DONA (Donati, Donato), Antonio
Figlio di Nicolò di Giambattista di Andrea e di Andriana Bragadin di Giovanni da S. Trovaso, nacque a Venezia il 15 ott. 1584 nella casa di S. Stin che la famiglia allora abitava.
Il padre ricopriva alte cariche in mare e in terra; lo zio Leonardo, futuro doge, era già esponente di primo piano di una parte importante del patriziato, quella dei "giovani", di cui diverrà portavoce, più volte ambasciatore e titolare delle più alte cariche dello Stato. Dei tre figli maschi di Nicolò che raggiunsero la maggiore età - Leonardo, Girolamo e il D. - il primo sarà il solo a contrarre matrimonio e avrà il compito di continuare la famiglia e di occuparsi della sua amministrazione; il secondo, il più giovane, destinato al servizio della Repubblica sul mare, perderà la vita in un naufragio seguito ad un combattimento nel 1617.
Il D., di un anno più giovane di Leonardo, rimarrà scapolo e inizierà presto una brillante carriera, che, confortata dalle sue qualità e dal consenso del patriziato, lo avrebbe portato ai più alti livelli della carriera politica e delle dignità dello Stato. Ebbe una buona educazione ritenuta indispensabile per chi volesse intraprendere la carriera politica. D'altronde si mostrò fin dalla fanciullezza dotato di capacità che il padre, ma soprattutto lo zio Leonardo, si assunsero il compito di incoraggiare. E non solo sui libri si andava formando il giovane D., ma seguendo da vicino l'attività dei parenti e accompagnando il già celebre zio nelle missioni che frequentemente gli venivano assegnate. Come quella che portò Leonardo Donà, nel 1601, a percorrere, in qualità di provveditore generale di Terraferma, lo Stato in lungo e in largo. Il D. vedeva e osservava con la curiosità propria dei giovani disciplinata e irrobustita dalla presenza affettuosa e rigorosa dello zio che riversava sul nipote l'affetto di un padre - lui senza famiglia propria - e l'orgoglio del capo della casa.
Lo spirito di intraprendenza e gli interessi multiformi del D. toccarono anche la mercatura. Si trattò tuttavia di un'esperienza di breve durata e di scarsa fortuna (Davis, pp. 59 s.; Tenenti, p. 352), più un accontentare la sua intraprendenza che un serio impegno imprenditoriale. La famiglia, d'altra parte, aveva già progressivamente abbandonato l'attività dei commerci, proprio con la generazione precedente. Un abbandono - è bene ricordare - che aveva interessato nel corso del secolo XVI buona parte del patriziato veneziano maggiormente interessato alla speculazione terriera.
Nel 1602, dunque, il giovane D., perso un carico di zucchero imbarcato su una nave catturata da pirati, si convinse a puntare decisamente sulla carriera politica, favorito anche dal privilegio di entrare anticipatamente in Maggior Consiglio, grazie alla estrazione della balla d'oro, nel 1603.
Nel marzo del 1610 era savio agli Ordini, carica che permetteva a giovani capaci e sufficientemente ambiziosi di mettersi in luce e di poter aspirare a una carriera prestigiosa. Era un momento per Venezia denso di avvenimenti che riguardavano sia i problemi interni dello Stato sia il ruolo della Serenissima nel contesto europeo. Nel clima di acceso dibattito che da qualche tempo caratterizzava la vita politica veneziana su un ampio ventaglio di problemi non mancò di farsi notare anche il giovane Donà.
Si discuteva in particolare del ruolo degli stranieri nell'economia veneziana, se inserirli o no con pienezza di diritti. Il problema pero non era solo economico, toccava bensi i rapporti tra Venezia e i paesi europei, principalmente quelli con la Sede apostolica, allarmata da un possibile insediamento di mercanti riformati in città. La questione aveva subito messo in evidenza le posizioni discordi che caratterizzavano il patriziato: a promuovere e a sostenere misure favorevoli agli stranieri si trovarono i cinquesavi del Consiglio allora in carica - tra cui Nicolò Donà di-Giovanni e Nicolò Contarini di Gian Gabriel - ai quali "si affiancava un giovane savio agli Ordini, Antonio Dortà figlio di un senatore influentissimo e nipote del doge, dei quali, e a ragione, sembrava essere il portavoce" scrive G. Cozzi (Ildoge N. Contarini, p. 140) riportando le affermazioni del nunzio pontificio mons. Gessi.
