DINI, Antonio
Figlio di Pompeo e di Elena Tonini, nacque a Roma verso l'anno 1700, come si può dedurre dalla supplica da lui rivolta nel 1760 al Senato veneziano (Urbani de Gheltof, 1878), in cui richiedeva una sovvenzione destinata all'apertura di un laboratorio di arazzi in grado di ammaestrare all'arte almeno quattro o cinque giovani, dichiarando di essere da molto tempo dimorante in Roma e "giunto all'età di anni 60".
Molto giovane entrò come apprendista nell'arazzeria romana di S. Michele a Ripa, fondata nel 1710, di cui dal 1717 (e fino al 1770) era direttore Pietro Ferloni: è probabile quindi, ma non vi sono prove che possano attestarlo con sicurezza, che i suoi primi lavori vadano ricercati tra gli arazzi marcati dal Ferloni e usciti dall'arazzeria di S. Michele tra la fine del terzo e l'inizio del quarto decennio del secolo. Nel 1736 il D. era certamente a Venezia (ove gli nacque la figlia primogenita Lucia: atto di battesimo della parrocchia di S.Maria Formosa, in Urbani de Gheltof, 1878), dove ritornerà definitivamente nel 1754, dopo la chiusura del suo laboratorio torinese.
Dalla Nota de' lavori fatti nella fabbrica di alto liccio di S. M. sotto la direzione del capo arazziere signor Antonio Dini... dall'anno 1737 a tutto il 1754, già conservata nell'Archivio del ministero della Real Casa di Torino, dispersa nel 1912, ma trascritta dal Baudi di Vesme (pubblicata nelle Schede Vesme, I, 1963, e ripresa anche dalla Viale Ferrero nel 1952), si deduce che il D. nel 1737 si era già stabilito in Torino, dove era stato chiamato ad assumere la direzione del laboratorio di alto liccio della Regia Manifattura torinese degli arazzi appena istituita ufficialmente (17 luglio 1737, ma già funzionante almeno dal 1731), essendo a capo del parallelo laboratorio di basso liccio Vittorio Demignot; questa carica venne ufficializzata nel 1741 con l'assegnazione al D. di uno stipendio annuo di lire 1.500, con l'obbligo di lavorare in esclusiva per i Savoia e di ammaestrare "gl'imprendizi ed operai che sono e saranno in avvenire destinati sotto la sua direzione" (Schede Vesme, IV, p. 1258). Nel 1738 gli nacque in Torino la seconda figlia, Giuseppa, che insieme con la sorella gli si affiancherà in seguito nella direzione del laboratorio veneziano (atto di battesimo della chiesa della B. Vergine del Monte Carmelo, in Urbani de Gheltof, 1878).
Il primo lavoro del D. per la corte torinese (e anche la sua prima opera certa, non conoscendosi le opere romane) iniziato quindi nel 1737 è un "pezzo di tapezzeria sovrafina dell'Istoria di Alessandro" (Schede Vesme, I, p. 107).
Appartiene ad una serie comprensiva di undici pezzi destinati alla camera della regina, di cui nove tratti da bozzetti del pittore di corte Claudio Francesco Beaumont, preparati a cartone dagli allievi; sette di questi recano la marca di Vittorio Demignot, due furono tessuti certamente molti anni più tardi (1791-93 c.) da cartoni di Lorenzo Pécheux. Poiché la "Nota de' lavori" del D. (ibid.) non cita i soggetti degli arazzi, ma soltanto il peso complessivo ed il tipo del materiale utilizzato, non sempre essi possono essere identificati con sicurezza: per quanto riguarda l'Istoria di Alessandro, l'apporto del D. è limitato, secondo la Viale Ferrero (1963, p. 10), all'Alessandro rende omaggio a Rossana (Torino, palazzo reale), cui è pertinente l'unico cartone non in controparte (quindi sicuramente destinato alla lavorazione ad alto liccio; conservato al Museo civico di Torino), per il quale il 23 dic. 1737 fu pagato il pittore Ignazio Nepote.
Tra il 1741 ed il 1750 venne approntata la serie di dieci arazzi raffiguranti Storie di Cesare, destinati alla camera di parata del re al piano terra di palazzo reale (cfr. le recenti ricerche di Vittorio Natale, sintetizzate nella voce Demignot, in questo Dizionario XXXVIII [Roma 1990], pp. 644-648).
Sempre tratti da bozzetti del Beaumont, sei di essi sono marcati da Francesco Demignot (figlio di Vittorio e suo continuatore), mentre i restanti, privi di marca, sono menzionati nell'elenco dei lavori del D.: Incontro di Cesare e Cleopatra (cartone di Clemente Scarzella), Cesare ed il pastore Amiclate (cartone probabilmente eseguito nel 1741 da Andrea Martinez), Cleopatra si avvia al palazzo di Cesare (cartone dello stesso Andrea Martinez, pagatogli nel 1744), Il capo di Pompeo presentato a Cesare (cartone di Matteo Boys, pagatogli nel 1746). Tutti sono conservati nel palazzo reale di Torino.
