APOSTASIA
. Nella lingua greca, apostasia (forma classica ἀπόστασις, forma posteriore ἀποστατσία: da αϕίστημι "metto, mi metto lontano, in disparte") ha senso puramente materiale ("distanza, allontanamento") o politico ("defezione da un'alleanza ribellione"). Sono stati i Giudei ellenisti i primi ad adoperarla in senso religioso, per significare, cioè, la defezione d'Israele e dei singoli Israeliti dalla alleanza con Jahvè, che è quanto dire dalla religione jahvista (II Maccabei, II, 15; Atti, XXI, 21; cfr. i Settanta, in Giosuè, XXII, 22; Geremia, II, 19; II Cronache, XXIX, 19); di qui poi è derivato il valore usuale di "abbandono deliberato di una religione per un'altra, ove è implicita una certa qual nota di biasimo dal punto di vista della religione abbandonata. Il senso politico del resto spesso va congiunto nell'idea di apostasia col religioso, in ispecie nelle religioni nazionali, dove religione e stato coincidono: onde la ribellione contro la prima è pure ribellione contro il secondo e viceversa.
Così era presso gli Ebrei, pei quali Jahvè era insieme dio e reì onde era rigorosamente vietato, sotto pene civili - non esclusa quella di morte (Deuteronomio, XIII, 6-11) - di adorare, sia pure insieme con Jahvè, qualsiasi dio forestiero, come pure di prestare il culto a Jahvè sotto forme straniere, quali quelle che nella Palestina erano in uso per le divinità campestri dei Cananei. Un tal culto, anche se esteriormente rispettava la supremazia di Jahvè, era dai profeti considerato come una ribellione verso di lui e una defezione dalla propria nazionalità; e perciò condannato come un adulterio (Levitico, XVII, 7; Deut., XXXI, 16; Giudici, II, 17), quasi fosse cioè un compromesso vergognoso, che pretendeva di associare la devozione di Jahvè a quella degl'idoli, per poter godere insieme dei vantaggi provenienti da entrambe. Solo quando il giudaismo diventò, dopo la cattività di Babilonia, una chiesa con tendenze universali, e spiegò una larga propaganda a favore del monoteismo e contro il politeismo delle altre nazioni, l'idea di apostasia acquistò un senso esclusivamente religioso; sebbene anche allora, per l'importanza attribuita alla Legge come "siepe protettrice" del monoteismo, si equiparasse all'apostasia da Dio l'apostasia da Mosé (cfr. l'accusa fatta a S. Paolo, in Atti, XXI, 21), essendo compresa sotto questa denominazione non solo l'omissione della circoncisione, ma anche qualsiasi atto di culto estraneo al rituale prescritto (cfr. Giosuè, XXII, 21-29), e perfino l'adozione di costumi civili e d'istituzioni culturali proprie dei Greci e di altri popoli gentili.
Per i molti casi di apostasia che si ebbero, specialmente in occasione della persecuzione di Antioco IV Epifane, si formò nell'apocalittica giudaica l'idea di un'apostasia universale alla fine del mondo, come preludio alla venuta dell'Anticristo: l'ultima lotta cioè della religione falsa contro la vera sarebbe stata guidata da uomini provenienti, per apostasia, dal seno stesso del giudaismo (cfr. II Tessalonicesi, II, 3 seg.; Matteo, XXIV, 10-12).
Aquila traduce con "apostasia" Belial, termine che nell'Antico Testamento non ha sempre un chiaro e certo significato. Quanto alla sentenza che attribuisce ad apostasia in II Tess. un senso politico (come in scrittori contemporanei, Plutarco e Giuseppe Flavio), v. E. Buonaiuti, in Saggi sul Cristianesimo primitivo, Roma 1924, p. 20 segg.; cfr. A. Pincherle, Gli oracoli sibillini giudaici, Roma 1922, p. 6 segg.