Il D., dunque, e con lui il fratello Leonardo che ricopri la stessa carica l'anno precedente, ebbe l'opportunità di esordire nella vita politica cimentandosi con argomenti scottanti e legandosi a quella parte che anche dopo la conclusione della crisi dell'interdetto non desisteva dal perseguire audacemente i propri obiettivi. Ma i tempi erano cambiati e la cautela sorgeva anche negli animi dei fautori di una politica "coraggiosa". Il giovane savio agli Ordini avrà modo, sulla scia degli avvenimenti, di modificare le sue posizioni e di prendere le distanze da quelle dei più intransigenti. Dopo essere stato rieletto, nel 1611, alla medesima carica, il D. prosegui la carriera ricoprendo incarichi non prestigiosi ma tali da consolidare la sua esperienza di governo e la conoscenza dell'apparato amministrativo dello Stato. Fu alla Camera degli imprestidi, poi ordinario sopra il Taglio del Po e savio alla Mercanzia nel 1613, dando sempre buona prova di sé. Il salto di qualità avvenne il 6 ag. 1615 quando il D. fu scelto a coprire la carica di ambasciatore in Savoia.
Non ancora trentunenne il D. lasciò Venezia e la sua casa per una missione che si preannunciava assai delicata e difficile sebbene, per un uomo ambizioso e desideroso di ben operare, fosse anche l'occasione propizia. Era stato designato dal Senato con un viatico lusinghiero: "Abbiamo eletto a questa corte il nobile nostro Antonio Donato, soggetto in cui concorrono tante onorate condizioni e buone parti che siamo certi complirà ottimamente a questo carico".
Il D. parti da Venezia l'8 novembre, firrnò il suo primo dispaccio da Vercelli il 24 e in data 8 dicembre il primo dalla capitale sabauda. Si rese subito conto che la situazione richiedeva il massimo impegno, freddezza e lucidità.
C'era la situazione internazionale. In quel 1615 sia Venezia sia il Ducato di Savoia si trovavano a fronteggiare una situazione difficile: il duca di Savoia non poteva contare su una Francia incerta mentre sentiva gravare su di sé la pressione spagnola; Venezia era in piena guerra con gli Arciducali, tormentata dal problema degli Uscocchi e con la spina nel fianco degli Spagnoli e l'ostilità della Sede apostolica. Il governo della Repubblica era consapevole dell'utilità di un'alleanza con Carlo Emanuele I, pronto ad impegnare gli Spagnoli e a far distogliere le loro forze da Venezia, ma una parte del patriziato paventava un ulteriore coinvolgimento stante il fatto che la guerra di Gradisca contro gli Arciducali andava tutt'altro che bene. Una guerra voluta da Nicolò Contarini, che era diventata la sua guerra (Cozzi, 1959), appoggiata da coloro che volevano indebolire il predominio asburgico. A questo si aggiungeva il progetto di indebolire il dominio spagnolo tramite l'aiuto prestato al duca di Savoia. I fautori della guerra, di una politica audace di alleanze, di un 'coinvolgimento di Venezia negli avvenimenti europei subivano ora l'attacco del partito avverso, dei "pacifisti", dei neutralisti che, dopo gli esiti poco brillanti dello scontro con gli Arciducali, aveva visto crescere le adesioni o quanto meno insinuarsi delle perplessità tra i più moderati degli avversari. Tutto ciò si rifletteva sulle decisioni da prendere nei confronti di Carlo Emanuele I. C'era, appunto, il duca. Parlando di lui nella relazione fatta in Collegio nel febbraio del 1618 ' tornato da Torino, il D. manifestava un apprezzamento senza illusioni: "Quale sia l'interno dell'animo del duca verso questa Serenissima Repubblica, se debbo io discorrere colla ragione, col dovere e col senso cristiano, dirò che convien essere ottimo e pieno di vera e leale gratitudine perché veramente gli aiuti della Serenità Vostra lo hanno conservato e difeso; ché senza essi conveniva cadere e restar servo degli Spagnoli". Bene ha fatto la Repubblica a sostenerlo perché "o suddito del re di Spagna, o amico della Repubblica, convien egli essere, né termine medio vi è in si gran negozio". Con estrema chiarezza il D. continuava: "Se il corso della mia legazione, e una non ristretta fortuna che ho avuto di maneggiarla ha appresso quel principe avuto il solo puntello dell'oro, che copiosamente gli è stato somministrato, ed i bisogni e l'avidità del conseguirlo come nel dimandarlo, ho a dir il vero esperimentato termini da zingano e da corsaro, hanno essi soli facilitata la via di una buona diversione dal male e il freno all'armi di Spagna e il frutto che se ne pretendeva, io dirò che fede non può aversi in uomo vivente, che la gratitudine è perduta che la riputazione dei principi è, come dissi, il solo utile e interesse proprio".
