APELLE ('Απέλλης; Apelles)
Insieme con Protogene, fu uno dei due più grandi pittori del sec. IV a. C. e a detta di Plinio (Nat. hist., XXXV, 79) egli superò tutti quelli che lo avevano preceduto e tutti quelli che vennero dopo di lui. Con Apelle giunse al suo culmine la pittura ionica. Era figlio di Pitea e fu fratello di Ctesiloco, anche egli pittore (Suida, s. v. 'Απέλλης). Era nato a Colofone, ma le sue lunghe dimore in Efeso e Coo lo hanno fatto considerare appartenente all'una o all'altra città: efesio lo dicono Strabone (XIV, 642) e Luciano (Calumn. non tem. cred., 2), coo lo dicono Ovidio (Ars amandi, III, 401) e Plinio (XXXV, 79). La data della 112ª olimpiade (332-329 a. C.), che Plinio ci dà come apice del fiorire della sua arte, deve indicare l'epoca in cui egli entrò in rapporti d'amicizia con Alessandro il Grande, di cui divenne il ritrattista aulico, come fu Lisippo per la scultura e Pirgotele per l'incisione in gemme (Plin., VII, 125). E poiché, anche se questo è testimoniato con una notizia generica (Plinio, XXXV, 93), egli avrebbe fatto dei ritratti di Filippo e d'altra parte ebbe rapporti con i successori di Alessandro, con Tolomeo e con Antigono, può a un di presso porsi la sua nascita verso il 370 a. C. e la sua morte verso la fine del sec. IV a. C. Questa cronologia può andare d'accordo con l'altra notizia che A., dopo essere stato dapprima allievo di Eforo di Efeso, fu poi allievo di Panfilo di Anfipoli (Suida, s. v.): fu questi un pittore della prima metà del IV secolo a. C. appartenente alla scuola sicionia. Là egli avrebbe collaborato con Melanzio, altro allievo di Panfilo, ad un quadro di Aristrato (Plut., Arat., 13). La tradizione voleva (Plin., XXXV, 76) che A. avesse pagato al suo maestro l'alta mercede che questi richiedeva e che era di un talento all'anno (circa lire 20.000 odierne). Un'altra conferma per la cronologia di A. si ha nei rapporti d'ammirazione e d'amicizia che lo legarono a Protogene, la cui attività si prolungò sino alla fine del sec. IV a. C. e forse oltre. Un'ultima conferma infine si ha nei rapporti che ebbe col pittore Antifilo d'Egitto, che cercò di calunniarlo presso il re Tolomeo accusandolo di aver partecipato ad una congiura contro di lui: A. smascherò l'invidioso rivale e si vendicò dipingendo il famoso quadro della Calunnia (Luciano, Calumn. non tem. cred., 2).
La tradizione antica ci ha conservato molti aneddoti sull'eccellente carattere di A. Di lui si elogiava la modestia, perché egli riconosceva di essere inferiore a Melanzio nella distribuzione delle figure e ad Asclepiodoro, altro pittore suo contemporaneo, cedeva nelle proporzioni (Plin., XXXV, 80). Che egli amasse ascoltare le critiche degli altri, ma dentro i limiti della loro competenza, lo prova l'episodio assai noto del ciabattino (Plin., XXXV, 84 s.). I suoi quadri, quando li aveva finiti, egli aveva l'abitudine di esporli in un balcone e, nascosto al di dietro, di ascoltare quali errori vi trovassero i passanti, considerando il popolo giudice più attento di sé stesso: egli corresse così una volta in un suo quadro un errore nella forma dei sandali rimproveratogli da un ciabattino, ma avendo questi il giorno dopo, insuperbito dal successo, cominciato a criticare la gamba, allora il pittore indignato cavò fuori la testa di dietro il quadro per avvertire il suo critico che il ciabattino non deve giudicare al disopra della scarpa (ne supra crepidam sutor). In cambio si conoscono tratti dell'indulgente giovialità con cui giudicava delle opere