KUṢĀṆA, Arte
La nozione di un'«arte k.» è dovuta a D. Schlumberger: «Rostovtzeff aveva dimostrato in precedenza che l'arte di Palmira e quella di Dura appartenevano a un insieme più ampio che egli chiamava «l'arte partica». Noi abbiamo tentato di dimostrare che l'arte greco-buddhistica del Gandhära appartiene anch'essa a un insieme più ampio, che proponiamo di chiamare «arte kuṣāṇa». L'arte partica a O, quella kuṣāṇa a E, si spartiscono nei primi secoli della nostra era l'ampio orizzonte dell'oriente non-mediterraneo già ellenizzato dai Seleucidi, dai Battriani, e dove ormai regnano i nuovi signori» (Schlumberger, 1960, pp. 293-294). D. Schlumberger aggiungeva in nota: «È chiaro che i Kuṣāṇa non sono gli artefici dell'«arte kuṣāṇa», come i Parti non lo sono dell'arte partica». Ma per indicare un'arte che ritroviamo a Mathurā (v.) e ora anche a Surkh Kotal (v.) al servizio della dinastia, e il cui ambito coincide approssimativamente con quello dell'impero kuṣāṇa, non vedo un termine migliore».
Gli inconvenienti di questa denominazione unitaria sono oggi ancor più evidenti. Le incertezze sulla cronologia politica kuṣāṇa, sommate alle incertezze che pesano sulla cronologia dell'arte del Gandhāra (ν.) e, in misura minore, su quella dell'arte di Mathurā, fanno sì che la datazione di numerosi monumenti e manufatti sia sempre molto dibattuta. D'altra parte, appare ormai chiaro che l'arte greco- buddhistica deve molto agli immediati predecessori dei Kuṣāṇa, gli Śaka e gli Indo-Parti, mentre sappiamo da tempo che essa sopravvisse per diversi secoli alla caduta della dinastia. In ultimo, le affinità tra l'arte k. della Battriana (v.) e l'arte di Mathurā di età kuṣāṇa non sono tali da spingere a riunire queste due scuole estremamente diverse sotto un'unica denominazione. La maggior parte degli storici dell'arte preferisce dunque continuare a parlare di arte della Battriana, del Gandhära, di Mathurä di età kuṣāṇa e riserva il nome di arte k. per l'arte ufficiale della dinastia.
A livello descrittivo, non è in realtà possibile fare altrimenti; la differenza tra le produzioni della Battriana, del Gandhāra e dell'India gangetica è tale che, salvo rare eccezioni, la provenienza geografica delle opere d'arte è subito evidente. Ma rinunciare alla nozione di un'«arte k.» significa rinunciare al valore conoscitivo di un concetto che ha permesso a D. Schlumberger di avanzare una teoria unitaria sull'arte dell'Iran e dell'India ellenizzati e che spiega in modo soddisfacente, e oggi generalmente accettato, le convergenze tra l'arte di Palmira e quella di Taxila, che separano la geografia dalla storia politica. Definiremo dunque l'arte k. come l'arte della Battriana e dell'India del Nord nel I e II sec. d.C. Il I sec. a.C. fu un periodo di formazione; a partire dal III sec. d.C. l'impero kuṣāṇa si disintegrò e le influenze iraniche (sasanidi) si fecero più nette in Battriana; in India, l'evoluzione fu meno percepibile. Poiché l'impero kuṣāṇa era la formazione politica più stabile e più potente in queste regioni e in questo periodo, la denominazione di arte k. è accettabile se si tiene sempre presente il fatto che, a prescindere dall'arte ufficiale, non si trattò di una arte voluta dai sovrani kuṣāṇa.
Kuṣāṇa (in brāhmī, battriano košano) sembra essere il nome di uno dei cinque sottogruppi della confederazione tribale Yuezhi che occupò la Battriana greca a partire dal 150 a.C. circa. Il termine è attestato sulle monete di Heraos nel I sec. a.C. Tra il I sec. a.C. e il I d.C., il capo kuṣāṇa Kujula Kadphises realizzò a suo vantaggio l'unificazione politica dei cinque sottogruppi Yuezhi, fece loro valicare l'Hindukush e li trascinò alla conquista dell'India, allora estremamente divisa: dinasti (kṣatrapa) śaka contendevano il controllo dell'India gangetica ai piccoli sovrani locali; re śaka tentavano di strappare il Panjab e il Gandhāra ai sovrani indo-parti e agli ultimi re indo-greci. La conquista dell'India gangetica, fino al Bihar compreso e forse fino al Bengala, fu compiuta dal suo successore Wima Kadphises, al quale succedettero Kaniṣka, Vāsiṣka, Huviṣka e Vāsudeva. Si possono forse inserire in questa lista un Kaniṣka II e un Kaniṣka III, la cui esistenza e le cui date sono molto controverse. Ugualmente, si ebbero diversi re col nome di Vāsudeva. La disintegrazione dell'impero kuṣāṇa sembra iniziare alla fine del regno di Vāsudeva I (o II), circa cento anni dopo l'anno 1 di Kaniṣka.