Aveva sempre parlato con franchezza il D., e aveva preso la sua missione con piglio deciso: fin dal dicembre 1615 e più ancora dal gennaio del '16, i suoi dispacci al Senato sono un susseguirsi di richiami, avvertimenti, suggerimenti, incitarnepti a un Pregadi incerto e tentennante.
Non esitava a travalicare i confini dell'informazione per lanciare ammonimenti: "Se cade il Duca di Savoia, vedano l'Eccellenze Vostre che resta Italia come rinchiusa la libertà ma come imprigionati tutti"; "meglio saria haver qui travaglio con l'interesse della Republica che la guerra in casa propria". "Ben è vero che nella debolezza in che hora si trova questa casa et nella congiontora di tempi si haveria con questo Principe ogni partito per una buona unione a comun difesa et più valeria il Duca di Savoia mediocremente armato che un grand'esercito in altra parte ...". Si prenda una decisione, finalmente, incalza il D., "a risposta a questo Principe, mentre si tratta o di lasciarlo cadere nelle mani de spagnoli ... o conservarlo libero alla difesa commune et contrapeso alla potenzia loro".
Il D. conosceva benissimo d'altronde quanto succedeva a Venezia, informato com'era minutamente dal fratello Leonardo che lo ragguagliava sugli orientamenti del governo, un "governo mutato" - lamentava - tanto che "chi desidera il bene della patria ha la peggior opinione". Come è noto si venne ad una soluzione di compromesso e il duca di Savoia ebbe i denari che gli servivano. I pagamenti iniziarono nell'aprile del 1616 e continuarono fino al settembre 1618. Gran parte di questa operazione di aiuto finanziario (all'incirca 1.700.000 ducati) fu condotta a Torino dal D., con largo potere decisionale anche nei contatti con i mercati finanziari torinesi ed europei. Fu con ogni probabilità anche in virtù di quest'ampia discrezionalità che il D. si senti sicuro e fu indotto ad approfittare della ingente quantità di denaro che si trovò a maneggiare per ritagliare una fetta di profitto per sé. Il fatto venne scoperto qualche anno dopo e l'ex ambasciatore, dopo un processo, fu pesantemente condannato. Ma ora si era ben lontani dal presagire alcunché per il D. che non fosse un crescendo di successi, di stima e di un futuro radioso. Dopo la felice conclusione dell'accordo con Carlo Emanuele I, la considerazione per le capacità del D. sali ancora e nel giugno del 1616 venne prescelto per guidare l'ambasciata a Londra, con decisione presa dal Senato "indotto" a tale proposito "principalmente dall'ottimo servigio che prestava in tempi e negozii così difficili ed importanti, volendo dargli questo testimonio dell'intera sua soddisfazione dovuto alla sua virtù che quanto più si tratta tanto più apparisce meritevole di questa e di ogni altra maggiore dimostrazione" (per tutte le citazioni cfr. Relaz. d. ambasciatori veneti al Senato, XI, Savoia, pp. 861-89 passim). La partenza fu però rinviata per la delicatezza della situazione in Savoia, dove si riteneva ancora necessaria la presenza del Donà. Al suo posto fu inviato ambasciatore straordinario Pietro Contarini e il D. rimase a Torino altri due anni, non senza problemi finanziari per la dispendiosità della carica e mentre le sue doti di diplomatico erano messe a dura prova da un incrinarsi dei rapporti col duca di Savoia dopo la pace stipulata a Madrid.
