ARRIGO da Settimello
Di questo notevole poeta non si sa nulla di certo, se non che scrisse la sua famosa Elegia nel 1193, e che, chierico d'umile origine ma d'ottimi studî, dopo aver goduto onori ed agi, aveva tutto perduto per colpa del vescovo di Firenze, ed era caduto nell'afflizione e nella miseria. Fu appunto questo improvviso rivolgimento di fortuna che gl'ispirò l'Elegia, unica opera sua che ci sia giunta. È un poema latino di 1000 versi, o meglio di 500 distici elegiaci, ripartiti in 4 libri di egual lunghezza: i due primi dedicati alla traditrice fortuna, i due ultimi alla consolatrice filosofia, le quali vi assumono entrambe aspetto e carattere di persona. È il poema di un dotto che, pur obbedendo a un'ispirazione originale, non perde di vista i libri della venerata antichità e specialmente le elegie dell'esilio di Ovidio e il De consolatione philosophiae di Boezio. La sua cultura decisamente classicheggiante appare anche dagl'innumerevoli accenni che il poema contiene a fatti e a personaggi del mondo classico, mentre i ricordi biblici sono assai rari. Dal chiuso e ristretto mondo di idee e di espressioni, ove stagnava da secoli la poesia italiana, Arrigo esce arditamente, attratto dal mirabile moto intellettuale, filosofico insieme ed artistico, che agitava allora la Francia. Si sente ch'egli ne ha letto e studiato i più famosi poeti latini, che si è appropriato la loro tecnica poetica (imitandone talora, e perfino accentuandone certe stravaganze stilistiche e linguistiche), che ha imparato da loro a interessarsi ai problemi filosofici. Italiano, s'occupa principalmente dei problemi morali; ma, per risolverli, egli, che pur mostra di non essere irreligioso, evita di far appello alla religione. Contro gli insulti della fortuna, altri additavano un rifugio nella speranza di una vita oltreterrena: Arrigo pensa che la filosofia può dare all'uomo la coscienza della sua autonomia morale; con che addita anche in terra un mondo dove la fortuna non può spadroneggiare: il libero spirito umano. Questo pensiero, benché oscurato da incertezze e talora da contraddizioni, fa di Arrigo, in certo modo, un precursore del nostro Rinascimento. Ed egli appare tale anche per la consapevole e risoluta soggettività della sua poesia, che tutto accentra nella persona del poeta, che spia vigile i moti del suo cuore e ne rappresenta quanto più può vivacemente le manifestazioni esteriori. Grande fu la diffusione dell'Elegia, in Italia ed oltralpe, per oltre due secoli. Letta e studiata nelle scuole, l'autore era chiamato famigliarmente "il povero Arrigo" anzi "Arrighetto"; e l'Elegia stessa era detta l'Arrighetto. Qualche eco dei suoi versi si sente in parecchi scrittori (e talora anche in Dante). Se ne hanno due buoni volgarizzamenti in prosa italiana d'ignoti autori trecenteschi.
Bibl.: Henrici Septimellensis, Elegia - sive de miseria -, ed. A. Marigo, Padova 1926; E. Bonaventura, Arr. da S. e l'El. de diversitate fortunae et philosophiae consolatione, in Studi medievali, IV, p. 110 segg.; A. Monteverdi, Un poeta italiano del sec. XII, in Riv. d'Italia, XVIII (1925), p. 985 segg.