SALUZZO, Antonio
da. – Nacque in data non lontana dal 1330 da Manfredo V di Saluzzo, secondogenito del marchese Manfredo IV, e forse da Eleonora, figlia di Filippo di Savoia principe d’Acaia.
La paternità è certa, poiché Manfredo V, nel testamento redatto a Milano il 5 agosto 1389, nomina il figlio Antonio qualificandolo arcivescovo (G.B. Moriondo, Monumenta Aquensia, II, 1790, pp. 498 s.). Per la madre sussiste la difficoltà che Eleonora (che nel 1389 risulta sepolta a Pavia) sarebbe morta nel 1350 (Goffredo della Chiesa, Cronaca di Saluzzo, a cura di C. Muletti, 1846, p. 258), mentre la madre dell’arcivescovo era viva nel 1377 (Milano, Archivio storico della diocesi, Mensa arcivescovile, Mastri, I, cc. 74v, 76r). Manfredo, capostipite del ramo di Cardè, dopo vani tentativi di usurpazione ai danni del fratellastro Federico e del nipote Tommaso II, nel 1346 si ritirò nelle sue terre e poi a Milano e Pavia. La vicenda di Antonio si lega quindi a quella dei Visconti. Nella lotta dinastica Luchino aveva sostenuto Tommaso II e nel 1346, con il fratello Giovanni, aveva pronunciato l’arbitrato che gli assegnava il marchesato. Il 5 marzo 1353 Azzone, figlio di Tommaso, fu presente alla stesura del testamento di Giovanni, ma nel frattempo questi ne aveva accolto il rivale sconfitto: nel 1354 Manfredo era a Milano, dove l’anno seguente tentò di farsi investire dal re dei Romani Carlo IV. Morto Giovanni, Galeazzo II, erede dei domini piemontesi, nel 1356 si alleò con il principe d’Acaia contro Tommaso e i Monferrini, sostenendo Manfredo (presente nel 1350 alle sue nozze con Bianca di Savoia), sebbene poi, nelle guerre in Piemonte Galeazzo e Bernabò si appoggiarono a Federico, successore di Tommaso.
In quella situazione il 27 novembre 1355 Antonio fu promosso da Innocenzo VI alla cattedra vescovile di Savona, sottoposta dal 1354 al dominio visconteo. Al suo episcopato risalgono un primo elenco delle parrocchie (1356) e uno statuto per il Capitolo della cattedrale (1370). I pontefici lo designarono giudice in partibus per liti e casi di usurpazione (per esempio ai danni del vescovo di Noli) o esecutore nel conferimento di benefici.
Nel 1376, quando l’arcivescovo Simone da Borsano fu creato cardinale, Antonio fu traslato da Gregorio XI alla cattedra ambrosiana. La sua biografia inserita nel Liber primicerii (1408) sostiene che Bernabò ne avrebbe ostacolato l’ingresso in sede, reso possibile dalle preghiere di Galeazzo e avvenuto l’8 settembre senza cerimonie.
Piuttosto che alla diversità dei rapporti tra i due fratelli e la Sede apostolica, la nomina e le relative difficoltà vanno ricondotte alla relazione privilegiata tra Galeazzo e Manfredo V. I suoi figli, Ugolino e Galeazzo, nel 1373 erano nell’esercito di Bernabò nella battaglia di Montechiari, nella quale caddero prigionieri, ma è incontestabile che Manfredo V fosse uomo di fiducia di Galeazzo II: nonostante uno screzio nel 1362, egli presenziò, con Giangaleazzo e Bianca di Savoia, alla stipula della pace tra lui e Amedeo VI (6 giugno 1374: Datta, 1832, p. 251); nel testamento di Bianca, del 12 novembre 1387, fu nominato esecutore (L. Osio, Documenti diplomatici..., 1864, n. CLIX); fu ospite con la famiglia a Pavia fino alla morte, nel 1392, quando fu sepolto in S. Francesco con i parenti già defunti.
Giangaleazzo definì Antonio consanguineo (per il matrimonio di Riccarda Visconti, cugina del padre, con Tommaso II), ma il presule non figura tra i vescovi inseriti nella cerchia più intima del signore, come Pietro Filargo. I rapporti furono tuttavia buoni: fu Antonio a ottenere dal papa la dispensa e a celebrare il suo matrimonio con Caterina, figlia di Bernabò.