Un intrecciarsi poi di questioni internazionali e di posizioni personali contribuiscono a far considerare questi anni cruciali per il Donà. Seguace di Nicolò Contarini, esponente da sempre della fazione innovatrice del patriziato veneziano, aveva tuttavia cominciato a prendere le distanze dalla parte più oltranzista di quella, finendo per esserne considerato un nemico.
Proprio subito dopo la nomina del D. ad ambasciatore a Londra, nel '16, fra' Fulgenzio Micanzio, il braccio destro di P. Sarpi ed acceso sostenitore di una politica di presenza della Repubblica sulla scena internazionale, fortemente antiasburgico e anticuriale, aveva manifestato soddisfazione per la scelta, scrivendo a sir Dudley Carieton: "È stato fatto successore al già Barbarigo il signor Antonio Donato ... È compitissimo personaggio...". È di diverso avviso - Micanzio - un anno dopo: "L'ambasciator veneto [il D.] fa de pessimi offici et è un mall'istrumento: mi spiace che andarà in Inghilterra". Chi premeva per una lega tra Venezia, Savoia, Gran Bretagna, Province Unite e protestanti in funzione antiasburgica e antispagnola non poteva contare sul D., che anzi è sospettato di manovrare per "rompere il pregadi con il duca di Savoia" (cfr. M. P. Terzi).
Nel gennaio del 1618 il D. rientrava da Torino. Della missione ci ha lasciato una bella relazione densa e dettagliata e mai prolissa. Rivelatrice dello spirito attento, acuto nel cogliere gli elementi essenziali, rapido nelle analisi e schietto nei giudizi.
Il suo obiettivo era quello di cogliere insieme gli aspetti generali e i particolari sintetizzandoli: "Degli Stati e forze del signor duca di Savoia, del posto d'importanza di essi - esordisce il testo - delle condizioni dell'animo e persona di che li regge, e de' principi figliuoli, de passati accidenti, di quelli che corrono, degli imminenti che possono temersi, riferirò alla Serenità Vostra ed alle Signorie Vostre quello che stimo degno di notizia e necessario di intelligenza". E non mancavano alla fine i segni di un certo autocompiacimento e un'allusione poco velata all'orgoglio di famiglia, della "casa", come la chiamavano i suoi membri, dove il riferimento agli oneri finanziari e umani notevoli della ambasceria tendeva a fondere servizio dello Stato e lustro e decoro famigliari.
La missione a Torino - si diceva - era stata gravosa per le finanze del D., anche se il Senato votò un assegno mensile per lui di 400 ducati il secondo anno della sua permanenza a Torino.
Il patrimonio del D., come quello dei parenti - e del padre e dello zio prima -, era fondato su una rendita fornita da immobili e da proprietà in Terraferma. Nessuna speculazione personale, tutto gli derivava dai lasciti e dalle divisioni patrimoniali. Alla morte dello zio Leonardo e del padre il D. aveva ereditato, fatta la divisione con i fratelli, delle proprietà sia a Venezia (la casa in rio terrà a S. Marcuola) sia in Terraferma (in località Bosco nel Veronese e in Albarea, una casa a Este e a Bonavigo), in tutto qualche centinaio di ducati. Tanto è vero che, quando parti per il Piemonte, dovette farsi aiutare dal fratello Leonardo che gli prestò soldi e mobilio. Un'ultima divisione avvenne nel 1618 a seguito della morte del fratello Girolamo: al D. toccarono quasi tutti i possedimenti in Terraferma oltre alla comproprietà di alcuni immobili a Venezia, tra cui le case di famiglia di S. Marcuola, S. Stin e il nuovo palazzo sulle Fondamente Nuove.
