DE CURTIS, Antonio (detto Totò)
Nacque a Napoli il 15 febbr. 1898, nel popolare rione Sanità. La madre, Anna Clemente, era nubile (lo crebbe assieme alla nonna), e tirava avanti con lavori saltuari; il padre sarebbe stato Giuseppe De Curtis, agente teatrale di stirpe nobile (era marchese), che sposerà comunque Anna Clemente nel 1921, trasferendosi con lei a Roma e riconoscendo il figlio. L'infanzia fu quella dei ragazzi dei vicoli napoletani: vita di strada, piccoli lavoretti provvisori, poca scuola. Per qualche tempo però fu ospite del collegio Cimino, uscendone prima della licenza ginnasiale; fu nel collegio che un istitutore lo colpì involontariamente rompendogli il setto nasale e così deformandogli le fattezze del volto.
Si era già messo in luce, per la capacità di imitare il prossimo, tra i compagni del collegio e nelle cosiddette "periodiche", piccole recite improvvisate a carattere familiare in uso a Napoli e nei dintorni fino al secondo dopoguerra. Suo idolo era il comico fantasista Gustavo De Marco, celebre per la capacità di "snodarsi" e disarticolarsi, di usare il proprio corpo in figurazioni marionettistiche. Forse già prima della guerra mondiale, attorno ai sedici anni, il D. debuttò imitandolo, con lo pseudonomo "Clerment", sui teatrini in legno che fiorivano attorno a piazza Garibaldi, cioè alla stazione centrale di Napoli, dove comparirono, alle prime armi, anche i fratelli De Filippo e molti altri attori napoletani. Nel 1915 si arruolò volontario; schivato abilmente l'invio in Francia pretestuando una malattia, riuscì a non andare mai al fronte. A guerra finita era deciso a dedicarsi al teatro; e si esibì, in compagnie provvisorie, operanti per lo più in provincia nelle cosiddette "recite staccate" di fine settimana. Si costruì rubacchiando a De Marco come a N. Maldacea ed a altri divi del momento, un piccolo repertorio di "macchiette" e di "soggetti", cui farà spesso ricorso in futuro per risolvere, in teatro o nei film interpretati dopo il 1947, momenti fiacchi dei copioni.
Il suo apprendistato proseguì a Roma, nel 1921, a fianco del "Pulcinella" Umberto Capece. L'anno seguente venne finalmente scritturato con compenso regolare dall'impresario G. Iovinelli, proprietario a Roma dell'omonimo teatro, che aveva già contribuito a lanciare R. Viviani e E. Petrolini, e aveva avuto sotto scrittura comici come De Marco e cantanti come Armando Gill, Gennaro Pasquariello, Alfredo Bambi. Dopo qualche sortita a Napoli, la sua consacrazione tra i nomi di spicco del varietà italiano avvenne al teatro Sala Umberto I di Roma, uno dei più importanti in questo genere di spettacolo.
Le macchiette che lo resero celebre furono quelle del Gagà, figura più volte ripresa e modificata, del Bel Ciccillo) del Biondo corsaro, di Otello, e altre ancora, rubate in genere ad altri. "Il mio corredo", raccontò più tardi, "era composto da un solo abito per la scena che andava sempre più logorandosi, senza una sia pur remota possibilità di sostituzione. Ebbi da qui l'idea di creare un "costume" che accentuasse la mia reale situazione vestiaria. Una logora bombetta, un tight troppo largo, una camicia lisa col colletto basso, una stringa di scarpe per cravatta, un paio di pantaloni "a saltafossi" comuni scarpe nere basse, un paio di calze colorate. Così nacque l'abito di Totò".
Il suo nome d'arte era ormai questo. Nella definizione del personaggio comico e nel suo passaggio a maschera concorsero molte influenze: oltre alle citate, anche Petrolini, quanto meno agli inizi, e l'"omino di Chaplin", che egli imitò sovente.