La nascita dell'impero kuṣāṇa corrisponde dunque, stricto sensu, alla presa del titolo imperiale da parte di Kujula Kadphises, intorno al 30 d.C. I regni più fecondi sembrano essere stati quelli di Wima Kadphises e di Kaniṣka, che le leggende buddhistiche dipinsero come uno dei più grandi sovrani mai conosciuti dall'India e che fondò un'era di ampia diffusione, la cui determinazione suscita ancora numerose dispute. L'anno 1 di Kaniṣka corrisponde così, secondo i diversi autori, a date che vanno dal 50 a.C. al 278 d.C. G. Fussman propende per il 78 d.C., datazione che farebbe di Kaniṣka il fondatore dell'era śaka ancora in uso in India. Ma non si può affermare che sia impossibile porre l'anno 1 di Kaniṣka più avanti, fin verso il 130 d.C. Se si adotta la datazione del 78 d.C., la cronologia degli imperatori è definibile come segue (salvo le eventuali omonimie): Kujula Kadphises (c.a 20-40); Wima Kadphises (c.a 40-78); Kaniṣka (78-101); Vāşiska (102- 106); Huvişka (106-138); Vāsudeva (142-176?), ecc. Nel I e II sec. d.C. i sovrani kuṣāṇa controllavano pertanto un vasto impero che essi avevano conquistato dall'esterno e che comprendeva la Battriana (bacino dell'Oxus), il Gandhāra e il Panjab (bacino dell'Indo), il bacino del Gange almeno fino a Patna (Bihar) e forse fino al golfo del Bengala. La loro influenza politica ed economica si faceva sentire senza dubbio in Asia centrale (Chorasmia, Sogdiana, a tratti nel Xinjiang), forse nel Maharashtra e nel Gujarat. A O i loro grandi rivali furono prima i Parti, poi i Sasanidi, che finirono per strappare loro la Battriana e una parte del bacino dell'Indo. L'Ovest dell'Afghanistan (Maimana, Herat, Kandahar) sembra non aver mai fatto parte dei possedimenti kuṣāṇa.
Ignoriamo quasi tutto del sistema amministrativo di questo impero. La lentezza delle comunicazioni doveva avere come conseguenza una certa autonomia delle provincie. Ma alcuni provvedimenti testimoniano un'innegabile volontà di unificazione. Le stesse monete circolavano in tutto l'impero, e nulla permette di distinguere una moneta di Kaniṣka trovata nel Terai nepalese da un'altra trovata nella Battriana sovietica: anche le monete frazionarie in bronzo erano di fattura identica in tutte le aree dell'impero. La creazione di una nuova era da parte di Kaniṣka, ben presto adottata in tutto l'impero anche per datare i monumenti privati, è un'altra testimonianza di questa volontà politica di unità. La fondazione di santuari reali che presentano lo stesso tipo di immagini dei sovrani in due luoghi così lontani tra loro come Mathurā e Surkh Kotal ne rappresenta un'altra prova.
Questa chiara volontà politica è, allo stesso tempo, nazionalistica. Sebbene i Kuṣāṇa abbiano dato prova di un'innegabile tolleranza religiosa e linguistica, essi tennero a sottolineare una rottura con la pratica politica dei loro predecessori e a porre in risalto la loro origine centroasiatica e la loro cultura iranica, senza dubbio acquisita nel corso della lunga permanenza in Battriana.
Le monete d'argento e di bronzo dei precedenti sovrani vennero sostituite da una monetazione d'oro e di bronzo in cui i pesi, i moduli e i tipi erano molto diversi da quanto noto fino ad allora. Sul diritto di queste monete, il re non è più rappresentato a cavallo o col solo busto, ma più spesso stante, con gambe divaricate, con barba (come mai nessun re greco o indiano), il capo coperto da un berretto (stessa osservazione che per la barba), con il pesante vestito (pantaloni rigonfi, tunica, mantello) e con le armi (spada pesante) del cavaliere delle steppe centroasiatiche. Quando Wima e Huvişka utilizzano per il diritto alcuni tipi che si allontanano da questo modello, conservano però questo vestito e utilizzano dei modi di raffigurare il sovrano del tutto nuovi (su un carro, su un elefante, da una finestra, sul trono o reso a mezza vita). L'uso del vestito è del tutto simbolico. Tutti i sovrani kuṣāṇa, anche i più tardi, tengono a farsi raffigurare vestiti in questo modo, e i donatori kuṣāṇa si fanno riconoscere sui rilievi che dedicano grazie al proprio costume, anche in luoghi in cui il caldo doveva rendere intollerabile l'uso di tali vestiti (Mathurā).
Il nazionalismo iranofilo dei sovrani si manifesta ancora con altri fatti. Mentre i vicini e rivali dei Kuṣāṇa, i Parti, di cui nessuno mette in dubbio l'iranicità, utilizzano un tipo di rovescio monetario copiato dalle monete seleucidi (Apollo seduto sull’omphalòs = Arsace?), i Kuṣāṇa, a partire da Kaniṣka, non rappresentano più le divinità greche sulle loro monete. Al contrario, e per la prima volta in Asia centrale e in India, vi compaiono, a fianco di divinità indiane, numerose divinità iraniche, qualificate come tali dalle leggende che accompagnano le immagini sulle monete: Athšo il fuoco, Ardokhšo, Mao la luna, Miiro (Mithra, il sole), Mozdooano (Mazdā-yasna), Nana, Pharro (farn, la gloria), Ooromazdo (Ahura-Mazdā), ecc. Sempre a partire da Kaniṣka, il battriano, la lingua locale, iranica, della Battriana, scritta in caratteri greci, sostituisce sulle leggende delle monete il greco e il medio-indiano. In ultimo, la dinastia utilizza fino a Vāsudeva dei nomi Yuezhi (Kujula Kadphises, Wima Kadphises) o battriani: Kaniṣka, «estremamente giovanile»; Vāsişka, «estremamente grande, estremamente vigoroso»; Huvişka, «il migliore». H. Humbach ha persino proposto di interpretare Vāsudeva, scritto in battriano ΒΑΖΟΔΗΟ, come una parola iranica: «colui il cui braccio è forte».