Il D. parti alla volta della Gran Bretagna il 10 sett. 1618 e arrivò sul suolo inglese il 29 ottobre. Il 16 novembre fu presentato al re Giacomo I; e presso di lui si fermò per circa sette mesi, durante i quali seppe entrare in confidenza col sovrano e con molti personaggi importanti del governo e acquistare una stima e una reputazione non disgiunte da manifestazioni di umana simpatia e confidenza.
Come Torino anche Londra in quei frangenti internazionali costituiva per Venezia uno dei poli privilegiati e più delicati della azione diplomatica. In particolare la parte del patriziato e del governo che faceva capo a Nicolò Contarini e agli amici del Sarpi si adoperavano per addivenire a una alleanza tra Venezia e i nemici reali o potenziali del blocco asburgico-spagnolo. Il D. però era ormai su posizioni moderate e non faceva mistero della sua ostilità nei confronti della cerchia sarpiana, la cosìddetta "cabala", la più impaziente sostenitrice della politica interventista e bellicista da parte della Repubblica.
Il nome del D. apparve anche nel tortuoso e clandestino episodio del libro di Paolo Sarpi sull'interdetto che si intendeva far pubblicare proprio in Inghilterra, sul quale aveva pronunciato sprezzanti giudizi. L'inimicizia tra il D. e i sarpiani toccò punte assai vivaci, in un intreccio di elementi politici e personali che d'altra parte aveva ormai pervaso l'intera dialettica interna al gruppo dirigente veneziano in quegli anni. La missione del D. finì però bruscamente quando scoppiò il suo caso. Era stato il suo successore a Torino, Renier Zeno, a sollevare lo scandalo fornendo le prove delle malversazioni del collega perpetrate quando era il tramite degli aiuti finanziari al duca di Savoia.
Le accuse suscitarono scalpore e incredulità a Venezia: "L'opinione combatteva col fatto - scrive lo storico della Repubblica Battista Nani - perché in soggetto, ornato di singolari talenti e particolarmente di gravità e d'eloquenza, si rendeva tanto meno creduta la colpa, quanto più teneva domestiche imagini di somma integrità di maggiori, tra quali il zio Leonardo Principe della Republica ed il padre Niccolò Senatore prestante, havevano dato saggio negli impieghi urbani et esterni d'animo inflessibile a qualunque colpa et interesse". Ben diversamente si pronunciava Micanzio: "L'ambasciator veneto in Inghilterra, chiamato qua, ha certissimamente rubado - scriveva il 24 maggio 1619 al Carleton - et pure ha tanti difensori che potria il tutto scusare, et la ragione è la moltitudine, et de' grandi, ch'avendo fatto et facendo l'istesso, non vuole lasciar cominciar un pregiudicio". E aggiungeva soddisfazione e sollievo per la conclusione dell'ambasceria del D. perché questi, "oltre la natura la più ribalda et maligna che possi trovarsi, haveva anco cominciato qui a far officii et continuati, tanto perversi che se ne doveva temere assai male et è indubitato che inviava tutto ad imprimer al pregadi che niente si può sperar da Giacomo 1, con concetti molto fastidiosi ... L'ambasciator veneto - concludeva - haveva intrapreso un altro male: di rompere il pregadi con il duca di Savoia" (cfr. M. P. Terzi).
Il D. reagi immediatamente e anzi insistette per poter venire a discolparsi, cosa che gli fu concessa. Partito il 17 maggio, giunse a Venezia probabilmente alla fine del mese, parlò davanti al Senato "raccontando li grandissimi meriti della sua casa, che quasi quei padri del Senato piangeano da tenerezza" (Sivos, Cronaca), si difese tenacemente respingendo con sdegno le accuse anzi ritorcendole su avversari e nemici della sua casa. "Essendosi in apparenza colla unica voce ben difeso in Senato - riferisce il Priuli - fu di subito rispedito di nuovo all'Ambasceria", probabilmente nei primi giorni di giugno. Ma le sorti del D. erano segnate: tra l'incredulità e la costernazione di buona parte del Senato, venivano prodotte nuove prove a carico dell'imputato, decisive quelle di Renier Zeno, suffragate da testimonianze e dalle accuse dello stesso duca di Savoia. Il D. si vide perduto e fuggi rifugiandosi in Inghilterra. Venne la sentenza il 20 giugno 1619 e fu pesantissima.