Il varietà, composto da "numeri di arte varia", stava lasciando il passo in quegli anni alla "rivista", che univa i "numeri" tra loro attraverso un tenue pretesto narrativo, con alcuni personaggi-guida per i quali il testo veniva scritto da autori prolifici e assidui come Ripp (Luigi Miaglia), Bel Ami (Anacleto Francini), Kokasse (Mario Mangini), Tramonti (Paolo Rampezzotti), ecc. Il D. agirà, come tanti, nell'una e nell'altra forma di spettacolo: nella secorida come primo attore comico, con la compagnia di Achille Maresca che presentava anche operette, a fianco di soubrettes come Isa Bluette e Angela Ippaviz, o con la Compagnia stabile napoletana Molinari dell'impresario Eugenio Aulicino, con cui aveva già lavorato ai suoi inizi, che gestiva il teatro Nuovo di Napoli. Per Aulicino il D. fu, tra l'altro, D'Artagnan in una parodia dei Tre moschettieri scritta da Kokasse e Maria Scarpetta, figlia, come i tre De Filippo, dell'attore e commediografo Edoardo Scarpetta, di cui il D. interpretò, sempre al teatro Nuovo, molte celebri farse, alcune delle quali doveva riprendere per il cinema nel corso degli anni Cinquanta. Nel 1931 Maresca gli affidò una compagnia di rivista cui venne dato il suo nome, che godeva ormai di notevole fama: erano finiti gli anni della miseria e dell'apprendistato.
La piccola compagnia girò l'Italia con un repertorio di copioni non certo eccelsi, ma nei quali l'attore poteva sbizzarrirsi nei suoi numeri comici, nelle macchiette musicali, nei finali per i quali meritò l'appellativo di "uomo caucciù" (che alcuni gli avevano dato per le sue capacità di contorsionista, il cui fisico sembrava non rispettare la legge di gravità e le abituali limitazioni del corpo umano), per gli sketches che a volta a volta riprendevano vecchi copioni anonimi della tradizione napoletana (La camera fittata per tre, La scampagnata dei tre disperati, Il cafone al ristorante ...) o lo vedevano in bizzarri travestimenti alle prese con situazioni che scivolavano volentieri nell'assurdo. La sua comicità faceva ormai leva su due costanti: una mimica corporea e facciale di inedita ricchezza (la marionetta), e un'aggressività che trovava nella parola il suo principale strumento di espressione, parodiando il linguaggio aulico della borghesia avvocatesca dell'epoca.
Il D. fu spesso, in teatro, un "nuovo al mondo", un ingenuo che con la sua mancanza di condizionamenti sociali e di "buona educazione" ne svelava il funzionamento e ne distruggeva le apparenze; oppure un poveraccio (ma anche un sussiegoso piccoloborghese) che rivendicava, senza rispetto per nessuno, la soddisfazione dei suoi istinti primari di cibo, di sesso, di spazio, di riconoscimento: "un personaggio aggressivo, bugiardo, cocciuto, ipocrita", secondo lo stesso Totò.
Alle vecchie macchiette si erano aggiunti in repertorio "numeri" come l'Adamo di Monna Eva (1929), il Cajo Silio di Messalina (1929), Totò Charlot per amore (1930), Il prestigiatore (1931), il finto pazzo di Fra moglie e marito la suocera e il dito, La mummia vivente, il Dongiovanni, e molti altri spesso per riviste che scriveva egli stesso, come L'ultimo Tarzan che nel 1939 concluse la fertile stagione degli anni Trenta. Portate in tournée in quasi tutte le province italiane, queste riviste gli valsero l'ammirazione e il consenso di alcuni intellettuali (Cesare Zavattini, Umberto Barbaro, Renato Simoni, Marco Ramperti, ecc.) ma soprattutto l'adesione di un pubblico sempre più numeroso. Dal 1932 egli era anche capocomico, dirigeva una sua compagnia con proprie soubrettes, e aveva per "spalle" (i comici che gli "davano la battuta" e lo seguivano nelle sue improvvisazioni a soggetto) Mario Castellani, il più fedele fra tutti, il pugliese Guglielmo Inglese, suo cugino Eduardo Passarelli. Ma le "piazze" che egli copriva erano ancora quelle povere dell'avanspettacolo, che offriva un rapido susseguirsi di numeri legati tra loro da un filo assai esile, per la durata di tre quarti d'ora o un'ora, in attesa della proiezione cinematografica.