Dovremo tornare su questo aspetto della politica kuṣāṇa nell'esame dell'arte ufficiale della dinastia. L'adozione del battriano, che non era la lingua degli Yuezhi, sembra indicare che la loro cultura iranica sia stata fortemente condizionata dalla lunga permanenza in Battriana. Ma essa era più eclettica di quanto i fatti sin qui ricordati non lascino pensare. La persistenza del vestito kuṣāṇa è senza dubbio dovuto alla volontà di ricordare che i Kuṣāṇa sono una razza di conquistatori di origine nomade. Non sappiamo nulla di sicuro sulla cultura degli Yuezhi prima della loro conquista della Battriana, ma possiamo supporre che non fosse molto diversa da quella che ê attestata per altre genti della steppa: predilezione per i lunghi spostamenti e per le battaglie, fascino per l'oro e per le pietre preziose, possesso di tesori di diversa provenienza geografica e culturale. Le tombe di Tillyā Tapa, presso Šibargan, nel Nord-Ovest dell'Afghanistan, sebbene appartengano senza dubbio a popolazioni non-Yuezhi (Śaka o Parti ?), ci permettono di apprezzare l'eclettismo culturale di questi capi nomadi e il loro amore per gli orpelli: vesti ricamate d'oro, ornamenti e gioielli d'oro e di pietre preziose, armi con foderi d'oro di manifattura diversa; oggetti cinesi, indiani, greci, partici, romani, scitici (della Crimea e dell'Asia settentrionale), si trovano gli uni accanto agli altri nella stessa tomba. Basta per suggerire quanto queste genti fossero aperte alle influenze esterne.
Occupando la Battriana, gli Yuezhi occuparono un paese la cui cultura e la cui tecnologia erano state profondamente influenzate da due secoli di occupazione greca, e che noi oggi conosciamo grazie agli scavi di Ai Khānum, posteriori all'articolo di D. Schlumberger sopra citato. Essi governavano una popolazione in cui certi elementi erano ormai o greci o ellenizzati, e che contava tra i suoi ranghi architetti, muratori, scultori, ceramisti, abituati a lavorare alla greca. Il grande commercio internazionale sviluppatosi tra il I sec. a.C. e il I d.C. tra il mondo mediterraneo, l'India e la Cina, e le cui vie di terra passavano necessariamente per i territori kuṣāṇa, avrebbe continuato a nutrire questa cultura greca, aggiungendovi degli apporti propriamente romani. Sappiamo dai testi che il mondo mediterraneo esportava verso l'India artigiani, vino, oro e argento sotto forma di monete. I tesori monetari scoperti in India confermano le esportazioni di numerario romano in India. I ritrovamenti di oggetti romani a Ter e Kolhāpur (v.), gli scavi di Taxila, il tesoro di Begrām (fine del I sec.) mostrano la varietà degli oggetti esportati: vetri dipinti di Alessandria e di Siria, piatti e mestoli di bronzo, statuette e calamai di bronzo, gemme, gioielli e modelli per oreficeria. Ma queste stesse vie commerciali portavano nell'impero kuṣāṇa oggetti cinesi (lacche di Begrām) e vi facevano circolare i prodotti dell'artigianato indiano (avori di Begrām). La presenza e l'ampiezza dell'influenza indiana in Battriana è attestata a partire dal I sec. d.C. dalla presenza di monumenti buddhistici (Kara Tepe, Surkh Kotal) e scivaiti (Dilberjin, Surkh Kotal) e da ritrovamenti di avori indiani (Dalverzin Tepe). Sappiamo che gli imperatori kuṣāṇa furono estremamente sensibili alle influenze indiane. Wima Kadphises era scivaita. Kaniṣka lasciò ai buddhisti il ricordo di un imperatore convertito alla loro religione e che favoriva gli autori sanscriti. Il tempio che portava il suo nome a Surkh Kotal ospitava statue di Śiva e Pārvāti. Un alto funzionario di Huviṣka provvedeva quotidianamente al nutrimento gratuito di cento brahmani di Mathurā in nome del sovrano. Vāsudeva sembra essere stato scivaita. La cultura dei Kuṣāṇa è dunque una cultura eclettica e cosmopolita, che guardava alla Grecia, a Roma, all'India, ma che restava fiera delle sue componenti centroasiatiche e iraniche.
I primi oggetti d'arte k. a noi noti appartengono a un predecessore di Kujula Kadphises, il capo (yabgu) del sottogruppo kuṣāṇa della confederazione Yuezhi, il cui potere si esercitava sui territori situati a Ν dell'Oxus. Le sue monete ricordano le monete battriane; diritto privo di leggenda, raffigurante il busto diademato del sovrano vòlto a destra; sul rovescio, un cavaliere incoronato da una Nike, circondato da una leggenda in greco. Lo stesso nome del sovrano ha un vago sapore greco: Heraos. Ma la rottura con l'arte ufficiale della Battriana greca è già avvenuta. I capelli del re non sono alla moda greca; il suo ritratto dà un'impressione di forza e di volontà ben più accentuate di quanto non sia sulle monete greco-battriane. Sul rovescio, la leggenda greca presenta degli errori e comporta delle parole yuezhi: sanab, košahou. Il tipo del rovescio, raffigurante un dio-cavaliere, o il sovrano, con una faretra nel suo astuccio (gorytòs), appartiene all'iconografia dei popoli nomadi.