La quotidianità delle relazioni tra il signore, Manfredo e Antonio è documentata dai mastri della mensa arcivescovile. Vino e grani di proprietà della mensa erano inviati a Pavia al padre del presule (Mastri, I, ff. 75r-76r, 156rv, 158v-159r, 177v-179r; II, 13v, 214r), alla madre (nel 1377, I, 74v, 76r), ai fratelli e ai nipoti (II, 155r, 214v). Manfredo (presso cui Antonio si trovava nel maggio del 1390: I, 61v; II, 13v, 201r) aveva locato beni arcivescovili dislocati nel Pavese (I, 43r); i fratelli Giovanni, Tommaso e Galeazzo cooperavano riscuotendo fitti (I, 13r; II, 215v, 382v); il nipote Manfredo viveva con lo zio (Archivio di Stato di Milano, Pergamene, cartt. 426, 19 aprile 1396; 547, 8 luglio 1399). Risultano vendite di derrate a Giangaleazzo (I, 14r, 17r; 262v) e in un’occasione a Bernabò, alla consorte e all’amante Donnina Porri (I, 17r); Giangaleazzo scriveva ai propri officiali a difesa dei possessi arcivescovili (I, 61r; II, 144v, 156r). I precedenti per l’amministrazione sono desunti dai registri degli arcivescovi Giovanni e Roberto (1342-1361), il che indica una riorganizzazione (si compilano elenchi di beni e diritti) dopo un periodo di locazioni forzate ai Visconti: si ricordano il castello e i beni di Angera, in precedenza locati «per mandato e volontà» di Bernabò (I, 165r). Il castello era ormai perduto (come altri) e Caterina, consorte di Giangaleazzo, se ne fece confermare il possesso da Clemente VII (sebbene il marito riconoscesse Urbano VI).
Giangaleazzo, se non ostacolò l’amministrazione dei beni della mensa, che faceva capo a Giorgio Carpano, sottopose il clero a intromissioni sul piano giuridico ed economico: con una sequela di decreti assunse il controllo del conferimento dei benefici maggiori; inoltre impose taglie e ordinò un estimo che includesse i beni ecclesiastici, pur avendo concesso poi esenzioni: ne risultò la Notitia cleri del 1398, redatta da una commissione di chierici e laici operanti nella curia arcivescovile, fonte per la storia ecclesiastica milanese, assieme a un estimo dei legati (G.C. Bascapè, Antichi diplomi..., 1937, pp. 146-154).
Nel 1386 fu avviata la ricostruzione del duomo su scala maggiore, a partire dall’abside. L’iniziativa fu di Antonio, ma Giangaleazzo intervenne e lo statuto della Fabbrica nel 1387 fu approvato da entrambi. Antonio presenziò alle decisioni principali, vertenti su questioni strutturali e stilistiche, in un alternarsi di architetti lombardi e transalpini. I due cooperarono nell’ottenere da Bonifacio IX che i benefici del giubileo del 1390 si potessero lucrare a Milano, a vantaggio della Fabbrica. Se Giangaleazzo offrì le cave di Candoglia, Antonio contribuì con le proprie rendite in denaro e in natura (Mastri, II, 259v, 262r). Furono sacrificati l’arcivescovado e la canonica, situati presso l’abside dell’antica S. Maria Iemale (l’attuale arcivescovado, già domus habitationis di Giovanni Visconti, non era allora tale): il primo fu ceduto dal presule nel 1393 per l’edificazione del Camposanto, non però interamente, dato che nel 1396 se ne restaurò una porzione. Ma Antonio, come già Roberto Visconti, dimorò in altri luoghi prima e indipendentemente dai lavori. Il motivo è ignoto; è possibile che le condizioni della cattedrale avessero reso necessari lavori anche in precedenza: il campanile era crollato e la facciata era stata rifatta da poco. Arcivescovo e curia risiedettero via via, oltre che nel palazzo arcivescovile di Legnano e nel castello di Lesa, nel monastero di S. Ambrogio (1380), nelle parrocchie di S. Paolo in Compito (1381-82), di S. Giovanni Itolano (1384), di S. Babila (1385-1396), nella casa dell’arcidiacono nella canonica (1387), nelle parrocchie di S. Maria Pedone (1396-98) e di S. Stefano in Brolo (1399). Nel 1396 il teologo istituito da Ottone Visconti fu costretto a far lezione in S. Tecla «a causa della demolizione dell’arcivescovado» (Milano, Biblioteca Ambrosiana, Mss., Della Croce, Codex diplomaticus Mediolanensis; Biblioteca nazionale Braidense, Fondo Morbio, 30, 17 gennaio 1396). La decisione della Fabbrica, del 1401, di cercare un’area ove edificare una casa al presule non fu attuata.
Di tali spostamenti non risentì l’attività della curia, che operò, secondo un’organizzazione sperimentata da un secolo, mediante vicari, notai, servitori, cappellani e familiari (alcuni con ruoli duplici), parallela e in parte sovrapposta a quella che gestiva la mensa.
Vicari furono Giovanni da Bulgaro (1376-77), Amizino de Baronibus, preposito di S. Ambrogio (1379-82), Giacomo da Treviso (1381-91), nominato canonico a Monza, Pietro de Barberiis (1392-97), Giovanni Oldegardi, abate di S. Dionigi (1393), Galvano Tornielli, canonico di Novara (1394-98) e il pavese Tommaso de Zaganis (1398).
