DALLE BINDE (Delle Binde), Antonio
Nacque a Padova, probabilmente agli inizi del sec. XIV, da famiglia di origine forse popolare.
Il Lazzarini, cui si deve la ricostruzione storica e documentaria della figura del D., corresse (Marino Faliero, p. 315) le deduzioni di E. Cicogna (Della Leandreide, p. 455). che sulla scorta dell'anonimo autore del poema - probabilmente quattrocentesco - sugli amori di Ero e Leandro, dove il D. è citato tra i molti poeti veneziani del XIV secolo, e di copie delle cronache Savina e Sanuto che omettono di citarne la patria, lo ritenne sicuramente veneziano.
Dalla natia Padova, in una data che ignoriamo ma comunque prima dell'aprile del 1348, il D. si trasferì a Venezia. Esistono tracce della sua presenza nella città lagunare relative a quest'epoca: sappiamo, infatti, che il 1° aprile di quell'anno Domenico Vitturi da S. Maria Formosa "rogavit fieri cartam securitatis Anthonio a bimdjs [sic] de Padua S. Angellj..." (Lazzarini, Marino Faliero, p. 315) per un importo di venti ducati d'oro, di cui veniva trattenuta una parte per precedenti pendenze. Dal documento in questione apprendiamo ancora che il D. risiedeva, a Venezia, nella contrada di S. Angelo. Nell'anno successivo troviamo il D. nel ruolo di scrivano alla Tavola dei Lombardi, un ufficio adibito all'esazione dei dazi sulle merci della Lombardia.
L'occupazione non doveva certo essere tra le più prestigiose se, come si legge in un documento dell'Archivio di Venezia, nell'aprile del 1349 i suoi superiori all'ufficio dei dazi decisero che al D. fossero annualmente assegnati trenta ducati d'oro, quale ricompensa dell'ottima sua prestazione e per consentirgli almeno di vivere, seppur modestamente ("... cuin de salario quod habet ad presens non potest ducere vitam suam...", Lazzarini, Marino Faliero, p. 316). Indirettamente sappiamo della sua presenza a Venezia nel 1350 da una deposizione testimoniale di Pietro Cavazza prete di S. Giuliano, il quale rammentava di essere stato, con Marco Dandolo, verso il 1350 in agosto, nella casa del D. posta nella contrada di S. Vitale ("in domo Anthonij da le binde", Lazzarini, ibid., p. 316); contrada attigua a quella di S. Angelo, il che può forse spiegare la diversità dell'indicazione. Dopo tale data le tracce del D. si perdono. Possiamo soltanto dedurre che egli continuasse a risiedere stabilmente a Venezia ma, in realtà, nulla sappiamo della sua vita fino alla sua partecipazione alla congiura del doge Marino Faliero, dell'aprile del 1355.
Secondo le cronache contemporanee il ruolo del D. nella congiura sarebbe stato tra i più importanti. Sembra, infatti, che il D. facesse parte del ristretto gruppo di coloro che erano al corrente della funzione effettivamente svolta dal doge come ispiratore della cospirazione, mentre la maggioranza dei partecipanti ignorava l'effettiva responsabilità di Marino Faliero (Lazzarini, Marino Faliero, p. 159). Oltre a ciò, comunque, null'altro si conosce dell'attività dei D. in seno alla congiura e dei motivi della sua partecipazione all'evento, poi mai realizzatosi grazie alle confidenze fatte da uno dei partecipanti ad un amico patrizio.
Il tentativo, che avrebbe dovuto aver luogo la sera del 15 apr. 1355, fu scoperto in anticipo. Seguì una fuga generale dei personaggi coinvolti nella vicenda. Tra questi troviamo menzionato il D. che, arrestato con altri a Chioggia il giovedì 16 aprile, fu poi ricondotto a Venezia dove di lì a qualche giorno sarebbe stato impiccato, insieme ad altri congiurati, ad una "balconada" della loggia del palazzo ducale; proprio in quella parte che si soleva allora chiamare palazzo vecchio, da dove il doge era uso guardare, il giovedì di carnevale, la festa della caccia che si svolgeva nella piazzetta (Lazzarini, Marino Faliero, p. 181).