Ritratti di Heraos si trovano quasi certamente tra le centinaia di frammenti minuziosamente raccolti da G. Pugačenkova nel corso degli scavi del «palazzo» di Khalčayan (v.), nell'Uzbekistan meridionale, e che le hanno permesso di ricostruire la decorazione di questo edificio. Sfortunatamente lo scavo non ha fornito elementi inconfutabili e definitivi per quanto riguarda la funzione e la datazione dell'edificio. Sembra comunque corretta l'interpretazione della Pugačenkova, che lo ritiene un palazzo e lo data tra la fine del I sec. a.C. e l'inizio del I d.C. Si tratta di un edificio rettangolare (35 x 26 m), costruito in mattoni crudi, coperto con un tetto in argilla bordato da merli, alcuni dei quali con palmette greche. L'edificio si apre a SE mediante un portico con colonne di legno e basi di pietra ormai lontane dai modelli greci, decorato da pitture e rilievi di argilla modellata (re seduto, Atena stante; personaggi femminili e divinità). Il portico dava su un ambiente centrale di rappresentanza, rettangolare, separato dal muro di cinta da un piccolo ambiente quadrato con tetto sorretto da due colonne. Su entrambi i lati di questi tre ambienti disposti lungo lo stesso asse, si trovavano alcuni locali di servizio (corpo di guardia?, tesoreria ?, ecc.). La pianta ricorda molto vagamente quella di alcuni edifici di Ai Khānum (ambiente centrale di rappresentanza comunicante con un portico in antis), ma l'analogia è talmente labile che è opportuno non darle rilievo: in questa architettura solo le palmette di alcuni merli sono di origine greca.
La decorazione della sala centrale di rappresentanza è di particolare interesse. Il registro superiore delle pareti era decorato da rilievi di argilla cruda, ricostruiti come segue: una cornice superiore con festoni portati da fanciulli e busti emergenti dai festoni, in cui si riconosce il motivo classico degli amorini portatori di ghirlande. Sotto la cornice, tre pannelli: la coppia reale in trono; un gruppo di cavalieri che tirano con l'arco; il sovrano in trono circondato da guerrieri armati. I personaggi, soprattutto il re, hanno volti che ricordano sensibilmente quello di Heraos. Il vigore della scultura e il suo intento realistico richiamano allo stesso tempo l'arte greca e una scuola coroplastica locale. La posizione frontale della maggior parte dei personaggi, il costume dei cavalieri, gli atteggiamenti delle figure stanti, ricordano l'arte partica. Il galoppo volante degli arcieri a cavallo richiama le arti dell'Iran antico e della Scizia. Questa mescolanza di apporti diversi, manifestamente al servizio del potere politico da poco insediatosi in Battriana, produce un'arte nuova e originale, che condivide alcune delle caratteristiche dell'arte di Surkh Kotal.
Le monete sono state a lungo l'unica testimonianza esistente dell'arte ufficiale kuṣāṇa. Abbiamo visto che esse utilizzano una tecnica greca (quella della coniatura, forse con l'influsso di modelli romani più recenti) per tradurre, attraverso il linguaggio delle leggende, il ritratto del sovrano e la raffigurazione di nuove divinità, un'ideologia nuova: quella di un potere forte, in espansione, tollerante nei confronti delle credenze religiose locali, ma fiero della sua origine centroasiatica e della sua cultura iranica. Anche qui il sincretismo ha finito per produrre opere a volte di grande qualità, sempre originali: sarebbe impossibile confondere una. moneta kuṣāṇa con una moneta greca, romana o partica.
L'azione della dinastia è evidente nell'urbanistica: la pace kuṣāṇa permise lo sviluppo delle città e dei villaggi. Numerose città furono fondate, o ingrandite e ristrutturate, e cinte di nuove mura. Le forme regolari di queste cerchie, che avevano funzione tanto di recinzione quanto di protezione (il muro fortificato di Surkh Kotal non aveva funzione militare), lasciano supporre che la pianta delle costruzioni all'interno fosse anch'essa regolare: ed è questo che in realtà confermano le testimonianze di Dalverzin Tepe, di Wardak, di Šaikhān Ḍherī/Čārsada. A parte questa osservazione, la varietà è di norma. In Battriana, la città kuṣāṇa comprende normalmente una cittadella che occupa in genere un angolo della cinta muraria (Balkh, Qal'a-ye Zal, Dalverzin Tepe). Questa cittadella occupa il centro di Dilberjin, e in genere non esiste a S dell'Hin- dukush, tranne che a Begrām, dove rappresenta un'eredità dei Greci: non se ne hanno le tracce né a Wardak, né a Šaikhān Ḍherī, né a Sirsukh/Taxila. Le fortificazioni più antiche (Surkh Kotal, fondata da Kaniṣka; forse Balkh; Peshawar/Kaniṣkapura non è stata scavata) sono costruite sul modello delle fortificazioni greco-battriane: spesse mura di mattoni crudi, torri quadrate. A S dell'Hindukush, si nota spesso un basamento di pietre squadrate (Sirsukh/Taxila, costruita sotto Kaniṣka ?) o grezze (Wardak, II sec. d.C. ?), una tecnica che era già stata quella della Battriana greca.
La tendenza tuttavia è verso l'alleggerimento. Le mura sono in genere meno spesse delle mura greche, altrimenti sono cave all'interno (mura con galleria interna di Balkh II e Dilberjin). Anche le torri sono cave all'interno (Surkh Kotal, Dilberjin, Wardak, Sirsukh). Compaiono alcune novità tecniche di origine iranica o centroasiatica, quali la torre circolare vuota all'interno (Dilberjin, Wardak, Sirsukh) e soprattutto la copertura con volta e cupola (Dilberjin).
L'urbanistica kuṣāṇa dunque, a giudicare da quanto è suggerito dalla disposizione delle vie e dalle fortificazioni, è anch'essa erede dell'urbanistica greco-battriana, essendo però meno sistematica. All'interno di una stessa fortificazione possiamo incontrare muri pieni e muri a gallerie (Balkh II, Dilberjin); diversi sistemi di copertura o di torri sono utilizzati a seconda delle regioni; diversi sono anche i sistemi di decorazione, talvolta sullo stesso muro (Surkh Kotal).