Il cinema era la forma di svago collettivo dominante, negli anni Trenta e ancora fino ai Cinquanta, in Italia, e la rivista era divisa in avanspettacolo - rivista per i poveri - e la rivista vera e propria - data nei teatri migliori, con messinscene sfarzose e per un pubblico che si presumeva meno "volgare" e di miglior gusto. In essa dominava negli anni Trenta Erminio Macario, in società con Wanda Osiris: lusso, donnine, un umorismo blando privo di azzardi e rotture. Totò era ancora confinato al teatro minore. Fu qui che la sua comicità e la sua maschera si definirono, nel contatto con il pubblico che il perbenismo del regime fascista non toccava, certo "volgare" ma di una volgarità popolare che trovava nel comico il suo sfogo e la sua rivalsa.
Furono dozzine le piccole riviste che il D. mise in scena nel corso del decennio, conquistando infine quell'agiatezza che gli permise di compiacere una sua ossessiva mania: quella della nobiltà. L'essere nato figlio di N.N. era stato un rovello costante della sua vita, ed egli cominciò in quegli anni ad accumulare titoli nobiliari - attraverso complicate ricerche araldiche - spesso comprandone. Nel 1933 si era fatto adottare da un vecchio principe in miseria, Francesco Maria Gagliardi Focas, per poterne ereditare il lunghissimo elenco di titoli. Nello stesso periodo, dopo il suicidio di una cantante da lui abbandonata, Liliana Castagnola, aveva incontrato una giovanissima ragazza fiorentina di cui fece la sua compagna, Diana Bandini Rogliani, dalla quale nel 1933 ebbe una figlia, Liliana, e che sposò nel 1935. Il matrimonio venne annullato in Ungheria nel 1939, anche se vissero assieme fino al 1950.
Nel 1937 il cinema si era accorto del D. proponendogli per il tramite del produttore Gustavo Lombardo l'interpretazione di Fermo con le mani, su soggetto di Guglielmo Giannini e regia di Gero Zambuto, e nel 1939 Animali pazzi, su soggetto di Achille Campanile e regia di Carlo Ludovico Bragaglia. Il primo era una charlottiana e sconclusionata divagazione che gli permetteva di esibirsi nei suoi aspetti più marionettistici. Il secondo, grazie al soggettista, noto per un pacato umorismo fitto di trovate surreali, fu decisamente più interessante, ma il D. non vi appariva ancora a suo agio, privato come era della "volgarità" e condizionato dal copione nelle sue improvvisazioni. Fino al dopoguerra la sua presenza nel cinema italiano fu secondaria, affidata ad altri quattro film il più importante dei quali, San Giovanni Decollato (1940, diretto da Amleto Palermi), portava allo schermo una commedia dialettale del siciliano Nino Martoglio, un "cavallo di battaglia" di Angelo Musco. Contribuì alla sceneggiatura Cesare Zavattini, che avrebbe dovuto in un primo tempo dirigerlo e che poco dopo scrisse per lui il soggetto Totò il buono, portato allo schermo da V. De Sica con il titolo Miracolo a Milano molti anni dopo e senza Totò; in questo film il D. ondeggia per la prima volta tra le tentazioni della maschera e la definizione di un carattere.
