ARA (umbro, osco, latino arc. asa; lat. class. ara)
La parola va connessa, secondo l'ipotesi più probabile, con areo, "ardo, brucio": essa indica quindi il luogo ove il sacrifizio era compiuto per mezzo del fuoco; da questo significato passò poi per estensione a quello di ogni luogo destinato ai sacrifizî. Alcuni invece connettono la parola al greco ἀείρω "innalzo"; quindi essa indicherebbe un luogo elevato. Tardi scrittori latini (Serv., ad Aen., II, 515; Serv., ad Ecl., V, 66) affermano che l'ara era destinata alle divinità infere, mentre l'altare (altaria) a quelle superne; ma né l'uso letterario né quello epigrafico confermano la distinzione. Più comunemente però s'incontra ara in latino per indicare i grandi altari dedicati agli dei, e in senso più ampio la parola fu usata per ogni monumento commemorativo notevole (Cicer., Phil., XIV, 13). Né tra i due termini vi ha distinzione per la forma: come l'altare, l'ara era di pietra o di metallo (ara aerea o aenea) e perfino di zolle di terreno (arae cespiticiae o gramineae). Similmente l'altare della tomba è detto ara e con questa denominazione fu indicato pure il cippo (v. cippo) o l'urna, racchiudente le ceneri e talvolta il rogo, ma solo nell'uso poetico (ad es. Verg., Aen., VI, 177). Spesso anche le tombe monumentali derivarono forma e nome dall'ara (Suet., Nero, cap. 50); di questo tipo è, ad esempio, il sepolcro di Naevoleia Tyche a Pompei.
Per la forma ed evoluzione dell'ara v. altare.
Bibl.: E. Reisch, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss., II, Stoccarda 1896, col. 338 seg.