Il generale alleggerimento e il ricorso a procedimenti costruttivi di origine iranica o centroasiatica (muri a gallerie, volte, torri circolari) permettono di costruire più in fretta e a un costo minore. Ma dovunque l'aspetto è lo stesso: mura con feritoie poco efficaci ma impressionanti; torri possenti molto ravvicinate; cortine merlate. I rilievi greco-buddhistici mostrano spesso fortificazioni di questo tipo.
Noi non conosciamo i monumenti pubblici costruiti all'interno di queste cinte murarie. L'unica testimonianza dell'architettura ufficiale è il tempio A di Surkh Kotal in Battriana. Questo tempio è costruito sulla sommità spianata di una collina alta una cinquantina di metri. È circondato da un'ampia cinta fortificata (82,50 x 170 m) che racchiude la sommità della collina e il suo fianco orientale, privo di costruzioni ma caratterizzato da quattro grandi terrazze digradanti, tagliate lungo il pendio, collegate al centro da una larga scala con gradini di pietra (6,60 m). La sommità piana della collina, all'estremità O di questa cinta che conferiva al santuario l'aspetto di una fortezza, era occupata da una corte porticata. Il tempio propriamente detto si alzava al centro di questa corte, allo sbocco della scalinata. Era un edificio rettangolare di 46,30 x 39,20 m, costruito su un podio di mattoni decorato da un rivestimento in pietra con lesene corinzie. Sul podio vi era una cella quadrata, con un'ampia (6,40 m) apertura verso E, circondata da un corridoio a Π i cui due rami laterali si aprivano a E; tutt'intorno era un peristilio di 40 colonne a base attica e fusto ligneo. All'interno della cella, un'ampia piattaforma di pietre squadrate (4,70 x 4,70 m) era posta al centro, tra quattro grandi basi di colonne che, anch'esse con fusti di legno, sostenevano il tetto.
Questo tempio viene spesso considerato un tempio del fuoco, ma non esistono elementi di conferma a questa supposizione. Bisogna perciò prendere alla lettera la testimonianza delle iscrizioni battriane (in caratteri greci) scoperte sul posto e interpretarlo come un tempio che portava il nome di Kaniṣka ed era dedicato alla Vittoria o alla Vittoria di Kaniṣka. Altre divinità vi avevano ugualmente posto, tra cui quelle indiane Šiva e Pārvatī. Kaniṣka (?) e altri sovrani della dinastia erano rappresentati da statue di pietra poste alle estremità NE e SE del portico. L'analogia di queste statue con le statue di Wima e Kaniṣka scoperte a Māṭ, presso Mathurā, come anche altre affinità, spingono a ritenere che anche il santuario di Māṭ fosse un santuario dinastico. Sfortunatamente questo scavo è stato condotto in modo tale da rendere impossibile un confronto tra la sua pianta e quella del tempio A di Surkh Kotal. Il tempio di Māṭ sembra sia stato un tempio absidale.
Il tempio A di Surkh Kotal è costruito secondo una planimetria che ricorda quella delle grandi abitazioni greco-battriane; un ambiente di rappresentanza circondato da un corridoio che lo separava dai locali di servizio. Ma questa pianta è semplificata. Anche le tecniche costruttive e la decorazione sono di ispirazione greco-battriana: muri di mattoni crudi, portici, peristilio, decorazione in pietra, basi attiche, lesene con capitelli corinzi. Solo che queste tecniche greco-battriane sono utilizzate in modo più economico. La decorazione in pietra è solo un rivestimento, il fusto e i capitelli delle colonne sono in legno. D. Schlumberger vedeva anche un influsso dall'Iran antico nel fatto che si trattava di un tempio del fuoco, con una pianta uguale a quella dei templi del fuoco achemenidi. Questa interpretazione è oggi difficilmente sostenibile, ma si può vedere un consapevole richiamo all'Iran nella decorazione di merli che corre lungo i tetti, sebbene dei merli si trovino in rari casi ad Ai Khānum e, più frequentemente, nella decorazione del palazzo di Khalčayan: in questi casi l'Iran rappresenta tin retaggio di cui non possiamo accertare la consapevolezza. L'aspetto complessivo del tempio non aveva comunque nulla di greco. Si trattava di una fortezza che proteggeva una collina caratterizzata da tagli artificiali sulla cui sommità si alzava un tempio-terrazza, un tipo di architettura per il quale si possono citare numerosi confronti in Iran.
Questo tempio dall'aspetto iranico, dedicato a una divinità dal nome battriano (Oanindo, la Vittoria), era al servizio di una dinastia centroasiatica, fiera di esserlo, e che si faceva ritrarre in un costume, in una posa e in uno stile che non hanno nulla di greco. Le tre statue «reali» sono in effetti delle statue-stele, dal retro appena scolpito, raffiguranti ciascuna un personaggio frontale, stante, immobile, a gambe divaricate, vestito del costume da cavaliere nomade (pantaloni rigonfi, lunga tunica, mantello). Una statua molto simile è stata rinvenuta a Māṭ. Un'iscrizione attesta qui che essa raffigura Kaniṣka. La statua differisce da una di quelle di Surkh Kotal solo per il materiale (calcare a Surkh Kotal, arenaria locale a Mathurā) e per il fatto che il sovrano porta qui le pesanti armi del cavaliere: mazza e spada pesante. Ugualmente la massiccia statua che raffigura Wima Kadphises (?) seduto su un trono di leoni ha probabilmente il suo confronto in una blocco fortemente danneggiato rinvenuto a NE della cella di Surkh Kotal.