degli altri. Una volta vedendo uno dei suoi allievi che dipingeva Elena, con l'epiteto che Omero dà a Micene "πολύχρυσος", cioè dal molto oro: "Figliuolo, gli disse, non avendola potuta dipingere bella l'hai fatta ricca" (Clem. Alex., Paedag., II, 125). E a un pittore sollecito, che mostrandogli un suo quadro, gli diceva: "L'ho dipinto proprio ora", A. rispose: "Anche se tu non me lo dici lo vedo che è dipinto alla svelta, ma mi meraviglio che, fatti così, tu non ne dipinga di più" (Plut., de educ. pueror., 9). Si voleva che questa cortesia faceta gli avesse acquistato tale ascendente su Alessandro, il cui animo pure era pronto all'ira, che quando, nelle visite al suo studio, avveniva a questi di mettersi a parlare di cose di cui non si intendeva, allora A. gentilmente induceva il re a tacere, accennandogli che ridevano di lui i ragazzi che macinavano i colori (Plin., XXXV, 85). È vero che lo stesso tratto si attribuiva ad A. in rapporto al Megabyzos, cioè al gran sacerdote di Artemide Efesia (Plut., de tranquill. animi, 12; quomodo adul. ab amico internosc., 15) e che un'altra fonte (Aelian., Var. histor., II, 2) lo attribuisce a Zeusi egualmente nei suoi rapporti col Megabyzos. Allo stesso ordine di storielle di cui l'antichità amò abbellire la vita dei pittori per definirne il carattere o elogiarne l'arte si deve l'altra per cui, non avendo Alessandro lodato secondo il merito un ritratto che A. avrebbe dipinto di lui in Efeso, ed essendo stato invece condotto dinanzi al quadro un cavallo ed avendo questi annitrito al cavallo dipinto come se fosse vero, A. avrebbe detto: "O re, il cavallo sembra essere di gran lunga più intenditore d'arte di te" (Aelian., Varia hist., II, 3). È vero che altrove (Plin., XXXV, 95) è ricordato senza rapporto alcuno con Alessandro questo giudizio sull'eccellenza del cavallo dipinto che A. chiede ai cavalli vivi, e forse l'aneddoto è stato creato per quel famoso cavallo rappresentato in battaglia, a cui A. avrebbe dato il magnifico effetto della schiuma alla bocca gettandovi contro la spugna intrisa dei vari colori (Dio Chrysost., Orat., 63, 4).
La pittura di A. è andata per intero perduta. Vani sono i tentativi di rintracciarne l'immagine in opere dell'arte industriale contemporanee o più tarde, cioè in pitture vascolari del sec. IV a. C. o in pitture parietali di età romana. Quindi solo agli scarsi accenni delle sue opere nella letteratura antica si può chiedere un qualche indizio sulla natura della sua arte.
Dal suo sistema di lavoro erano nati due proverbi nell'antichità. Egli si impose la costante abitudine, per tenersi in esercizio nell'arte, di non lasciar passare un giorno, anche che fosse il più occupato, senza tirare una linea (Plin., XXXV, 84): nulla dies sine linea. In confronto di Protogene, che non mai soddisfatto dipingeva e ridipingeva i suoi quadri, tanto che impiegò sette interi anni, secondo altri undici anni, a ridipingere per quattro volte la sua famosa immagine di Jaliso, A. affermava che Protogene in tutte le qualità gli era eguale o anche superiore, che tuttavia egli lo superava in questo, che sapeva arrestare a tempo il lavoro (manum de tabula), perché spesso l'eccesso di diligenza nuoce (Plinio, XXXV, 80). Difatti dinanzi allo Jaliso di Protogene A. rimase da principio senza parola, tanto gli apparve meravigliosa l'opera e grandissima la fatica; peraltro, ripresosi, aggiunse che ad essa mancava la grazia: era questa la qualità in cui egli si riconosceva superiore ad ogni altro (Plin., XXXV, 79).