"Per aver mentre fu ambasciatore in Savoia con occasione di maneggio di grossa summa di danaro, scordato di buona e fedel amministrazione con indiretti modi et astuttie vie, si sia procurato de arichirsi per quella strada occultando il suo debito con machinate scritture con mal esempio e detrimento della Publica riputazione ... sia e s'intenda privo d'Ambasciata d'Inghilterra e privo di nobiltà e sia bandito da questa città e luoghi tutti del Dominio nostro in perpetuo, et essendo preso, sia impiccato ... con taglia a chi lo ammazzerà ... nello stato e ... in terra aliena ... né si possa parlare della sua liberazione se non passati anni 20" (cfr. Arch. di Stato di Venezia, Senato. Terra, p. 234).
Toccò al fratello Leonardo (accusato di complicità e relegato per un anno) perorare la causa del D., portando elementi a discarico, presentando suppliche, il tutto inutilmente. Lo stesso giorno, annotando sul suo diario (Arch. Dorià dalle Rose, b. 14) i termini della sentenza, Leonardo attribuiva il tutto a "congiura ordita da Rhenier Zen che successe ad esso mio fratello nella detta ambasceria (a Torino) e favorita dalla malignità et iniquità d'huomini cattivi et inimicissimi a questa Casa". Anche il D. reagi alla condanna, con lettere, dossiers, suppliche e petizioni, che non mancarono di ritorcere accuse e di documentare la sua innocenza. Una produzione di materiale notevole conservata nell'archivio della famiglia e in parte in quelli pubblici.
Non si vuole qui esaminare nei dettagli una vicenda peraltro di non poco valore per le implicazioni politiche, storiche e umane travalicanti la stessa figura del protagonista (ampia documentazione è reperibile presso l'Archivio di Stato di Venezia) o vagliare i complessi meccanismi del reato da lui compiuto (una dettagliata ricostruzione è in Stumpo, Gli aiuti finanziari ... ). Importa invece sottolineare il significato generale dell'episodio di carattere eminentemente pubblico ma con sfaccettature personali; episodio che segnò bruscamente la fine - non solo politica - di un uomo fino a quel momento stimato, un uomo "più che d'anni 35 - commentò Sivos nella cronaca degli avvenimenti - ricco di buon e meritevole parentado, d'ingegno savio et bel dicitore qual ascendea nelli honori della Republica grandemente, che nel tempo si sperava dovesse riuscire non solamente uno di primi senatori ma uno Dose per li meriti del Zio Dose, del padre suo morto fuori Provv. General in Dalmazia".
Il D. rimase qualche tempo in Inghilterra protetto dal re Giacomo 1 al quale, scrivendo per ottenerne appoggio, aveva confessato a modo suo le proprie responsabilità: si, ammetteva, aveva tratto del guadagno giocando sul cambio, ma era prassi consueta in simili circostanze e "questo misero guadagno era impiegato nel trattenere me medesimo nel servitio della Repubblica, come è conosciuto da chi mi ha visto et osservato in quel servitio ... Et per un picciol errore io convengo esser privo del mio nativo paese! honore, fortuna et ogni sorte di quiete!" (Arch. di Stato di Venezia, Consultori in jure, p. 452). Venezia riusci con forti pressioni a vincere la riluttanza del re a cacciarlo. Da Londra il D. parti per l'Italia, dove peregrinò da uno Stato all'altro. Pur profondamente colpito dalla sua sorte - dei suoi sentimenti e dei suoi sfoghi vi è ampia documentazione nelle lettere ai famigliari - un politico del suo livello e del suo carattere non restò fuori attività. Giunto nei primi anni '20 a Pesaro, prese servizio alla corte di Urbino e divenne anzi fidato consigliere del duca Francesco Maria Il Della Rovere ' presso il quale rimase fino alla morte di questo ed ebbe un ruolo di primissimo piano nel portare avanti le trattative con il pontefice che portarono alla devoluzione del Ducato allo Stato della Chiesa nel 1631
Di questi avvenimenti esiste una relazione attribuita generalmente al D. (pubblicata dal Segarizzi e manoscritta presso la Bibl. naz. Marciana) e che comunque mostra caratteristiche di concisione, precisione e un livello di conoscenza dei fatti che solo chi ebbe un ruolo nel loro svolgimento avrebbe potuto avere.