Queste raffigurazioni sono estremamente vicine ai ritratti ufficiali del sovrano che compaiono sulle monete. Si tratta dunque di un'arte ufficiale, dinastica. Il suo valore di manifesto politico è dimostrato dal fatto che i donatori kuṣāṇa si fanno ovunque rappresentare con questo costume e spesso in questa posa rigidamente frontale (bassorilievi greco-buddhistici), e che sono stati rinvenuti in numerose località dei frammenti di statue di questo tipo, spesso teste coperte da un lungo cappello a punta (Dalverzin Tepe, Mathurā), che si è tentati di identificare come ritratti di principi o capi kuṣāṇa.
Queste immagini frontali stanti o possentemente sedute richiamano innegabilmente, per il costume, la posa e per il rilievo basso, le opere coeve dell'arte partica. Colpisce particolarmente il confronto con le immagini assise della Commagene. In entrambi i casi si tratta di un'arte erede della tradizione artistica del Mediterraneo ellenizzato, ma che utilizza le tecniche greche non per dare l'illusione della vita, ma per trasmettere un'impressione di potenza immobile (frontalità, posa seduta) e per proclamare che un nuovo potere (nel nostro caso di origine centroasiatica e nomade) ha preso il posto di quello dei coloni greci. Per quanto riguarda i Kuṣāṇa, la monetazione e l'affinità tra le statue di Surkh Kotal e quelle di Māṭ non lasciano dubbi sul fatto che si trattasse di un disegno politico.
Quasi nello stesso momento, 2 km a E di Surkh Kotal, nella piana, si costruiva un piccolo santuario buddhistico, con pareti decorate da lesene con capitelli corinzi. Questo monumento non ha nulla di dinastico. Ma le tecniche sono le stesse che a Surkh Kotal: tecniche costruttive e decorative di origine greca ma semplificate e a volte mal comprese. Ora, la decorazione della piattaforma buddhistica di Surkh Kotal non differisce in nulla dalla decorazione degli edifici buddhistici del Gandhāra. Lo stesso si potrebbe dire anche dei monumenti buddhistici antichi della Battriana, datati in modo meno preciso della piattaforma di Surkh Kotal, quali il monastero di Fayaz Tepe, presso Termez, e le sculture buddhistiche di Termez/Air- tam e Dalverzin Tepe. Le differenze riguardano la fattura e il materiale, non lo stile. L'affinità si estende anche ai dettagli: il rendimento dei capelli mediante riccioli a chiocciola, la tecnica del panneggio, la forma delle pieghe. L'arte ufficiale k. della Battriana (che ha tante affinità con l'arte partica) non ha insomma in India legami solo con le statue «scitiche» di Mathurā: esiste una produzione ben più vicina, l'arte del Gandhāra. L'arte ufficiale k. è un'arte ellenizzata ma adattata a nuovi mezzi tecnici e a nuove necessità, messa al servizio di una volontà politica iranica; l'arte greco-buddhistica del Gandhära è la stessa arte ellenizzata, adattata a nuove necessità e a nuovi mezzi tecnici, messa al servizio di una religione indiana e dei suoi specifici edifici (stūpa, monasteri). La nozione di arte k. permette dunque di spiegare la genesi dell'arte greco-buddhistica del Gandhāra.
Il progresso degli studi negli ultimi trent'anni rende necessaria oggi una precisazione in merito alla tesi di D. Schlumberger. Questa si basava sulla presunzione implicita che la fioritura dell'arte greco-buddhistica fosse posteriore a Kaniṣka e che di conseguenza la sua comparsa fosse di poco anteriore a lui. Questa posizione è oggi difficilmente sostenibile. Una serie di iscrizioni recentemente scoperte indica che si ebbe una proliferazione di fondazioni buddhistiche tra il I sec. a.C. e il I d.C., sotto la protezione di sovrani locali vassalli degli Śaka, cioè vassalli dei rivali dei Kuṣāṇa. L'analisi di Fussman del famoso reliquiario di Bimarān mostra parimenti che l'arte greco-buddhistica era pienamente formata, con la sua decorazione di tipo greco e con la rappresentazione antropomorfica del Buddha, intorno agli inizi della nostra era. L'immagine del Buddha raffigurata sulle monete di Kaniṣka è confrontabile con una statua che si può datare attorno al 50 d.C. sulla base di criteri paleografici. Il Buddha dell'anno 5, detto di Bruxelles, è secondo Fussman una testimonianza delle capacità degli artisti del Gandhāra agli inizi del regno di Kaniṣka: è una scultura così bella che molti studiosi si ingegnano per datarla almeno un secolo più tardi. Infine, si può considerare dimostrato che il c.d. Reliquiario di Kaniṣka, trovato nel grande stūpa di Peshawar ritenuto una fondazione di Kaniṣka, raffigurante un sovrano kuṣāṇa stante e dei Buddha circondati da un festone portato da amorini, con un'iscrizione che ricorda Kaniṣka, sia un'opera minore, un vaso per profumi donato da due privati. Stando così le cose non è possibile affermare semplicemente che l'arte greco-buddhistica del Gandhāra sia un aspetto dell'arte kuṣāṇa.