Della sua presenza in uno di questi film, Due cuori fra le belve (1943, di Giorgio C. Simonelli), ebbe a scrivere Giuseppe De Santis, più tardi regista del neorealismo: "Totò è un grande mimo... A nessuno più di lui si addice alla perfezione quel famoso dialogo di Kleist sulle marionette. Sembra svitabile come Pinocchio... Sorprendente è anche l'estrema mobilità del suo viso oblungo... certo è indiscutibile una sua parentela con certi animali domestici, così come non è lontano dalla struttura fisica di Buster Keaton..." (Cinema, 10 luglio 1943).
Uomo di teatro, Totò dedicava al cinema scarsa attenzione, tanto più che in quegli anni, gli anni della guerra, l'incontro con un autore quale Michele Galdieri e con una soubrette quale Anna Magnani gli permise quel trionfo sui principali palcoscenici della penisola cui da tempo aspirava. Le riviste, non più di avanspettacolo, che egli produsse e interpretò si chiamavano Quando meno te l'aspetti (1940), Volumineide (1942), Orlando curioso (1942), Che ti sei messo in testa? (1944), Con un palmo di naso (1944).
Totò aveva conquistato il pubblico "di lusso" con spettacoli scritti con indubbia finezza da Galdieri su misura sua e del prorompente estro popolaresco della Magnani. Galdieri elaborò impalcature solide ed eleganti, che servivano bensì di contorno per sketches che lasciavano a Totò tutta la possibilità d'intervenire ancora "a soggetto". Lo sketch più celebre di Totò appartiene a una rivista di Galdieri del dopoguerra, C'era una volta il mondo (1947), e s'intitolava L'Onorevole in vagone letto. Era all'inizio molto breve, ma, replica dopo replica, raggiunse i quaranta-cinquanta minuti, il tempo di un atto unico, ed è possibile goderlo nella riproposta che Totò, affiancato da Isa Barzizza e Mario Castellani, ne offrì nel film Totò a colori (1952). L'aggressività della maschera, irriverente e violenta, si applicava alla distruzione del personaggio di un uomo politico. Non minore irriverenza c'era nelle riviste precedenti. Il controllo censorio operato dal ministero della Cultura popolare si era allentato, in tempo di guerra, permettendo una qualche satira della vita quotidiana del paese in quegli anni difficili: la comicità svolgeva una funzione, da sempre ambigua, di corrosione dei luoghi comuni e della retorica del potere, di cui il potere sapeva servirsi per offrire al pubblico uno sfogo tuttavia controllabile. Le facili allegorie e l'ammiccante e prudente moralismo di Galdieri venivano però scavalcati dall'attore, che vi pescava occasioni per un suo intervento ben più graffiante, ancora attraverso personaggi di "nuovi al mondo" come Pinocchio, Orlando ("curioso" e non furioso), o il Figlio di Jorio (in Che ti sei messo in testa?) che si destava dal suo lungo sonno nella Roma dell'occupazione nazista e dell'oscuramento, dei tesseramento dei viveri e della borsa nera. L'aspetto marionettistico di Totò aveva modo di esprimersi al meglio nelle "passerelle" finali o in figurazioni come quelle del Manichino, creato da Totò nel 1938 e ripreso con Galdieri, o nella prima rivista della Liberazione, Con un palmo di naso, con le due figure di un Hitler isterico e allucinato, o di un nuovo e ambiguo Pinocchio in cui si esprimeva imprevedibilmente un Mussolini tradito dal Gran Consiglio.
Dopo Che ti sei messo in testa?, il cui titolo primitivo era, con allusione agli occupanti tedeschi, Che si son messi in testa?, e in cui Aligi-Totò terminava una scena con le battute: "Io penso alle mie pecore / che han smesso di belar", i nazisti ordinarono il suo arresto, cui l'attore sfuggì nascondendosi in casa di amici insospettabili fino all'arrivo delle truppe alleate. Secondo varie testimonianze il D. avrebbe anche contribuito con grosse somme a finanziare la Resistenza romana.