Passato per Roma, dopo aver lasciato Urbino, il D. ricominciò a muoversi per l'Italia, non interrompendo mai il sogno di poter rimpatriare e procurando di inviare ogni tanto qualche supplica. Per la verità non aveva mai interrotto i contatti con la patria, né con la famiglia, segnatamente con il fratello maggiore che gli inviava regolarmente somme di danaro frutto delle rendite patrimoniali che Leonardo aveva potuto in un tempo relativamente breve recuperare dallo Stato che aveva sequestrato i beni famigliari. Quali fossero poi i rapporti, i contatti del D. con Venezia al di là delle formali richieste di grazia è materia che incuriosisce solo a scorrere rapporti e carteggi intercorsi in quegli anni tra ambasciatori veneziani, inquisitori di Stato, Consiglio dei dieci e rapporti di informatori. Si possono fare illazioni, congetturare attività clandestine del fuoruscito, sempre ansioso di mettersi al servizio della Repubblica, magari per affrettare il sospirato rientro entro i suoi confini. Un rientro che avvenne, dopo una tappa a Ferrara o più probabilmente a Mantova, tra il 1632 e il 1633, e che ebbe come meta e permanenza Bosco (Boschi Sant'Anna) nel Veronese, ove era uno dei vecchi possedimenti dei Donà.
Da qui infatti partivano le lettere affettuose ed accorate del D. ai parenti, alla moglie - divenuta intanto vedova - del fratello Leonardo e ai nipoti, Antonio soprattutto, un Donù anch'egli, di un ramo cugino che aveva sposato una delle figlie, Andriana, primogenita dei fratello maggiore del Donà. Lettere piene di nostalgia, di malinconico dispiacere e amarezza per la sorte toccatagli e per le ripercussioni che aveva provocato sulla "casa". Implorava visite, chiedeva notizie dei "cari puttini", i figli delle nipoti, nascondendo dietro manifestazioni di affetto e di interessamento un fondo di pudica vergogna per ciò che uno come lui doveva rappresentare per l'immagine della famiglia. Era ridotto a vivere dell'elemosina dei parenti, sollecitati in questo dalle ultime volontà del fratello Leonardo, che nel testamento aveva accompagnato con un "raccomando di aiuto il signor Antonio mio fratello" la disposizione di "cavar dalle [sue] facultà ducati quattromilla ..." che la loro madre aveva accantonato per il figlio quando avesse potuto ottenere la liberazione dal bando.
Il D. visse a Bosco, occupandosi di quella possessione ancora diversi anni.
Morì a Bosco il 14 ag. 1649, a sessantacinque anni, solo per la metà a servizio dello Stato e di quella patria che -come ebbe a scrivere al nipote Antonio di Malipiero - "forse non m'ha in odio perché l'ho ben servita e con virtù e con amore".