Le similitudini e i paralleli presentati tuttavia rimangono veri, e la tesi di D. Schlumberger sembra sempre valida. Basta aggiungere che gli Yuezhi non furono gli unici invasori nomadi ad aver incontrato la civiltà e le tecniche greche in Battriana e nel Panjab. I loro contemporanei Śaka e Indo-Parti, che scacciarono i sovrani greci dall'Ovest dell'Afghanistan, dal Gandhāra e dal Panjab, si trovarono di fronte alla stessa situazione culturale. Le popolazioni sedentarie locali avevano ugualmente vissuto, per uno o due secoli a seconda delle aree, a contatto di dominatori la cui cultura era greca e che cercavano di vivere alla greca. Gli effetti del commercio internazionale si facevano sentire tanto, se non più, nel Panjab che in Battriana. Si comprende da tutto ciò l'affinità tra l'arte ufficiale k. e l'arte greco-buddhistica. Nel momento in cui i sovrani kuṣāṇa hanno voluto creare monumenti degni della loro nuova potenza, gli unici mezzi tecnici che avevano a disposizione erano quelli dei loro predecessori greci, a volte mal interpretati, spesso semplificati: i muratori, gli scultori, i pittori, gli incisori che essi impiegavano non conoscevano altre tecniche che queste di origine greca, a volte in parte dimenticate per la mancanza di contatti con il Mediterraneo nel II e nel I sec. a.C., a volte rivitalizzate dall'apporto di artigiani venuti dal mondo romano o dall'imitazione di prodotti nuovamente importati. Nel momento in cui i buddhisti del Gandhāra, in particolare i piccoli sovrani locali autori di numerose fondazioni, vollero dotare di un'arte degna della loro fede i santuari che andavano edificando, le uniche tecniche cui potevano ricorrere erano quelle già in uso alla corte dei sovrani indo-greci, sempre connesse a ideali di raffinatezza, di lusso e di bellezza. In questo senso, in effetti, l'arte greco-buddhistica non è che la variante indiana di un'arte ellenizzata che ritroviamo in Battriana al servizio dei signori iranici, in Iran al servizio dei Parti e dei loro sudditi.
Per quanto riguarda Mathurā, il problema è più complesso. La tesi di D. Schlumberger si basa sulla scoperta delle grandi statue di Wima e di Kaniṣka, e su questo punto è difficilmente confutabile. Ma per le produzioni «private», i confronti sono più incerti: D. Schlumberger ne cita appena sei, che oltre a essere di datazione non certa, rappresentano comunque una percentuale minima nell'ambito della produzione artistica di Mathurā. Ma per lui l'essenziale era questo: «Il fatto degno di nota [è che la tradizione indiana] non sia stata sufficientemente forte da impedire alcuni prestiti dall'arte greca. E soprattutto che essa non abbia potuto opporre resistenza al trionfo della novità essenziale, e che sia Mathurā sia il Gandhāra siano giunti a trattare ormai il Buddha non più come una Presenza ma come una Persona, per riprendere la formula di Sir Mortimer Wheeler» (Schlumberger, 1960, pp. 162-163). Pochi specialisti oserebbero oggi sottoscrivere quest'affermazione relativa all'origine lontanamente greca dell'immagine del Buddha. Quando l'immagine del Buddha fa la sua comparsa a Mathurā a cavallo tra le due ere, è profondamente diversa da quanto si manifesta nel Gandhāra. «Mathurā lo vede come una figura ideale, come Mahāpuruṣa, il Gandhāra come il Buddha in azione e in meditazione» (Härtel, 1985). La creazione dell'immagine del Buddha si comprende solo riferendosi al pensiero indiano, in un contesto di bhakti (devozione personale) profondamente estraneo alla religiosità greca e in un momento di fermento intellettuale che non interessa solo il buddhismo: è ugualmente nel periodo kuṣāṇa che si creano le iconografie indiane classiche di Vāsudeva, di Śiva e di Durgā che uccide il demone-bufalo, immagini che non devono nulla all'arte greca. Nel momento in cui i buddhisti, per ragioni connesse alla naturale evoluzione delle loro concezioni religiose, hanno voluto rappresentare il Buddha, essi hanno fatto ricorso agli artisti disponibili sul posto. Costoro avevano una formazione di tipo indiano a Mathurā, di tipo greco nel Gandhāra. Quanto agli elementi di natura ellenistica nell'arte di Mathurā, credo sia giusto attribuirli all'influenza posteriore (e, sembra, posteriore ai grandi Kuṣāṇa) dell'arte del Gandhāra sull'arte di Mathurā. Questa influenza è stata notevole: l'arte buddhistica di età gupta non si comprende senza di essa; essa è stata resa possibile dalla pax kuṣāṇa e dalla facilità nelle comunicazioni conseguente alla creazione di questo impero. In questo senso i Kuṣāṇa ne sono i responsabili, ma il processo è passato attraverso la mediazione dell'arte del Gandhāra.
Poiché l'arte del Gandhāra e l'arte di Mathurā sono oggetto di singole voci (v.), non è opportuno parlarne qui. Abbiamo ricordato le importanti mutazioni nell'arte di Mathurā in età kuṣāṇa. Per l'arte del Gandhāra la situazione è meno chiara e dipende dalle cronologie adottate. Ma da Begrām (Šotorak) a Taxila passando per Haḍḍa e per lo Swāt, i principali siti dell'arte del Gandhāra sono attivi in età kuṣāṇa.
In Battriana, a parte i siti già ricordati, bisogna citare le grandi abitazioni di Dalverzin Tepe, Dilberjin e forse Saksanokhur (considerata dall'archeologo che l'ha scavata come greco-battriana). Si tratta di edifici che ripropongono la pianta delle grandi case di Ai Khānum: ambiente centrale di rappresentanza, con copertura sorretta da quattro colonne a base attica, preceduto da un portico in antis che si apre su una corte. L'ambiente di rappresentanza è circondato da un corridoio a Π che lo separa dagli ambienti di servizio e dagli ambienti privati disposti dietro di esso e sui lati. I muri sono in mattoni crudi, la decorazione è in parte greca (colonne di legno su basi di pietra, a volte antefisse). Si nota che i grandi proprietari di età kuṣāṇa utilizzarono l'eredità della Battriana greca nello stesso modo dei costruttori di Surkh Kotal.