Gli anni dell'immediato dopoguerra videro Totò protagonista di riviste quali Un anno dopo (1945, di Oreste Biancoli), che satireggiava in particolare la presenza degli Americani nella capitale; Ma se ci toccano nel nostro debole... (1947, di Nelli, Mangini, Garinei e Giovannini); la citata C'era una volta il mondo (1947, di Galdieri) e Bada che ti mangio! (1949, di Galdieri e Totò). Si trattava di riviste sfarzose, con un Totò in gran forma, e con nuove soubrettes in sostituzione della Magnani lanciata nel cinema da Roma città aperta, ma i cui contenuti proponevano la satira della nuova vita politica italiana in un'ottica che spesso sfociava nella nostalgia del passato regime.
L'attore, peraltro, non aveva nascosto ai tempi del referendum del '46 le sue simpatie monarchiche, coerentemente alle origini nobiliari che gli erano state riconosciute legalmente in più processi.
Sempre più si andava precisando una sorta di schizofrenia tra l'immagine pubblica di Totò attore comico di vena anarcoide, e il principe Antonio de Curtis, che, smessi i panni dell'attore, era un cittadino ricco e ossequiente, riservatissimo, compassato, iscritto, come si scoprì alla sua morte, alla massoneria.
Nel 1947, per utilizzare scenografie e costumi di un melodrammatico Fiacre n. 13, il regista Mario Mattioli impiegò Totò (con "spalla" Carlo Campanini) in un film dalla sceneggiatura raffazzonata ma piena di incongrui riferimenti satirici alla realtà italiana del dopoguerra, I due orfanelli. Il successo fu clamoroso, e Totò diventò in breve tempo il divo numero uno della nostra cinematografia. A quel film seguirono Fifa e arena (1948, di Mattoli), Totò al giro d'Italia (1948, di Mattoli), Totò cerca casa (1949, di Steno e Monicelli), Totò le Mokò (1949, di Bragaglia), L'imperatore di Capri (1950, di Luigi Comencini), Totò cerca moglie (1950, di Bragaglia), Tototarzan (1950, di Mattoli), Totò sceicco (1950, di Mattoli), e via via decine di altri. Vituperati dalla critica, essi fecero di Totò un personaggio amatissimo da un pubblico popolare, che vi scopriva l'irruenza primigenia della maschera, ma anche la propria fame e ansia di riconoscimento, in un rapporto immediato con le proprie frustrazioni.
In essi Totò riprendeva sovente sketches, macchiette, canzoni, a solo del suo teatro, assistito da sceneggiatori e registi che si limitavano a offrirgli canovacci sui quali potesse intervenire con le sue doti di improvvisazione, e da "spalle" di provata esperienza teatrale, in grado di seguirlo e "dargli la battuta C. Campanini, il fedele Castellani, Alda Mangini, Giacomo Furia, Aroldo Tieri, Gianni Agus, Guglielmo Inglese, Luigi Pavese, e più tardi De Sica, Fabrizi, Macario, Dante Maggio, Passarelli, Clelia Matania, Dolores Palumbo, Titina De Filippo, Enzo Turco, Carlo Croccolo, Tina Pica, Paolo Stoppa, Gino Cervi e soprattutto il bravissimo Peppino De Filippo.
"Da allora e sino al 1956-57 almeno un film dì Totò è sempre compreso nell'elenco dei primi dieci classificati stagione per stagione", scrisse Vittorio Spinazzola sulla rivista Ferrania nel 1964. "Nei circa quaranta film di questo periodo, Totò è un povero diavolo a metà ingenuamente sprovveduto a metà furbescamente sagace, aspirante alla bella vita e condannato a vivere di espedienti, smanioso di imporre la sua autorità e sempre tiranneggiato, beffato, incapace di ottenere rispetto... Sotto i cieli più diversi, nelle situazioni più impensate il personaggio è sempre animato da una inconfondibile carica qualunquisticamente anarchica, tanto sfrenata nelle intenzioni quanto velleitaria e grottesca nei fatti".