La testimonianza che A. non lasciava passare giorno senza tirare una linea si aggiunge ad altre per mostrare il contributo che egli deve aver portato alla ricerca dell'effetto nella delineazione delle figure. Già nel sec. V a. C., quando la pittura greca era giunta a conquistare con lo scorcio e con il chiaroscuro i mezzi illusivi della rappresentazione corporea, era cominciato con Zeusi e con Parrasio tutto un lavorìo intorno alla linea per toglierle spessore, cioè per trarre da essa il massimo dell'illusione corporea. In verità la linea non esiste in natura come delimitazione dei corpi perché i corpi sono superficie, non linee: essa è un'astrazione ed un'irrealtà che l'arte doveva vincere se voleva raggiungere la perfetta corporeità della superficie. Infatti a commento del giudizio antico per cui Parrasio avrebbe ottenuto la palma su Zeusi "in liniis extremis", Plinio (XXXV, 67 s.) aggiunge che: "questa è la massima sottigliezza della pittura, perché rendere il contorno estremo delle figure e includere in esso la misura di quanto la pittura tralascia è cosa che raramente succede all'arte di poter raggiungere. Infatti la delineazione esterna della figura deve girare intorno a sé stessa e terminare in modo da promettere altro al di là di sé stessa, anzi da mostrare anche quel che nasconde". Ora il valore grande attribuito alla sottigliezza della linea come mezzo indispensabile per distruggere la linea stessa si coglie nell'aneddoto della gara tra A. e Protogene (Plin., XXXV, 81): il primo, recandosi a Rodi nello studio del secondo mentre questi era assente, tirò col pennello attraverso una grande tavola, che Protogene aveva apprestato per una pittura, una linea oltre modo sottile e più tardi spaccò per mezzo la linea ancora più sottile con cui Protogene aveva spaccato la sua. Al lume dell'abilità messa in luce da questo aneddoto si comprende non soltanto con quale mezzo A. (Plinio, XXXV, 90) nel suo ritratto di scorcio del re Antigono, ch'era guercio, avesse nascosto tale deformità, facendo apparire che mancava alla pittura quello che invece mancava al corpo reale, ma deve considerarsi soprattutto riferito alla sua arte, cioè all'ultima opera di lui ch'egli menziona, il giudizio di Petronio (Satyr., 84), secondo il quale l'estrema delineazione delle figure per la sua grande sottigliezza era talmente vicina per precisione alla somiglianza, che si poteva credere che fosse stata dipinta dei corpi anche la loro animazione.
Con altrettanta abilità che la linea, A. deve aver maneggiato il chiaroscuro a cui egualmente la pittura del sec. IV a. C. diede grande importanza per riuscire a rendere il volume e l'emergenza. Effetti mirabili infatti deve aver raggiunto in questo campo se del suo Alessandro col fulmine, che si trovava nel tempio di Artemide in Efeso, si è sentito il bisogno di ricordare (Plin., XXXV, 92) che le dita e il fulmine sembravano sporgere fuori del quadro, e se nell'Eracle che si trovava in Roma e che veniva a lui attribuito (Plin., XXXV, 94) pareva aver vinto una grande difficoltà dipingendolo voltato, giacché aveva fatto sì che la pittura mostrasse del suo viso più di quanto essa promettesse.
Nelle fonti antiche tre volte abbiamo accenni di colore per l'arte di A. La prima è quando Cicerone (de nat. deor., I, 27,75), per far cogliere la differenza che v'è tra le cose reali e le similitudini delle cose che la dottrina epicurea concepiva esistenti nella sua divinità, porta ad esempio l'Afrodite Anadiomene di A. e dice ch'essa non è corpo ma similitudine di corpo, e che quello che vi è fuso e misto al suo candore non è "vigoria di sangue", ma una similitudine di sangue. La seconda è quando Luciano (Imag., 7) dice che il corpo di Panthea, suo esemplare di bellezza, dovrà essere come quello di Pancaspe, non troppo bianco ma semplicemente avvivato dal sangue. Era ella stata una concubina di Alessandro che questi, ammirato della sua bellezza, aveva ordinato ad A. di dipingere nuda e di cui A. si era innamorato durante il lavoro, tanto che Alessandro si era indotto a donargliela (Plinio, XXXV, 86). La terza è quando Plutarco (Alex., 4) ricorda che A. nell'Alessandro col fulmine non aveva imitato il colore della pelle del re macedone che era bianco, ma l'aveva fatto bruno e più acceso. Tuttavia non mai sapremo sulla base di queste notizie quale fosse l'incarnato che A. dava al corpo della femmina e quale l'abbronzato con cui correggeva il pallore del maschio.
