OROBONI, Antonio Fortunato
OROBONI, Antonio Fortunato. – Figlio naturale del conte Antonio e di Cassandra Cecilia Aguazzo, nacque a Ferrara il 9 agosto 1791; immediatamente riconosciuto dal padre, fu successivamente adottato dalla zia Elisabetta Oroboni.
Consenziente la seconda moglie del padre, Antonia Manfredini, visse sempre nella casa paterna a Fratta Polesine, nel Rovigiano. In quanto unico discendente maschile era destinato a succedere al padre nel titolo comitale.
Non si hanno notizie circa i suoi studi, probabilmente conformi allo status familiare, ma che non portarono ad alcun titolo. Nel 1817 fu aggregato da Antonio Villa alla carboneria, introdotta con grande successo nel Polesine, ora annesso al Regno lombardo-veneto, per mandato della carboneria bolognese, da Felice Foresti, pretore di Crespino. Oroboni era ancora ‘apprendente’ – e tale rimase – quando nello stesso anno fu nominato segretario della vendita locale.
Fratta era pervasa in quegli anni da un intenso attivismo politico-patriottico e liberaleggiante, ignaro delle direttive segrete carbonare e animato da un capo indiscusso quale Foresti. Il fatto che il capo della carboneria e il magistrato incaricato di perseguire i nemici dello Stato fossero la stessa persona potrebbe aver reso più difficile una visione realistica della situazione. Inoltre il ritorno a Fratta di Giuseppa Cecilia Monti, reduce da impegni politici (bonapartisti) e sociali, reali o immaginari, con il marito (l’ex generale napoleonico Jean-Baptiste d’Arnaud), vivacizzava ulteriormente la vita politica e sociale locale. Fu appunto una riunione conviviale in casa Monti d’Arnaud (11 novembre 1818), conclusasi con acclamazioni patriottiche (e seguita da delazione), a dare il via ai numerosi arresti operati dalla polizia, allarmata dai processi carbonari nelle Marche.
Villa, che aveva ricevuto da Foresti l’ordine di bruciare tutte le carte compromettenti in suo possesso, fu arrestato il 16 dicembre. In realtà ne aveva distrutte solo alcune, affidandone altre, perché le nascondesse in luogo sicuro, a Oroboni che, per rassicurarlo, gli aveva successivamente rivelato il nascondiglio (la cappella di famiglia). Ma Villa confessò, fornendo agli inquisitori istruzioni accuratissime per il reperimento («diedi persino le indicazioni del modo di fare gli arresti»; Luzio, 1903, p. 194).
Il 7 gennaio 1819 la polizia poté così requisire il materiale incriminato, tra cui la Costituzione latinadi Costantino Munari tanto ricercata dagli austriaci. Oroboni, che aveva negato tutto, fu immediatamente arrestato e il giorno successivo, con gli altri prigionieri, fu trasferito a Venezia (il primo costituto di Oroboni è del 27 gennaio). Nel carcere dell’isola di San Michele il 13 luglio un nubifragio rese necessario riunire momentaneamente tutti i polesani in un unico locale, ciò che permise a Foresti di convincere i coimputati a coordinare le singole linee difensive; tuttavia il giudice Antonio Salvotti riuscì presto a smontare questa linea difensiva.
Condannato a morte con sentenza confermata dal Senato lombardo-veneto il 18 maggio 1821, Oroboni ebbe la pena commutata dall’imperatore Francesco I d’Asburgo Lorena in 15 anni di carcere duro (29 ottobre 1821).
La sentenza fu letta in pubblico a Venezia il successivo 24 dicembre: ai condannati era stato concesso di ascoltare la lettura a testa bassa e occhi coperti dal cappello. Oroboni rifiutò: «voglio star qui scoperto; non mi vergogno di essere in questo luogo; vi sono per una bella e santa causa; voglio che tutti mi veggano bene» (F. Foresti, Ricordi, in A. Vannucci, Martiri della libertà italiana …, Milano 1878, II, p. 349 n.1).
Partiti da Venezia il 12 gennaio 1822, i condannati giunsero allo Spielberg (Brno) il 10 febbraio. Le durissime e crudeli condizioni di vita di questo penitenziario e soprattutto il cibo scarso e immondo e la tubercolosi riuscirono a stroncare la pur forte fibra di Oroboni. Inizialmente i prigionieri furono reclusi in celle singole; in aprile nella cella adiacente alla sua fu rinchiuso Silvio Pellico. Si videro una sola volta per pochissimi minuti, ma tra i due, ciascuno ‘affacciato’ alla propria finestrella alta con barre di ferro o tramite il muro, intercorsero fitte – seppur frequentemente interrotte dai carcerieri – conversazioni. Successivamente fu concessa la ricollocazione in celle per due: Oroboni condivise la cella prima con Antonio Solera e poi, fino alla morte, con don Marco Fortini.
Morì tra atroci sofferenze il 13 giugno 1823, assistito da padre Battista Vorthey. Fu sepolto nel cimitero del penitenziario, ma il suo sepolcro non è stato individuato.