Nei vent'anni fino alla morte, il D. lavorò incessantemente per il cinema, per lo più in questo tipo di film e in ruoli assai simili. Vi furono tuttavia alcune eccezioni. Se Totò cerca casa trasformava in farsa uno spunto tipico del cinema neorealista, e se in Yvonne la Nuit (1949, di Giuseppe Amato) il suo personaggio si era già fatto più patetico che comico, in Napoli milionaria (1950) egli fu al fianco di Eduardo De Filippo nell'adattamento cinematografico che questi diresse della sua celebre commedia sugli effetti della guerra a Napoli; in Guardie e ladri (1951, di Steno e Monicelli), fu un eccellente "ladro" contrapposto alla "guardia" Fabrizi in una commedia dolce-amara di impronta nettamente neorealista; in Totò e Carolina (1953, degli stessi registi, su soggetto di Ennio Flaiano) un umanissimo carabiniere incaricato di riportare al paese una giovane prostituta, e in Dov'è la libertà? (1952, di Roberto Rossellini) un carcerato che, liberato, scopriva l'orrore della vita quotidiana nella Roma postbellica e tornava in carcere con una evasione alla rovescia. Il suo film di maggiore successo fu però, in quegli anni, Totò a colori (1952, di Steno), primo film italiano girato a colori, che altro non era che un'antologia di suoi famosi sketches teatrali. In 47 morto che parla (1950, di Bragaglia), si era cimentato con Petrolini e Molière (L'avaro); in Totò e i re di Roma (1952, di Steno e Monicelli), con due racconti di Cechov; in L'uomo, la bestia e la virtù (1953, di Steno) e nell'episodio La patente del film Questa è la vita (1954, di Luigi Zampa), con Pirandello; in Sette ore di guai (1951, di Metz e Marchesi) e nei tre film di Mattoli Un turco napoletano, Miseria e nobiltà e Il medico dei pazzi (1953-54), con il già frequentato Scarpetta. Ma anche questi soggetti erano piegati alle necessità della sua maschera, e ne derivavano a volte alcune inedite stridenze.
L'interpretazione più lodata del periodo resta, assieme a quella in Guardie e ladri, quella del "pazzariello" in L'oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica, su soggetto di Giuseppe Marotta adattato da Zavattini. La critica, che disprezzò in genere il Totò maschera "volgare" più amato dal pubblico, lo apprezzò invece quando fu più "personaggio" e più "umano". La sua "filosofia" il D. la espresse peraltro in Siamo uomini o caporali? (1955, di Camillo Mastrocinque), che firmò come autore del soggetto. In questo "chapliniano" resoconto delle disgrazie di un italiano prima durante e dopo la guerra, le realtà umane si essenzializzano nella contrapposizione tra "uomini" e "caporali", tra vittime e prepotenti, i quali ultimi (incarnati tutti da Paolo Stoppa), si presentavano volta a volta nelle vesti di un milite fascista, il direttore di un Lager, un ufficiale americano, un direttore di giornale, un industriale. Che questa primaria distinzione e "filosofia" fosse per il D. radicato convincimento lo dimostra la sua presenza al fondo di sue espressioni meno legate al mestiere d'attore, come in alcune poesie dialettali ('A livella), o in alcune canzoni - qui, soprattutto in rapporto alle donne (Malafemmina) - o nel volume autobiografico Siamo uomini o caporali? (Roma 1952, scritto in collaborazione con A. Ferraù ed E. Passarelli), che precedette l'omonimo film.