Così anche rimaniamo all'oscuro su due altri elementi della sua arte, sul ritmo di posa e sulle proporzioni che dava alle sue figure. Certo sentendo tanto lodato il suo Alessandro col fulmine, che si diceva inimitabile, come l'Alessandro generato da Filippo era invincibile (Plut., de Alex. M. s. virt. s. fort., 2), sarebbe di grande interesse il conoscere se A. avesse là gareggiato con l'Alessandro di Lisippo anche per il ritmo, che dovette essere elemento così integrante nell'espressione di quella statua. D'altra parte dobbiamo ritenere che il sistema delle proporzioni per la figura umana, che nel secolo IV a. C. era forse divenuto teoria arida, da molti studiata ma non capace di vivificare l'arte, non dovette essere uno degli elementi originali della pittura di Apelle se egli, come abbiamo ricordato, nella semplicità del suo carattere poteva dichiarare che per le proporzioni (Plin., XXXV, 107) la cedeva ad Asclepiodoro, il quale delle proporzioni aveva scritto, ma che dell'arte sua aveva lasciato modesto ricordo. E sebbene anche A. avesse scritto della sua arte, forse sotto forma di ammaestramento al suo discepolo Perseo (Plin., XXXV, 79, 111), non si sa se ne avesse scritto teoreticamente e a quale aspetto dell'arte avesse rivolto in modo particolare la sua attenzione.
A definire l'arte di A. è opportuno ricordare anche quanto si può desumere sull'uso ch'egli fece del modello vivente. La tradizione non è concorde sul modello di cui si valse per la sua famosa Afrodite Anadiomene, che si trovava nel santuario di Asclepio in Coo e che poi Augusto, compensandone gli abitanti dell'isola con l'abbuono di un tributo di cento talenti che dovevano pagare, collocò nel tempio di Cesare in Roma. Secondo Ateneo (XIII, 590) A. avrebbe tratto il modello di essa da Frine, l'etèra amata da Prassitele, che avrebbe servito anche allo scultore ateniese come modello dell'Afrodite Cnidia. L'accenno di Ateneo per altro può far sorgere il dubbio che Apelle avesse avuto da Frine solo il motivo della sua Afrodite Anadiomene: nelle grandi feste eleusinie e nelle poseidonie, Frine, in cospetto di tutti i Greci, deponendo le vesti e sciogliendo le chiome, scendeva nel mare. Fuori del mare e in atto di strizzare gli umidi capelli per liberarli della spuma marina A. aveva rappresentato la sua Afrodite. Può quindi non contraddire a questa l'altra notizia conservata da Plinio (XXXV, 86) che A. avesse preso a modello dell'Afrodite Anadiomene la sua amante Pancaspe, la cui immagine nuda, egualmente dipinta da lui, fu già menzionata. Del resto ad indicare quale posto abbiano rappresentato le etere nella vita di A., anche se nella menzione conservata delle sue opere non vi è certezza di altre figure femminili nude, vale pure il ricordo che fu egli ad iniziare ai misteri di amore Laide, da lui incontrata ancora fanciulla mentre attingeva acqua in Corinto alla fonte Pirene (Athen., XIII, 588 C).
Infine, per quanto riguarda la tecnica pittorica usata da A. le fonti antiche ci fanno sapere che egli adoperava ancora solo quattro colori, come i pittori del sec. V a. C.: il bianco, il giallo, il rosso e il nero (Plin., XXXV, 50, 92), ma ne sapeva trarre effetti di grande perfezione (Cic., Brut., 18, 70). Ci fanno sapere anche che egli traeva dall'avorio bruciato un nero particolare che si chiamava elefantino" (Plin., XXXV, 42), e che le sue invenzioni tecniche giovarono anche agli altri, ma che in una sola cosa nessuno poté imitarlo, cioè nell'uso di una sottilissima spalmatura di nero trasparente che egli dava alla superficie del quadro, quando lo aveva condotto a termine, e che mentre la salvava dalla polvere e dal sudiciume, spegneva il brillante eccessivo dei colori, come se essi fossero veduti attraverso una superficie vitrea, e quindi, guardati di lontano, la loro vivezza si abbassava a un tono più austero (Plin., XXXV, 97). C'è per altro da domandarsi se a questo eccesso di manipolazione del colore o ad altra causa si dovesse il deterioramento della parte inferiore della sua Afrodite Anadiomene (Plin., XXXV, 91). Secondo una tradizione non si trovò nessuno che osasse ridipingere la parte perduta e, essendo andato distrutto il legno per la vecchiaia, Nerone sostituì la pittura con un'altra, opera di Doroteo; invece secondo un'altra tradizione Vespasiano (Svet., Vesp., 18) compensò lautamente colui che restaurò il prezioso dipinto.
