo una città in fiamme, soldati che dopo il saccheggio lasciano la città per un sentiero che si allarga definitivamente verso il primo piano; benché le figure si aggrappino piuttosto timidamente alla curva demarcazione del sentiero che fa da piano terra, questo, allargandosi, suggerisce una primitiva forma di prospettiva visiva, non meramente concettuale.
In una sovraffollata scena di battaglia (raffigurante la disfatta degli Elamiti) di una specie più convenzionale, i registri sono stati omessi ma la disposizione delle figure è resa come se essi vi fossero. In qualcuno dei rilievi più belli è stata trovata una soluzione diversa. Nelle scene che raffigurano le campagne contro il popolo montanaro degli Elamiti, noi vediamo gli abitanti gesticolanti mentre fuggono con i loro carri. Questi sono disposti in tre registri; sopra di loro è una scena raffigurante un tempio, un acquedotto, alberi e diagonali ondulate che indicano fiumi. Questa scena è del tutto vuota di figure umane, essa serve da backdrop, non da sfondo, come in un altro rilievo fa la cieca facciata di una città deserta.
Quest'ultimo rilievo specialmente appare ad occhi moderni con una tragica nota. Ciò, possiamo notare, era in gran parte assente in tutto lo sviluppo dell'arte narrativa assira. Definire queste scene discorsive un'epica storica è un sopravvalutarle, perché, benché esse siano di grande inventiva nei dettagli, mancano della qualità propria della grande arte: non trascendono mai il puramente episodico. La vittoria era un fatto umano, descritto con freschezza e vigore, senza dubbio, ma con un realismo brutale del tutto svuotato dei significati simbolici quale esso aveva avuto nell'arte m. antica, in quella egiziana e quale avrebbe riavuto in Grecia nelle scene mitologiche. Dove la vittoria è opera dell'uomo la sconfitta appare come un avvenimento contingente e manca del tocco di fatale nobiltà che formava la peculiare grandezza di qualcuno dei rilievi di Sethos I.
È perciò molto notevole che uno degli artisti di Assurbanipal, forse il più grande di tutti loro, rivelasse la sua profonda umanità non nelle vicissitudini della guerra ma nell'eterno tema della caccia. Dove la sconfitta era inevitabile egli mostrò - talvolta in piccole scene del tutto accessorie - non solo la sua perizia nel raffigurare la bellezza animale, ma la sua conoscenza del terrore e della sofferenza, del coraggio disperato e dell'orgoglio ferito. Non c'è, di regola, alcuna indicazione di località, alcun segno che possa distrarre dall'imminenza del disastro. In un esempio soltanto, dove due leoni sono raffigurati in un idillico parco reale, noi vediamo una leonessa che riposa su uno sfondo di grandi alberi. Nel caso di un gregge di gazzelle raggruppate con meraviglioso acume, il vuoto che le circonda mentre stanno pascolando sotto l'attento sguardo di un lontano battitore, le fa apparire più vulnerabili. I cavalli selvatici attaccati da cacciatori con mastini si disperdono in una lunga fila, e una scena è resa più toccante dallo sguardo che la cavalla rivolge al suo puledro rimasto indietro. Anche qui abbiamo la suggestione di un piano che si allontana.
Non così in una caccia al leone in cui il piano di posa è introdotto per niente meccanicamente. Il carro reale dal quale il re tira le frecce mentre due scudieri dietro a lui spacciano l'ultimo leone che attacca, ha lasciato una fila di creature morte o morenti. I piccoli e separati piani di posa che li sostengono sono posti a livelli irregolari in modo che ogni animale ferito appare solo nella sofferenza della sua agonia. Il fato di queste belve che procurano il passatempo per il re è qui sollevato a tragedia. L'arte assira raggiunse la sua acmè proprio prima della disastrosa fine dell'impero. Essa fiorì alla periferia della Mesopotamia vera e propria alla vigilia di una nuova èra. Essenzialmente aliena dal dominante carattere religioso dell'arte m. e fortemente legata alle fortune dei singoli monarchi essa si esaurì col finire del loro potere. Non possiamo nemmeno intravvedere quale influenza essa può aver avuto sull'arte più tarda sia in occidente che nel meridione.
9. Periodo neo-babilonese. - Nel S una breve rinascita del potere babilonese si ebbe dopo la caduta di Ninive nel 612 a. C. Il caldeo Nabopolassar, comandante assiro nel S; si installò come re di Babilonia. Nessun trattato di arte m. può ignorare del tutto il periodo neo-babilonese, non fosse altro che per il palazzo di Nabucodonosor, figlio di Nabopolassar, e per la torre di Babilonia, monumenti che hanno conseguito una fama leggendaria.
Di fatto molto poco è sopravvissuto, alcuna statuaria di una certa importanza, pochi sigilli cilindrici che si distinguano, mentre i rilievi su pietre di confine (kudurru) - sconosciuti in Assiria - sono insignificanti. L'attività edilizia di questo periodo è tuttavia stupefacente. Templi del tradizionale tipo meridionale, pesanti palazzi, sia in Babilonia che ad Ur, ed una ziqqurat, che Erodoto poteva ancora descrivere con una certa accuratezza, furono eretti in mattoni cotti.
Di questi edifici niente resta se non un amorfo ammasso di argilla e, benché la fatica degli archeologi abbia riportato alla luce la pianta dei principali edifici di Babilonia, un numero di problemi architettonici, come per esempio la originale altezza della ziqqurat, resta insoluto. Nel palazzo di Nabucodonosor, che misurava m 200 × 300, solo la stanza del trono poté essere identificata con la sua gioiosa facciata di piastrelle smaltate: uno sfondo blu cupo con un disegno di alti alberi con capitelli e palmette e volute in bianco, giallo e blu cielo, ed alla base un dado di leoni.
Piastrelle smaltate colorate erano già in uso a Khorsābād: la tecnica dello smalto era pervenuta, via Siria, dall'Egitto, dove essa era in uso da millennî. Ma se le piastrelle assire erano piatte, i Babilonesi usarono piastrelle modanate dalle quali potevano emergere pesanti e verniciati rilievi. Questi erano usati per decorare la cosiddetta Porta di Ishtar, una imponente architettura all'ingresso di un viale usato per processioni religiose. Su uno sfondo blu, i tori gialli ed i draghi bianchi, con dettagli picchiettati in blu e giallo, devono aver avuto un chiaro risalto poiché essi non erano incorporati in qualche schema decorativo complesso. La durezza di queste figure le rendeva impressionanti; anche il toro, posto sotto il dragone vicino al simbolo arcaico della rosetta, ha riguadagnato una qualità quasi divina che nessun animale assiro, pur ben ritratto, ha mai posseduto.
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