Conosciamo anche due templi, quello di Dilberjin e quello di Takht-e Sangin. Entrambi hanno una lunga storia. Estremamente scarso è il materiale pubblicato sulla fase kuṣāṇa di Takht-e Sangin. Per quanto riguarda Dilberjin, la situazione è più chiara. Sotto Kaniṣka/Huviṣka il tempio è costituito da una cella centrale, circondata su tre lati da un corridoio; al centro dell'ambiente è un altare in pietra, di riutilizzo, che ricopre dei resti mutili di statua in argilla cruda. La datazione e le stesse piante sono dubbie. Successivamente (III sec.) il tempio di Dilberjin è abbellito da un affresco che raffigura Śiva e Pārvatl. Addossate al tratto Ν dei bastioni della città si alzavano anche otto cappelle decorate da pitture (Śiva, re con corona decorata di corna, donatori). Questa serie di pitture, in cui si nota un progressivo arricchimento della gamma cromatica e della tecnica, riveste un'importanza notevole nella storia dell'arte dell'Asia centrale. Esse sono infatti di molto più antiche di Bāmiyān, contemporanee alle pitture buddhistiche della vicina Kara Tepe/Termez e vicine alle pitture di Balalïk Tepe, che sono pertanto ora databili al III-IV sec. d.C. Esse si trovano perciò al punto di partenza della catena di influenze artistiche, indiane e iraniche, che avrebbe permesso lo sbocciare dell'arte dell'Asia centrale cinese (Xinjiang). Sono evidenti le affinità con i fregi di donatori buddhisti di Qïzïl. La storia della pittura in Asia centrale è ormai da riscrivere.
Abbiamo già citato alcuni siti buddhistici (Surkh Kotal, Dalverzin Tepe, Kara Tepe, Airtam). Bisogna aggiungere Zar Tepe, che ha restituito alcune teste di Buddha probabilmente assai tarde e, soprattutto, soffermarsi su Kara Tepe (v.). Kara Tepe si trova nella vecchia Termez, sulla riva destra dell'Oxus, non lontano dal monastero di Fayaz Tepe. Quest'ultimo, dalla pianta molto classica, ha restituito sculture di grande bellezza, di cui si ignora la data poiché lo scavo non è ancora stato pubblicato. Kara Tepe è un sito composto di almeno cinque complessi semi-sotterranei, cioè di corridoi scavati in una collina e di edifici costruiti all'aperto all'uscita di questi corridoi. La funzione cultuale di questo complesso è sicura, ma non si vede dove potessero alloggiare i monaci, e non è impossibile che Kara Tepe fosse una dipendenza del monastero di Fayaz Tepe. La datazione si basa' su indizi cronologici poco numerosi, ma si può accettare senza difficoltà: epoca dei grandi Kuṣāṇa, da Kaniṣka a Vāsudeva almeno. L'archeologo che vi ha scavato ritiene che si tratti di una fondazione imperiale, ma le sue argomentazioni non sono accettabili. I ritrovamenti sono numericamente esigui ma importanti: frammenti di sculture, soprattutto capitelli corinzi con raffigurazioni animali e pitture. Kara Tepe è pertanto il complesso sotterraneo più antico che si conosca in Asia centrale e di gran lunga quello meglio studiato. È di poco posteriore (uno o due secoli) alle grotte del Maharashtra (Kārlī, Bhājā) e costituisce pertanto un momento essenziale per comprendere l'avanzata di questa tecnica verso l'Asia centrale, dove essa riscosse il successo che conosciamo. Le pitture di Kara Tepe sono incontestabilmente le pitture più antiche che si conoscano in Asia centrale e aiutano a comprendere il sorgere di quest'arte nel Xinjiang.
I successori di Alessandro, fieri della loro cultura greca, avevano voluto ricreare in Battriana certamente, nell'India del Nord-Ovest probabilmente, una civiltà il più vicino possibile a quella in cui erano stati educati e con la quale continuavano ad avere legami ininterrotti. Vi erano in gran parte riusciti, al prezzo di alcuni adattamenti (uso di materiali locali, tornitura delle basi di colonna, ecc.). La lunga durata della loro dominazione e la superiorità delle loro tecniche avevano fatto sì che l'aspetto materiale della loro cultura fosse dominante: le produzioni artistiche di lusso dovevano essere greche, i loro fruitori erano greci e vivevano alla greca. Quando il potere politico greco scomparve da queste regioni, i successori dei Greci, nomadi non abituati alla vita sedentaria o popolazioni indigene «liberate», avevano a disposizione unicamente artigiani di formazione greca. Essi stessi d'altronde riconoscevano il valore delle tecniche greche. E dunque del tutto normale che l'arte destinata a questa nuova clientela abbia continuato a utilizzare le ricette dell'arte greca. Ma lo spirito di quest'arte era ben diverso. Non si trattava più di un'arte di lusso al servizio di coloni più o meno sradicati o nostalgici. Si trattava di un'arte nazionale, destinata, secondo il luogo e le circostanze, a esprimere dei valori iranici e centroasiatici o indiani. Ciò fece nascere un'arte del tutto originale, capace al pari dell'arte greca di produrre incontestabili opere d'arte. E alla sua influenza che dobbiamo l'arte buddhistica indiana di epoca gupta e l'arte buddhistica dell'Asia centrale. In questo senso l'arte del buddhismo è anche essa una discendente non mediterranea, molto lontana, dell'arte greca e una discendente diretta dell'arte kuṣāṇa.
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