Avendo raccolto dalle fonti antiche tutto quello che di essenziale hanno tramandato sulla linea, sul chiaroscuro, sul colore, sul ritmo di posizione, sulle proporzioni, sull'uso del modello e sulla tecnica della pittura di A., se ne può ora afferrare il carattere generale, osservando la natura dei soggetti ch'egli trattò e che, per il fatto stesso che ne è stata conservata menzione letteraria, si debbono considerare i più originali e i più significativi per la sua arte.
L'opera sua maggiore o almeno quella che prima sorgeva alla mente col suo nome, era l'Afrodite Anadiomene. Sulla sua bellezza hanno ricamato versi squisiti i poeti dell'Antologia Planudea (IV, 178 segg.), e su essa più volte è tornato Ovidio, il poeta dell'amore (ex Ponto, IV, 1, 29 seg.; Amor., I, 14, 35 segg.; Ars am., III, 401 seg.), ma nulla sappiamo di sicuro sul suo aspetto, salvo il gesto già ricordato delle mani che strizzavano gli umidi capelli. Per questo si è in dubbio se la dea fosse stata rappresentata completamente emersa o solo emergente con la parte superiore del corpo, come farebbe pensare qualche accenno descrittivo (Ovid., Trist., II, 527). Una seconda Afrodite, compiuta nella testa e nella sommità del petto, ma rimasta interrotta in tutto il resto a causa della morte di A. (Cic., Ep. adfam., I, 9, 15; de off., III, 2, 10; Plin., XXXV, 92, 145), mostra che egli tornò con predilezione su questo soggetto.
La sua Pancaspe, egualmente nuda, l'abbiamo già ricordata. Non sappiamo quante nudità o seminudità egli avesse distribuito nel quadro di Artemide tra le sue vergini compagne, che gl'intenditori d'arte preferivano ad ogni altra sua opera (Plin., XXXV, 96). Così egualmente dalla descrizione di Luciano (Calumn. non temere cred., 4) non si apprende quanta ne avesse data alle molte figure femminili del suo quadro della "Calunnia"; si apprende per altro che si era là servito del vario colore delle carni per esprimere il carattere delle personificazioni. Lo stesso possiamo presumere per il suo singolarissimo quadro del Tuono, del Lampo, del Fulmine (Plin., XXXV, 96) che la nomenclatura greca fa femminili, e che dovevano trarre la loro espressione dalla maggiore o minore nudità e dalla varia accensione di colore. Sembra invece che panneggiate dovessero essere la sua Charis che si trovava nell'Odeo di Smirne (Paus., IX, 35, 6) e la sua Tyche (Stob., Flor., CV, 60), personificazioni l'una della Grazia e l'altra della Fortuna.
Il suo Alessandro con la lancia e il suo Eracle ci hanno già additato A. come pittore eccellente della nudità maschile sia nello scorcio, sia nella corporeità, sia nel colore. Ma forse la sua opera maggiore in questo campo fu quell'eroe nudo di cui si diceva che "aveva con esso provocato la natura stessa" (Plin., XXXV, 94). Dobbiamo intendere infatti ch'egli aveva raggiunto il massimo della verità e della naturalezza. E nudi maschili si debbono presupporre in altre sue opere, per esempio nell'Alessandro con i Dioscuri e con la Vittoria (Plin., XXXV, 27, 93).