La stampa si occupò spesso in questi anni dei suoi molti amori, e in particolare di quello che lo legò dal 1952 a Franca Faldini, giovane attrice reduce da una esperienza di starlet a Hollywood, che gli fu fedele compagna sino alla morte. Si parlò molto, nel 1954, della gravidanza extramatrimoniale della Faldini, conclusasi dolorosamente con la morte del neonato Massimiliano. Sul finire del 1956 l'attore decise di tornare al teatro con una nuova rivista, A prescindere, di Nelli e Mangini, con moderato successo. Durante la tournée venne colpito da broncopolmonite virale e, a Palermo, da un abbassamento della vista in scena (i suoi occhi erano già stati colpiti durante la lavorazione di Totò a colori, per le fortissime lampade utilizzate). Per oltre un anno restò completamente cieco, e quando tornò al cinema nel 1958 il suo fisico era duramente provato e la vista irrimediabilmente ferita. Continuò tuttavia a lavorare indifessamente in film di buon livello, quali I soliti ignoti (1958, di Monicelli), Arrangiatevi (1959, di Bolognini), Risate di gioia (1960, di Monicelli) che lo vide di nuovo a fianco della Magnani, La mandragola (1965, di Alberto Lattuada), ma soprattutto, anche se la sua presa sul pubblico era calata, in piccole opere - spesso mediocrissime - costruite appositamente su di lui e nelle quali il suo estro comico impareggiabile continuò a rifulgere. In particolare: Letto a tre piazze (1960, di Steno), Totò, Peppino e la dolce vita (1961, di Sergio Corbucci), Totò-truffa n. 2 (1961, di Mastrocinque), Totò Diabolicus (1962, di Steno), Che fine ha fatto Totò Baby? (1964, di Ottavio Alessi). Nei due ultimi espresse una vena macabra e mortuaria già affiorata in alcuni film precedenti, in particolare in La patente.
Fellini aveva pensato di farne uno dei protagonisti del suo Il viaggio di G. Mastorna, Bolognini di un adattamento de I fratelli Cuccoli di Palazzeschi, e prima ancora L. Visconti aveva scritto per lui il soggetto di una Vita di Petito (il grande Pulcinella dell'Ottocento) assieme a Suso Cecchi D'Amico: tutti film che non vennero, per un motivo o per l'altro, realizzati. Lo stesso Totò aveva proposto a più produttori, senza esito, un film totalmente muto da lui ideato e interpretato, nell'intento di conquistare un pubblico, quello straniero, che le difficoltà di doppiaggio gli avevano sempre allontanato (e forse il film avrebbe permesso la liberazione della essenza linguistica del D. - quella di grande mimo -, sempre rattenuta da esigenze funzionali al copione, dalla subalternità alla parola e al parlato e, in fondo, dalla cultura dell'epoca e dalla carriera stessa di Totò). Fu Pier Paolo Pasolini a utilizzarlo genialmente negli ultimi anni della sua vita, in Uccellacci e uccellini (1966), e negli episodi La terra vista dalla luna (per il film Le streghe, 1967) e Che cosa sono le nuvole (1967, distribuito nel 1968, per il film Capricci all'italiana), rispettando le sue caratteristiche ma inserendole in personalissimi apologhi su storia e natura, mondo sviluppato e mondo del sottosviluppo, crisi del marxismo e fine delle ideologie.
La vita privata dell'attore, assistito da Franca Faldini, dal cugino e segretario Eduardo Clemente e dall'autista Carlo Cafiero, si limitava ormai a sporadiche apparizioni in pubblico e a un'instancabile attività di benefattore, al cui interno fece spicco la fondazione di un ospizio per cani randagi. I suoi guadagni non erano eccelsi: aveva sempre preteso poco dai produttori, e costantemente dilapidato i suoi proventi. Nel 1967 accettò di partecipare a una serie televisiva, Tutto Totò, che ripropose i suoi sketches più noti ma con scarsa originalità. L'attore vi si mostrava particolarmente stanco e provato. Meditava di tornare al teatro con Napoli notte e giorno di Viviani, per la regia di Giuseppe Patroni Griffi, ma il 13 aprile, sul set di Padre di famiglia di Nanni Loy, le sue condizioni fisiche si aggravarono (venne sostituito da Ugo Tognazzi). Morì due giorni dopo, il 15 apr. 1967 - a seguito di un'ennesima crisi cardiaca - a Roma nella sua casa di viale Parioli, assistito da Franca Faldini. Venne sepolto a Napoli, nella cappella di famiglia che aveva fatto costruire nel cimitero del Pianto a Poggioreale, dopo un funerale nella chiesa del Carmine cui prese parte un'immensa folla.