Oltre all’attività ordinaria si ricordano, durante l’episcopato di Antonio, la compilazione della matricola delle famiglie che avevano accesso al Capitolo metropolitano, già ritenuta del 1277 ma del 1377; l’approvazione degli statuti della confraternita dei disciplinati (1380), dei vecchioni (1381) e dei custodi del duomo (1385) e del Capitolo di S. Lorenzo (1385); la posa della prima pietra e la consacrazione della collegiata di S. Maria della Scala (1381 e 1385) e di altre chiese; la soppressione del degradato monastero femminile di S. Giuliano di Fecchio presso Cantù (1377, Mastri, I, 18r) e della domus umiliata de Puteo di Busto Garolfo (ivi, 78r); le unioni del monastero di S. Nicolò di Sassoballaro con quello di S. Ambrogio ad Nemus (1379), della domus umiliata di S. Ambrogio di Carugate con quella de Zenis di Monza e del monastero di S. Maria Nuova con quello di S. Caterina fuori porta Comasina (1388); l’approvazione della fondazione della collegiata di S. Maria della Neve a Monate da parte del vescovo di Bergamo Branchino da Besozzo (1396).
Il 17 settembre 1401 Antonio era ammalato, e il duca dispose che si evitasse la dispersione dei beni della mensa. Il 18 settembre morì, forse nel palazzo di Legnano, dato che, in un periodo di peste, vi si trovava a maggio (Mastri, II, 35r) e fino al 16 settembre vi si condusse pesce (II, 231r).
Lasciò i propri libri, in parte eredità del padre, alla Fabbrica, che nel 1421 lo ricordò facendo scolpire un coperchio per il suo sepolcro.
Dopo i tentativi, anche violenti, di controllo della sede ambrosiana lungo l’intero XIV secolo, con Antonio sembra aprirsi una nuova stagione nei rapporti tra i Visconti e i presuli milanesi, favorita dall’indebolimento dell’autorità papale: stagione che prefigura quella che si profilò nel XV secolo. L’arcivescovo (come i vescovi del Dominio) era di fatto scelto dal signore: cessava la conflittualità e vi erano forme di cooperazione ma, se l’amministrazione spirituale e quella del patrimonio della mensa erano rispettate, gli altri ambiti, come quello beneficiario e fiscale, venivano circoscritti e in parte controllati dal duca e si perdeva definitivamente, insieme ai più importanti castelli nel contado, la tradizionale forza politica connessa alla cattedra ambrosiana.
Fonti e Bibl.: Milano, Archivio Dell’Ospedale Maggiore, Diplomi, n. 424; Milano, Archivio storico della Diocesi di Milano, Mastri della mensa, I-II; Archivio di Stato di Milano, Autografi, cart. 17; ivi, Pergamene, per fondi, cart. 301, nn. 105, 106, 110, 117; 309, nn. 101, 102; 308, n. 4; 387, 3-23 giugno 1385 e n. 235; 397, 13 luglio 1398; 426, n. 140, 152; 431, n. 147; 432, 15 marzo 1388; 433, 23 maggio 1387; 438, 3 agosto 1385; 454, 20 febbraio 1381; 472, 23 giugno 1383; 478, n. 56; 504, nn. 3-4; 510, 24 maggio 1383, 23 aprile 1399; 525, 13 gennaio 1396, 21 marzo 1398; 531, 10 maggio 1382; 538, 26 marzo 1378, 9 aprile 1389; 547, 29 gennaio 1388, 9 giugno 1385, 8 luglio 1399; 598, 21 ottobre 1376; 599, 21 giugno 1381; Milano, Biblioteca Ambrosiana, Pergamene, 41, 2899, 2916, 2916 bis-ter, 4329, 6446-6447; ms. I.27-30 suss.; G.C. Della Croce, Codex diplomaticus Mediolanensis; Biblioteca nazionale Braidense, Fondo Morbio, 35, 143; Biblioteca Trivulziana, Archivio civico, Registri di Provisione, II, f. 26; Chronicon Estense, in RIS, XV, Mediolani 1729, col. 497; Annales Mediolanenses, ibid., XVI, 1730, ad annum; G.B. Moriondo, Monumenta Aquensia, II, Torino 1790, pp. 498 s.; Goffredo della Chiesa, Cronaca di Saluzzo, a cura di C. Muletti, Torino 1846, p. 253-255, 298 s.; L. Osio, Documenti diplomatici tratti dagli archivj milanesi, I, Milano 1864, nn. CXCII, CCXXIV; Annali della Fabbrica del Duomo, I, Milano 1877, pp. 1-234, 312 s.; II, pp. 3, 37; Appendici, I, 1883, pp. 211-259; M. Magistretti, Notitia cleri Mediolanensis de anno 1398 circa ipsius immunitatem, in Archivio storico lombardo, XXVII (1900), pp. 9-75, 257-304; P. Lecacheux, Urbain V (1362-70). Lettres secrètes et curiales, Paris 1902, nn. 1781, 1896; Repertorio diplomatico visconteo, Milano 1911, n. 1914; G.C. Bascapè, Antichi diplomi degli arcivescovi di Milano, Firenze 1937, pp. 57-63, 129-132, 146-154; E. Cattaneo, Cataloghi e biografie dei vescovi di Milano, Milano 1982, pp. 127 s.; P. Margaroli, Le pergamene Belgioioso della Biblioteca Trivulziana di Milano (secoli XI-XVIII). Inventario e regesti, I-II, Milano 1997, I, nn. 274, 293, 332, 1490.
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