Un complessivo giudizio sulla sua arte ci porta a riconoscere che se anche dipinse talvolta scene con molte figure, come il corteo del sacerdote di Artemide Efesia (Plin., XXXV, 93), che si vuole da alcuni identificare con la sua pittura d'un sacrificio bovino, descritta da Eroda (IV, 66 segg.) nel santuario di Asclepio in Coo, egli predilesse il quadro con una sola figura o con poche. Il mondo dei numi superiori gli fu estraneo, soprattutto degli dei maschili, giacché dipinse solo Afrodite ed Artemide. Poca predilezione ebbe per gli eroi: un solo Eracle è ricordato di lui. L'altro è quell'eroe senza nome in cui certo la nudità perfetta valeva più della persona. E Castore e Polluce sono da lui dipinti per far corona ad Alessandro insieme con la Vittoria. Estraneo assolutamente gli è il ciclo epico, anche il mito troiano che tanto nutrimento aveva dato a tutta la pittura anteriore. Ama invece le personificazioni: oltre alla Charis, alla Tyche, oltre a quelle della Calunnia, oltre al gruppo del Tuono, del Lampo, del Fulmine, sono da ricordare la Guerra prigioniera e il Trionfo che diede compagni ad un'altra sua immagine di Alessandro sul carro trionfale (Plin., XXXV, 27, 93). E predilesse soprattutto il ritratto: oltre a quelli di Filippo e di Alessandro già ricordati, di molti altri si ha menzione. Dipinse il re Antigono almeno due volte: in una delle pitture era a cavallo, nell'altra era in armi e incedeva insieme col cavallo (Plin., XXXV, 96). Gli intenditori d'arte preferivano la prima: non sappiamo se in uno di questi due o in un terzo ritratto di Antigono egli avesse adoperato quell'abile scorcio di cui abbiamo sopra parlato. Dipinse Clito, l'amico di Alessandro, nel momento in cui a cavallo si avviava alla battaglia: forse faceva parte del quadro un attendente che gli porgeva l'elmo (Plin., XXXV, 93). Degli altri compagni di Alessandro dipinse Menandro che fu satrapo nella Lidia: questo ritratto si trovava a Rodi (Plin., XXXV, 93). Dipinse anche Neottolemo a cavallo, in battaglia contro i Persiani (Plin., XXXV, 96). E ritrasse uno dei due ufficiali di Alessandro che avevano nome Archelao: questi lo dipinse con la moglie e con la figlia (Plinio, XXXV, 96). Ad Alessandria esisteva un ritratto dell'attore tragico Gorgostene (Plin., XXXV, 93). Non sono identificabili con sicurezza altri due personaggi che egli riprodusse: un Anteo e un Abrone: forse quest'ultimo era un pittore e il ritratto si trovava in Samo (Plin., XXXV, 93, 141). Si ha ricordo anche di un autoritratto di A. (Anth. Pal., IX, 595). I suoi ritratti erano di una tale indiscreta somiglianza che un "metoposkopos", cioè uno di quelli che divinavano dal viso degli uomini, poteva da un suo ritratto dire quanti anni l'individuo dovesse ancora vivere e quanti ne avesse vissuti (Plin., XXXV, 88).
Appartiene anche questo a quei ricami retorici che l'antichità amò trapuntare intorno agli artisti celebri e alle loro opere più famose, ma certo serve a illuminare il carattere di A. che sembra aver abbandonato i supremi spazî dell'Olimpo e le favolose lontananze del mito per incatenare il suo genio a terra in mezzo alla realtà degl'individui, anche quando, come nel caso dell'Afrodite Anadiomene, eleva il corpo dell'etera a immagine di una bellezza divina ed eterna, anche quando, come nel caso dell'Alessandro col fulmine, eleva l'aspetto del principe terreno a immagine di una potenza sopraterrena. Laide, Pancaspe, Frine, Alessandro, Tolomeo, Antigono, ecco il mondo reale delle meretrici e dei principi in mezzo a cui egli visse e da cui egli trasse l'ispirazione della sua arte ideale: e ad essa egli si vantava di aver dato quella grazia, per la quale soltanto l'arte giunge a toccare il cielo (Plutarco, Demetr., 22; Aelian., Var. hist., XII, 41).
Bibl.: O. Rossbach, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclop. der class. Altertumswiss., I, ii, Stoccarda 1894, col. 2689 segg.; B. Sauer, in Thieme-Becker, Künstlerlex., II, Lipsia 19, p. 23 segg.; E. Pfuhl, Malerei und Zeichnung der Griechen, II, Monaco 623, p. 735 segg.