Oltre a numerosi lavori di minore importanza (tappeti, coperte, rivestimenti di sedie e sgabelli), l'elenco delle opere del D. menziona, tra le serie precedentemente esaminate, anche otto "tappezzarie di bambochiate" e di paesaggio (dette in seguito anche tenières, in omaggio ad un gusto molto vivo in Piemonte fino ad oltre la metà del XVIII secolo di cui si vedeva l'origine, impropriamente, nel filone della pittura di genere olandese del '600), tratte da cartoni eseguiti dalla pittrice Angela Palanca, allieva e seguace di Pietro Domenico Olivero (oggi conservati alla palazzina di Stupinigi), da Francesco Antoniani e, più tardi (tra il 1753 ed il '63, quindi per arazzi realizzati dal solo Francesco Demignot), da Vittorio Amedeo Cignaroli. Questo complesso di arazzi è diviso tra il palazzo del Quirinale, il palazzo reale di Torino, il Museo civico e la soprintendenza ai beni artistici e storici di Torino. Databili agli anni 1748-50 sono le quattro Marine, tessute dal D. su cartoni dell'Antoniani, di cui solo due conservate, in cattive condizioni (Torino, pal. reale).
A partire dal 1749 venne posta sul telaio la Storia di Ciro, composta di dieci arazzi, due dei quali certamente eseguiti dal D. (gli altri vennero tessuti da Francesco Demignot).
Stando al peso complessivo del materiale menzionato nell'elenco dei suoi lavori, dovrebbero essere opere di non grandi dimensioni, pertanto ne è probabile l'identificazione - tutti gli arazzi di questa serie sono privi di marca - con il Soldato portabandiera e con il Guerriero che riceve gli ordini, entrambi a palazzo reale a Torino, che sono gli arazzi di minori dimensioni, dell'intera serie.
Ancora del D. sono tre arazzi raffiguranti architetture: uno grande (Guerriero tra architetture rovinate), databile al 1746-47, e due entrefenêtres più piccoli, eseguiti su cartoni di Francesco Antoniani, molto attivo a corte come pittore di paesaggi boscherecci e marinari (Torino, Museo civico). Le ultime opere del D. a Torino sono quattro pezzi della serie delle Storie di Annibale (tratta anch'essa da bozzetti del Beaumont), tessuta tra il 1749 ed il 1754: Annibale attraversa le Alpi (cartone spettante, secondo la Viale Ferrero, 1963, pp. 15, 24 a Matteo Boys), Il bottino di Canne (cartone di mano di Giovanni Domenico Molinari), L'esodo dei Cartaginesi (cartone ancora del Molinari) e, stando alle ricerche della Viale Ferrero (1952 e 1963), Lo stratagemma di Casilino, al cui cartone poté forse mettere mano il giovane Vittorio Amedeo Rapous. Questi arazzi sono tutti conservati nel palazzo reale a Torino.
Il D. si vide costretto a lasciare Torino alla fine del 1754, poiché il re di Sardegna Carlo Emanuele III ordinò la chiusura definitiva del laboratorio di alto liccio, "essendo stati informati che per il tenue numero dei lavoranti ... non ne convenga più il proseguimento" (Schede Vesme, IV); all'arazziere venne comunque assegnato dalla corte "un annuo trattenimento di lire ottocento", che sarebbe automaticamente cessato al conseguimento di una nuova attività. Trasferitosi a Venezia (città ove aveva soggiornato, come s'è visto, nel 1736), il D. indirizzò nel 1760 al Senato la citata supplica per l'apertura di un nuovo laboratorio: il decreto del Pregadi del 2 maggio 1761 approvava l'istanza da lui promossa, concedendogli "una tantum" una regalia di 500 ducati, più uno stipendio di 25 ducati mensili; con tale somma l'arazziere affittò un palazzo appartenente ai Mocenigo, situato in calle dei Morti, presso i Ss. Giovanni e Paolo, ove impiantò il laboratorio, che nel gennaio 1763 contava, oltre alle due figlie, sei scolari, due "soprannumerarli" e un "giovane forastiere" (Urbani de Gheltof, 1878).
La committenza veneziana, pur essendo più varia e composita rispetto a quella sabauda - limitata in pratica alla sola famiglia reale - nutriva propositi ed aspirazioni assai diverse e pertanto il D. fu costretto a passare dall'esecuzione di grandi arazzi raffiguranti fatti di storia antica, di carattere allegorico e celebrativo, alla produzione di piccole opere di carattere devozionale o di pratico utilizzo: nella sua attenta ricognizione, l'Urbani de Gheltof ricorda quattro coperte per le panche della Signoria in S. Marco; un "penello" o stendardo per la Congregazione di S. Maria Mater Domini; due immagini della Vergine e un parapetto per l'altare maggiore della chiesa di S. Bonaventura, dodici "schenali" ed altrettanti "sentari"; un tappeto per l'altare maggiore della chiesa di S. Maria della Fava; alcune "zenie" (tappeti da porsi sul fondo delle gondole, su cui venivano poggiati i piedi); sei sofà alla turca spediti ad Alessandria d'Egitto.