Del D. si conosce un sonetto, "Diletto nostro charo, la toa rima", che il codice Riccardiano 1103 [0.11.10] (una volta a c. 121a e una volta a c. 124b, con varianti) gli attribuisce in risposta al sonetto, "S'io potesi saper chon vera stima" (c. 121a) di maestro Antonio, probabilmente Antonio Beccari, rimatore più noto con il nome di maestro Antonio da Ferrara. La tenzone ha origine dal desiderio di maestro Antonio di sapere dal doge la "forma del chonbater" che si tenne alla battaglia navale di Alghero (La Lojera), durante la quale, negli ultimi giorni dell'agosto del 1353, fu sconfitta l'armata genovese. Lo scopo del rimatore è quello di dare l'avvio alla composizione di un carme degno di celebrare il glorioso avvenimento. Della risposta viene, appunto, incaricato il D. il quale vi mette mano in data che rimane per noi incerta. Nulla di sicuro si ricava, infatti, dal contenuto dei due componimenti se non che, ovviamente, essi furono redatti in data posteriore all'agosto dell'anno in questione. Il Lazzarini (Rimatori veneziani, p. 35) ha da sempre inteso che il doge, molto probabilmente, fosse appunto il Faliero, per seguire le sorti del quale il D. finì impiccato e di cui, certamente, dovette essere familiare. Si tratterebbe, quindi, di collocare il sonetto nel periodo dopo il 5 ott. 1354 (che segna l'inizio effettivo del dogato Faliero) e prima della sconfitta dell'ammiraglio Pisani, il vincitore di Alghero, che ebbe luogo a Portolongo il 4 nov. 1354, sconfitta che avrebbe reso impossibile la menzione del "franco Nicholò" (Pisani) che "anchor relucie di valore e d'ardir par eser parcho" (Lazzarini, Rimatori veneziani, p. 35). Il Levi, cui si deve, invece, la ricostruzione storica della figura di Antonio da Ferrara, non ritenendo persuasivi gli argomenti del Lazzarini, propone di antedatare i sonetti al dogato di Andrea Dandolo, sulla base della presenza attestata di maestro Antonio a Venezia nel novembre del 1353 (Levi, Antonio e Nicolò da Ferrara, p. 242). In quella data, infatti, il Beccari si ritrovò nella città veneta con l'amico Petrarca che dovette probabilmente favorire il suo inserimento nella società dei potenti dell'epoca. Motore della richiesta al doge sarebbe stato, quindi, lo stato di necessità del rimatore ferrarese, che sperava in tal modo di attingere alle cronache ufficiali per comporre appropriatamente un cantare sugli avvenimenti citati, da cui ricavare denaro. Non v'è quindi ragione, secondo il Levi, di discutere sull'identità del doge Andrea Dandolo, al quale, del resto, il Beccari indirizzò anche un altro sonetto, "Poscia che Troia dal vigor de Grezia", dove si ripetono le lodi del doge in maniera analoga a "S'io potessi saper con vera stima" (Levi, Antonio e Nicolò da Ferrara, p. 243). Convinzione, questa, condivisa anche nella più recente edizione critica delle rime del Beccari (Maestro Antonio da Ferrara, Rime, pp. 24, s.).
Fonti e Bibl.: M. Sanuto, Vitae Ducum Venetorum, in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXII, Mediolani 1733, col. 634; M. Foscarini, Della letteratura veneziana, I, Padova 1752, pp. 318 s.; G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita, e le opere degli scrittori viniziani, I, Venezia 1752, p. 292; G. Lami, Catal. codicum manuscriptorum qui in Bibliotheca Riccardiana Florentiae adservantur, Liburni 1756, p. 33; S. Romanin, Storia docum. di Venezia, III,Venezia 1855, p. 188; E. Cicogna, Della Leandreide. Ragionamento, in Mem. dell'I. R. Istituto veneto di scienze lettere e arti, VI (1857), pp. 429, 455; V. Lazzarini Rimatori veneziani del sec. XIV, Padova 1887, pp. 16, 33 ss. e testo del sonetto a p. 36; Id., Un rimatore Padovano del Trecento, in Miscell. nuziale Rossi-Teiss, Bergamo 1897, pp. 257-264 (su questi ultimi si vedano le recensioni rispettivamente in Giornale stor. della letteratura italiana, t. X [1887], pp. 429 s. e ibid., t. XXXI [1898], p. 169); S. Morpurgo, I manoscritti della R. Biblioteca Riccardiana di Firenze, Roma 1900, I, pp. 117 s.; A. Medin, La storia della Repubblica di Venezia nella Poesia, Milano 1904, pp. 74, 486; E. Levi, Antonio e Nicolò da Ferrara. Poeti e uomini di corte del Trecento, in Atti e mem. della Deput. ferrarese di storia patria, XIX (1909), 2, pp. 240-244; V. Lazzarini, Marino Faliero, Firenze 1963, in particolare il cap. Un rimatore padovano del Trecento, succitato, alle pp. 315-318; Maestro Antonio da Ferrara, Rime, a cura di L. Bellucci, Bologna 1967, p. ccxx, e, per il testo dei sonetti pp. 139 s., 241 s. per le note e il commento ai testi riportati.