Più ancora che nell'ebraismo, l'aspetto politico dell'apostasia ebbe prevalenza nelle religioni nazionali del paganesimo greco-romano: esse, per lo stesso loro politeismo, erano proclivi a concedere la massima libertà nella scelta del nume da adorare e del modo di adorarlo, ma lo stato interveniva a limitare tale libertà, nell'interesse dell'ordine pubblico e del rispetto dovuto alla divinità nazionale. Questo spiega come Socrate fosse condannato per ateismo, cioè perché reo di avere scosso con la sua filosofia la fede dei cittadini negli dei della città. Da questa medesima idea era animata la politica religiosa dell'Impero romano, il quale concesse largamente ai suoi sudditi di aderire alle religioni più diverse, tranne quelle che, come il culto di Iside, potevano rappresentare - sia pure momentaneamente - un pericolo per la politica estera, e più ancora quelle che, come il giudaismo e il cristianesimo, si opponevano per principio al politeismo statale e si proponevano di rinnovare i principî fondamentali della vita sociale. E perciò, se il giudaismo fu tollerato e perfino privilegiato come religione nazionale della gente giudaica, ai cittadini romani ordinariamente non fu consentito di abbracciarlo; e molto meno fu loro permesso di abbandonare la religione pagana per il cristianesimo, considerandosi questo passaggio come un'apostasia (sebbene ancora il termine non fosse in uso) dalla romanità, e passibile perciò delle stesse pene che erano stabilite per la laesa maiestas. La quale condizione terminò con Costantino, che proclamò il cristianesimo libero a tutti, e che anzi l'equiparò nei privilegi civili al paganesimo; ma con ciò stesso lo rese, come questo, soggetto - almeno per le cose esterne e quindi indirettamente anche per le interne - all'autorità imperiale, e così l'attrasse nell'orbita dello stato. Anzi, con l'andare del tempo, divenuto l'impero per la massima parte cristiano, decaduta la religione pagana dai suoi diritti, solo la cristiana rimase religione di stato, resa obbligatoria per tutti i sudditi nell'anno 380 dagli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio (Cod. Theod., XVI, 1,2); allora, per un completo rivolgimento politico-religioso, l'apostasia dal cristianesimo per necessità importò, anche se seguita da pentimento, l'esclusione dal civile consorzio, la perdita quindi della factio testamenti, come pure delle cariche e degli onori antecedentemente goduti (Cod. Theod., XVI, 7,4; 5).
Frattanto nel seno stesso della Chiesa cristiana, fin dai primi tempi, quando la fede era esposta all'accusa di apostasia non solo dalla religione ma anche dallo stato romano, in opposizione a questa idea politico-religiosa, era sorta quella di apostasia in ristretto senso religioso cioè come pura apostasia dalla fede cristiana, da punirsi con mezzi religiosi, soprattutto con l'esclusione dal culto divino. Giacché non era raro il caso che alcuni per timore rinnegassero il cristianesimo, come riferiva Plinio il giovine, proconsole di Bitinia, a Traiano: "hi quoque omnes et imaginem tuam deorumque simulacra venerati sunt et Christo maledixerunt" (Ep. X, 96). Ma poi, passata la persecuzione, molti tornavano e chiedevano di essere riammessi nella Chiesa. Ciò fece sorgere la questione della possibilità di perdonare coloro che avevano apostatato (i cosiddetti lapsi); e impose alla Chiesa il problema della disciplina penitenziale. A Cartagine, S. Cipriano alla metà del terzo secolo non esitò a riaccogliere i lapsi; e questa prassi si diffuse sempre più, specie dopo la pace concessa da Costantino alla Chiesa. Appena un anno dopo l'editto di Milano, il concilio di Ancira stabiliva 20 anni di penitenza per la riammissione degli apostati (can. 9); il concilio di Nicea nel 325 li riduceva a 17 (can. 11); e nel 397 il concilio di Cartagine sentenziava in generale che "apostaticis conversis vel reversis ad Dominum gratia vel reconciliatio non negetur": ben diversamente dal rigorismo imperiale, quale appare dalla dichiarazione del codice teodosiano (XVI, 7,4) che cioè ai battezzati rinnegati "nullo remedio poenitentiae, quae solet aliis criminibus prodesse, succurritur".
Queste due diverse tendenze, l'una propria della Chiesa di considerare l'apostasia (abbandono esplicito o implicito ma totale - diversamente dalla eresia [v.], abbandono parziale - della fede) come colpa religiosa da punire con mezzi religiosi (la scomunica maggiore con tutte le sue conseguenze), e l'altra propria dello stato, e in ispecie dei diversi stati succeduti all'Impero romano, di considerarla come un delitto politico da punire e reprimere con mezzi politici, si sono protratte per tutto il Medioevo; quando, non più la ricaduta dei fedeli nel seno del paganesimo, ma era tuttavia da temere il ritorno dei giudei fatti cristiani al giudaismo, e soprattutto, in alcuni paesi - come la Spagna - la caduta dei fedeli nell'islamismo, allettati dai grandi vantaggi temporali che loro ne venivano. Per questo appunto nacque in Spagna l'Inquisizione per opera dei governi civili, non senza però il consenso della Chiesa, la quale poté conciliare i suoi principî riguardo all'apostasia con quelli dello stato, per mezzo della teoria che ad essa sola spetta l'infliggere le pene spirituali, ma per il resto, l'apostata doveva essere consegnato all'autorità e al braccio secolare.
Bibl.: Foakes-Jackson e Juynboll, in Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics, I, Edimburgo 1908, p. 623 segg.; Beugnet, in Dict. de théol. cathol., 3ª ed., I, ii, Parigi 1923, col. 1602 segg.