Di queste opere oggi sono ancora esistenti gli "schenali" ed i "sentari", coprenti gli stalli lignei di Andrea Brustolon, conservati all'Accademia (legato Contarini), il tappeto che funge da baldacchino al tempietto dell'altare maggiore della chiesa di S. Maria della Fava e lo stendardo processionale appartenente alla Congregazione del clero di S. Maria Mater Domini, raffigurante la Vergine (tratta da un cartone di Giovanni Battista Tiepolo), conservato al Museo Marciano.
Il D. morì in Padova il 18 luglio 1771 (Telluccini, 1926).
A partire dal 1769, forse per una malattia o semplicemente per la tarda età del padre, a capo del laboratorio di arazzeria subentrarono le figlie Lucia (nata a Venezia nel 1736) e Giuseppa (nata a Torino nel 1738): il 18 maggio 1769 per decreto dei Cinque savi riuscirono ad ottenere i medesimi privilegi di cui per lunghi anni aveva goduto il padre, potendo cosi continuare a dedicarsi alla tessitura di opere di piccole dimensioni, più consone ai gusti della conimittenza lagunare, e di tappeti. Nel 1773, evidentemente per carenza di commissioni, esse inviavano una nuova supplica ai magistrati "onde loro si desse alcun incarico ufficiale di qualche. lavoro", alla quale seguì il decreto del Pregadi del 6 maggio 1773, che incaricava il savio cassiere del Collegio e il magistrato alla Rason Vecchia di unire ai vari donativi da indirizzare a capi di Stato stranieri anche arazzi e tappeti tessuti dalle sorelle Dini e dai loro allievi (Urbani de Gheltof, 1878). Nel 1785 le due sorelle presentarono, su richiesta del magistrato, un rendiconto dei lavori da loro eseguiti nell'ultimo quinquennio, mentre nel 1798, mutate ormai le condizioni politiche (e verificatosi inoltre un radicale cambiamento di gusto che inevitabilmente portava in secondo piano una tecnica tradizionale come quella dell'arazzo), venne negato alle due sorelle l'emolumento mensile goduto in precedenza, tanto che esse furono costrette a presentare suppliche al governo imperiale per tentare di otteneme il ripristino, richiesta vivamente appoggiata anche dalla Cancelleria camerale, che tuttavia sembra avesse un esito negativo (Viale Ferrero, 1952), determinando quindi - anche per la tarda età delle Dini - la chiusura definitiva del loro laboratorio.
Fonti e Bibl.: Schede Vesme, I, Torino 1963, pp. 107s.; IV, ibid. 1982, pp. 1253 ss., 1257s.; C. Rovere, Descrizione del Real Palazzo di Torino, Torino 1858, p. 69; G.M. Urbani de Gheltof, Degli arazzi in Venezia, Venezia 1878, pp. 44-56, 79-95, 106-109; P. Gentili, Sur l'art des tapis, Roma 1878, pp. 58 s.; E. Müntz, Histoire générale de la tapisserie, I I, Paris 1884, pp. 81 ss.; J. Guiffrey, Histoire de la tapisserie, Tours 1886, pp. 394 ss:; L. De Mauri, L'amatore di arazzi e tappeti antichi, Torino 1908, pp. 63, 92; M. Zucchi, Della vita e delle opere di C. F. Beaumont, Torino 1921, p. 34; E. Possenti, La fabbrica degli arazzi di Torino, in Boll. della Soc. piemontese di archeol. e belle arti, VIII (1924), p. 5; A. Telluccini, L'arazzeria torinese, in Dedalo, VII (1926), pp. 108 s., 112-128; H. Göbel, Wandteppiche, II, Leipzig 1928: pp. 424, 452-455; N. Tarchiani, Arazzo, in Enc. Ital., III, Milano-Roma 1929, pp. 984 s.; C.G. Marchesini, Arazzi e arazzieri di Roma, in Capitolium, XIX (1944), p. 69; M. Viale Ferrero, in Arazzi e tappeti antichi, Torino 1952, pp. 74, 124-141, 149 s.; Id., C. Beaumont and the Turin Tapestry Factory, in The Connoisseur, CLXIV (1959), pp. 145-152; Id., Arazzi torinesi: le serie "storiche" e quelle "minori" in Antichità viva, II (1963), p. 27; Id., in Mostra del Barocco piemontese (catal.), II, Torino 1963, pp. 5 s., 9-20, 25, 27; O. Ferrari, Arazzi italiani del Sei e Settecento, Milano 1968, pp. 22, 32-36; L. Mallé, L'arazzeria torinese del Settecento, in Musei civici di Torino. Mobili e arredi lignei. Arazzi e bozzetti per arazzi, Torino 1972, pp. 508, 510; Id., Le arti figurative in Piemonte, II, Torino 1975, p. 169; M. Siniscalco Spinosa-S. Grandjean-M. King, Gli arazzi, Milano 1981, pp. 23 ss.; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, IX, p. 308; Encicl. univ. dell'arte, I, Venezia-Roma 1958, coll. 547 s.