Fonti e Bibl.: Mem. autobiogr. di Totò sono desumibili dal suo volume, scritto in collaborazione con Alessandro Ferraù e Eduardo Passarelli, Siamo uomini o caporali?, Roma 1952. Una antologia di suoi articoli e interviste è stata raccolta in F. Faldini-G. Fofi, Totò, l'uomo e la maschera, Milano 1977, pp. 139-158. Totò è altresì autore di due raccolte di poesie e canzoni 'A livella, Napoli 1964, più volte ristampata, e Dedicata all'amore, ibid. 1977, ristampata nel 1985. Sketches teatrali scritti dal solo Totò o in collaborazione con altri (M. Galdieri, P. Rampezzotti, A. Francini, G. Inglese ecc.) sono stati raccolti da G. Fofi nel volume Il teatro di Totò (1932-46), Milano 1976, ristampato come Quisquilie e pinzillacchere, Roma 1980.
Nel volume citato di Faldini-Fofi, la prima ha steso col titolo Quindici anni con A. D., pp. 5-84, le sue memorie di compagna dell'artista e una ricostruzione accurata della sua biografia. Dati biografici attendibili figurano alle pp. 24-33 del volume di O. Caldiron, Totò, Roma 1980, ristampato nel 1983, che contiene una documentata filmografia e teatrografia dell'attore e testimonianze sulla vita e la carriera di Totò di attori, registi, sceneggiatori che con lui hanno lavorato (pp. 35-74). Altre testimonianze sono raccolte in Faldini-Fofi, pp. 217-35 (di particolare rilievo quelle di M. Mattoli, M. Monicelli, P. P. Pasolini), e nei due volumi a cura di F. Faldini-G. Fofi, L'avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935-59, Milano 1979, e 1960-69, ibid. 1981 (a pp. 37 s., 179 ss. e 289-95 del primo volume, e pp. 123 s., 175 s., 183 e 394 dei secondo). Ancora altre testimonianze offrono il volume a cura di S. De Matteis, M. Lombardi e M. Somarè, Follie del varietà, 1890-1970, Milano 1980, pp. 140, 207 s., 228-38 e 361 ss., e il n. 297 dei Cahiers du cinéma (Paris), febbraio 1979, pp. 19-44. Esistono due biografie di Totò: V. Paliotti, Totò, il principe del sorriso, Napoli 1973 e G. Governi, Totò, Milano 1980; la prima non offre materiali originali, la seconda è basata su un ciclo di trasmissioni televisive dedicate dall'autore a Totò, e su interviste e ricerche fatte in quell'occasione.
Del teatro di Totò si occupano i volumi di L. Zurlo, Memorie inutili, Roma 1952, pp. 172-78 (Zurlo fu censore per conto del ministero della Cultura popolare negli anni del fascismo); D. Falconi-A. Frattini, Guida alla rivista e all'operetta, Milano 1953; L. Ramo, Storia del varietà, Milano 1956; M. Mangini, Il café-chantant, Napoli 1967; V. Viviani, Storia del teatro napoletano, Napoli 1969, pp. 885-88; O. Vergani, Abat-jour, Milano 1973; Sentimental, a cura di R. Cirio-P. Favari, Milano 1975; M. Morandini, Gli anni d'oro della rivista, Milano 1978. Li ricordiamo in quanto gli autori furono testimoni diretti delle vicende analizzate. Per il cinema, si vedano invece i libri citati di Faldini-Fofi e di Caldiron.