Sarebbe difficile tratteggiare un sia pur sommario profilo dell’Oroboni pre-Spielberg. Per Foresti (cit.,pp. 330 s.) fu «bravo, franco, energico», condannato in violazione della legge riguardante gli apprendenti «per punirlo di una nobile, fedele fermezza e rettitudine». Salvotti definì Oroboni, sia pure al fine di ottenergli una condanna più mite, come un «giovane scapato, cedevole a suggestioni di amici, niente affatto temibile, perché tardo d’ingegno e d’indole “non facinorosa”» e «assai facile a ricevere quelle impressioni che gli dà quella persona nella quale abbia collocato la sua confidenza», era commendevole per «la sua morale condotta» e incapace di macchinazioni «che esigono prudenza e malizia» (Luzio, 1903, pp. 37 s.).
A San Michele non sembra avesse destato particolare interesse. Aveva chiesto di potere scrivere più spesso all’amato padre e aveva espresso il desiderio di sposare la propria fidanzata. Come altri, supplementò ampiamente i pasti regolamentari con manicaretti preparati dal carceriere e pagati dal padre (ibid., pp. 178-180). Dallo Spielberg si hanno soprattutto testimonianze della sua rassegnazione e accettazione della propria sorte. Accettazione che viene rilevata anche dal breve profilo personale redatto nel penitenziario e che coincide con i giudizi salvottiani, soprattutto riguardo la sua consuetudine di delegare ogni decisione a persone di fiducia e la capacità di considerare sopportabile anche l’inaccettabile (Archivio di Stato di Rovigo, Archivio regionale di Moravia a Brno, fondo B 95, cart. 946, f. 137, allegato Oroboni). Il ‘bibliotecario’ dello Spielberg, Krall, ricorda «Comme il était resigné! Comme il pleurait sur son père! Comme il regrettait sa bénédiction! Ses dernierès paroles […] furent celles d’un saint»; A. Andryane, Mémoires d’un prisonnier d’État, II, Paris 1850, p. 50).
Pellico, restituito alla libertà, nelle sue memorie (Le mie prigioni, Parigi 1834, LXII-LXXVI) narrò o creò il personaggio Oroboni destinato a commuovere i lettori di tutto il mondo: non un uomo amante della patria e della libertà, innocente di ogni colpa, barbaramente recluso in un penitenziario infame bensì esclusivamente un modello di virtù cristiane, la rassegnazione e il perdono come regola di vita. Pellico gli attribuì anche il merito del proprio ritorno alla religione cattolica: «La virtù d’Oroboni m’avea invaghito» (LXIII). È probabile purtuttavia che abbia voluto magnificarne improbabili conoscenze teologiche e filosofiche: «Ed i nostri discorsi non volgean più sovr’altro che sulla filosofia cristiana, e su paragoni di questa colle meschinità della sensualistica. Ambi esultavamo di scorgere tanta consonanza tra il cristianesimo e la ragione; ambi nel confronto delle diverse comunioni evangeliche vedevamo, essere la sola cattolica quella che può veramente resistere alla critica, e la dottrina della comunione cattolica consistere in dogmi purissimi e in purissima morale, e non in miseri sovrappiù prodotti dall’umana ignoranza» (LXX). I lettori di questo bestseller recepirono soprattutto l’ingiustizia e la crudeltà degli oppressori austriaci nei confronti dei patrioti italiani colpevoli soltanto di amare la patria.
Permane comunque la centralità del binomio Oroboni - Fratta nella storiografia italiana. Un passo importante e decisamente innovativo verso una visione più aderente alla realtà della carboneria polesana e dei suoi attori è stato compiuto da Luigi Contegiacomo (2004): «la trasformazione ad opera di Pellico di un giovane “apprendente”, appena a conoscenza dei rudimenti della dottrina carbonara, in martire del Risorgimento ed il fascino misterioso quanto prorompente di una Cecilia Monti in grado di coinvolgere il modesto microcosmo locale in una fitta e complessa rete di cospirazioni internazionali, ha così contribuito da un lato all’esaltazione storiografica della vendita frattense, dall’altro all’oscuramento del vero dato storico, il coinvolgimento dell’intera, o quasi, provincia polesana nel fenomeno insurrezionale grazie all’astuta rete tessuta tramite gli uffici giudiziari dal vero artefice del primo Risorgimento polesano», ovvero Felice Foresti (p. 367).
Fonti e Bibl.: A. Luzio, Il processo Pellico-Maroncelli secondo gli atti officiali segreti, Milano 1903, ad ind.; G. Russo, Nuovi documenti su A.F. O., in Rassegna storica del Risorgimento italiano, LII (1965), pp. 513-530; A.C. Bellettato, A.F. O. e i carbonari della Fratta, Fratta Polesine 1973; L. Contegiacomo, Il microcosmo della carboneria nel Polesine. Legami familiari, sociali e culturali, in La nascita della nazione. Carboneria, Rovigo 2004, pp. 355 s., 367; Spielberg. Documentazione sui detenuti politici italiani. Inventario 1822-1859, a cura di L. Contegiacomo, Rovigo 2010, ad ind.; D. Felisati, I dannati dello Spielberg. Un’analisi storico-sanitaria, Milano 2011, ad indicem.