Fonti e Bibl.: Venezia, Arch. priv. Donà dalle Rose, Fondamenta Nuove: buste 10, 14, 17, 19, 20, 22, 23, 25, 48, registri 10, Zornale di Leonardo di Nicolò (1614-1628); 9, Zornale, Albero di genealogie, redatto da Leonardo di Giambattista, senza numero, con aggiunte di altra mano posteriore; Venezia, Archivio della Bibl. del Civico Museo Correr, Fondo Donà Dalle Rose, buste 144, 167, 176, 219, 409, 448-16, 450, 457, 465, 469; Ibid., Fondo Cicogna, b. 3054-IV, 3174-XXX; Ibid., Fondo Provenienze diverse, b. 478c-27; Ibid., Fondo Wscovich-Lazzari, b. 21-6; Archivio di Stato di Venezia, Mise. Codd., I, St. ven. 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, III, cc. 342, 348; Ibid., Avogaria di Comun - Libro d'oro nascite, V, c. 92; Ibid., Notarile. Testamenti, 1178-300; Ibid., Consultori in jure, filza 452; Ibid., Senato. Terra, filze 233, 234; Ibid., Senato. Secreta. Deliberazioni, filze 103, 104; Ibid., Senato, Secreta-Dispacci Savoia (1614-1615), filze 40-41; Ibid., Consiglio dei dieci. Comuni, registro 69, c.76; Ibid., Inquisitori di Stato-Lettere agli ambasciatori a Roma, b. 165; Ibid., Dispacci ambasciatori Roma, b. 472, passim; Ibid., Quarantia criminal-Processi, filza 124; Ibid., Segretario alle Voci-Elezioni in Pregadi, registri 8, cc. 20v, 21v; 9, cc. 12v, 25v, 43v, 71, 93v, 116, 130v, 140; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 122 (= 8863): G. C. Sivos, Cronaca veneta, II, cc. 162vs.; ibid., 1818 (= 9436): Id., Cronaca..., III; ibid., 169 (= 8186), cc. 159, 255-256; ibid., 1232 (= 9599), cc. 89-92, 159-162, 345-355; ibid., 2492-93 (= 10145-46): G. Priuli, Croniche..., II; ibid., 151 (= 8036), passim; Relaz. Degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di A. Segarizzi, II (Milano-Urbino), Bari 1913, pp. 237, 270; Le relaz. degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneziani, a cura di N. Batozzi-G. Berchet, s. 4 (Inghilterra), Venezia 1863, pp. 4, 213 s.; Calendar of State papers ... of Venice, a cura di A. B. Hinds, XIV (1615-1617), London 1909, ad vocem; XV (1617-1619), ibid. 1909, ad vocem; P. J. Blok, Relazioni veneziane... 1600-1795, s'Gravenhage 1909, pp. 109, 123; E. Nani, Degl'istorici delle cose veneziane..., Venezia 1720, II, pp. 99, 194; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, Venezia 1824, I, p. 176; L. P. Smith, The life and letters of sir Henry Wotton, Oxford 1907, I, passim; II, pp. 173, 180; P. Donazzolo, I viaggiatori veneti minori. Studio bibliografico, Roma 1927, p. 205; G. Cozzi, Fra' Paolo Sarpi, l'anglicanesimo e la "Historia del concilio tridentino", in Riv. stor. ital., LXVIII (1956), pp. 562, 568; Id., Il doge Nicolò Contarini..., Firenze-Roma 1959, p. 140 e passim; A. Tenenti, Naufrages, corsaires et assurances maritimes à Venise 1592-1609, Paris 1959, p. 352; Relaz. di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, Torino 1965, I, Inghilterra, p. XXII; XI, Savoia, ibid. 1983, pp. XIV, 843; P. Burke, Venice ad Amsterdam, A study of Seventeenth Century elites, London 1974, p. 11; E. Stumpo, Gli aiuti finanziari di Venezia a Carlo Emanuele I, in Rass. degli Archivi di Stato, XXXIV (1974) 2, pp. 429-441, 461; J. C. Davis, A Venetian family and its fortune 1500-1900. The Donà and the conservation of their wealth, Baltimore 1975, ad Ind.; G. Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, Torino 1979, in particolare pp. 269 s.; M. P. Terzi, Una vicenda della Venezia seicentesca: l'amicizia e la corrispondenza tra Fulgenzio Micanzio e sir Dudley Carleton ambasciatore d'Inghilterra, tesi di laurea, univers. di Venezia, facoltà di lettere, a. a. 1979-80; E. Concina, L'Arsenale della Repubblica di Venezia, Milano 1984, pp. 43, 50n.