CORNAZZANO (Cornazano), Antonio
Nacque a Piacenza verso il 1430, probabilmente da Bonifacio.
L'opera del C. è molto povera di riferimenti autobiografici che permettano non solo di ricostruirne gli anni della formazione, ma perfino di identificare a quale dei rami della famiglia egli appartenesse. Il luogo di nascita è confermato in numerosi passi delle sue opere, ma già per l'anno si deve ricorrere a congetture: i calcoli del Silvestri lo fanno risalire al 1429, mentre il Poggiali aveva proposto il 1431. In quanto alla paternità, solo recentemente il Fiori (Note storiche, 1967), ricostruendo la genealogia della famiglia Balestrazzi da Cornazzano, ha potuto accertare l'esistenza di almeno un altro Antonio Cornazzano omonimo e contemporaneo del poeta, vissuto a Piacenza e figlio di quel Giovanni Senese generalmente, ma a torto, ritenuto padre del C. cortigiano degli Sforza e degli Estensi. Giovanni Senese, infatti, il quale deve il nome alla madre Lisa de Senesis, sposò una Giovanna Pellegrini da cui ebbe cinque figli, fra i quali un Antonio morto nel 1501 a Piacenza e coniugato con la piacentina Alasina Pozzi. I dati biografici di costui, che visse gran parte della sua vita nella città natale, sono in contrasto con quanto generalmente accertato delle vicende biografiche del C. e con i dati ricavabili da alcuni documenti conservati negli Archivi di Milano e Modena e pubblicati dal Fahy nel 1964.
D'altra parte il C. non dà mai indicazioni precise sul proprio padre, limitandosi ad accennarvi in due passi della Sforzeide: nel primo sottolinea la parte da questo avuta nella resistenza di Piacenza contro Francesco Sforza, mentre nel secondo afferma di aver contrastato con il proprio interesse per la poesia "il pensier del leggista parente", informandoci dunque della professione esercitata dal padre, il quale, secondo una proposta del Fiori (Notizie storiche, 1979) andrebbe identificato con quel Bonifacio Cornazzano, licenziato in iure civili dall'università di Pavia nel 1422, dottore collegiato a Piacenza nel 1434 e dieci anni dopo, nel 1444, giudice ed esecutore di giustizia a Siena. Un Bonifacio Cornazzano, figlio di un Antonio ormai defunto, come risulta da un atto rogato il 23 luglio 1432, era cittadino parmense ma residente a Piacenza nella parrocchia della cattedrale e marito di Costanza Bagarotti di Castell'Arquato, dalla quale ebbe sei figli: Antonio, Bernardo, Francesco, Luchina, Margherita e Pietro, quest'ultimo forse da identificarsi con quel Pietro Cornazzano inviato nel 1471 dal Colleoni in Romagna a raccogliere gente con la quale fronteggiare Galeazzo Sforza.
Vuole la tradizione che a 12 anni il C. incontrasse per la prima volta l'amore e da questo vedesse scaturire la vocazione poetica: testimonianza di questo evento decisivo era in uno di quei Cento sonetti in lode degli occhi - oggiperduti - ai quali accenna il Doni nella Libraria Prima come opera del C. e dei quali il Poggiali afferma di aver visto copia presso il Baruffaldi. Il Poggiali identificava la donna amata nell'adolescenza dal C. con quell'Angela che fu poi ispiratrice della sua lirica più matura e musa invocata nella Sforzeide, ma un recente contributo dello Zancani (1978), sulla base di una lettera indirizzata a Guglielmo Ungarelli, tende a spostare di molto l'incontro. È probabile, però, che l'episodio dell'innamoramento come anche la scarsa vocazione per gli studi giuridici, trascurati per dedicarsi all'esercizio della poesia, costituiscano l'amplificazione di episodi reali in funzione di una biografia ideale, esemplata su illustri modelli letterari.
Intorno al 1445 il C. era a Siena, dove ancora si trovava nel novembre 1447 al momento della resa di Piacenza a Francesco Sforza; qui fu avviato dal padre allo studio del diritto, ma nella memoria del C. il soggiorno senese doveva rivelarsi decisivo per la maturazione di una vocazione letteraria e per l'acquisizione degli strumenti linguistici necessari a realizzarla. Nonostante ostentasse di aver preferito l'esercizio della poesia agli studi universitari, il C. conseguì la laurea, forse a Siena, come testimonia il titolo di "legum doctor" che accompagna il suo nome nel registro della Camera ducale di Ferrara (Fahy, 1964, doc. X).
Assente da Piacenza al momento dell'assedio e del saccheggio ad opera delle truppe sforzesche, il C. fu a Parma nel 1449, in tempo per assistere all'ultima resistenza della città allo Sforza, e allora, secondo il Silvestri, avrebbe concepito il progetto di celebrare in versi l'irresistibile ascesa del futuro duca di Milano.
Ci mancano notizie circa i suoi movimenti negli anni successivi: il Silvestri ritenne che egli si trovasse a Venezia nel 1452 sulla base di uno scambio di versi col Filelfo che va invece postdatato di venti anni (Fahy, 1964, pp. 65-71); fu invece probabilmente a Roma, città della quale ritorna il ricordo in più luoghi della sua opera e dove a partire dal 1451 si trovava al servizio del cardinal Scarampi anche l'Ungarelli, destinatario di alcuni sonetti del Cornazzano. A Roma è ambientata la Fraudiphila, commedia latina in prosa attribuita al C. da uno dei due testimoni che ce ne hanno conservato il testo: si tratta dei ff. 3r-10v del manoscritto Pall. 183 della Biblioteca comunale di Piacenza, codice composito che insieme alla commedia raccoglie altre opere del C.: il De proverbiorum origine, una elegia, due epigrammi indirizzati a Francesco Filelfo e dei "versus Antonii Cornazani improviso per eum editi". Altro testimone dell'opera è il miscellaneo estense Lat. 629 (α.R.6.1.) nel quale il testo della Fraudiphila, trascritto ai ff. 57v-65v, compare accanto ad opere grammaticali e al De miseria curialium di Pio II; nel codice estense la commedia è attribuita ad un Antonio da Parma, che l'Affò pensò di poter identificare con Antonio Tridentone (cfr. anche Lettere di G. Tiraboschi al padre I. Affò, pp. 490 e 503, n. 1). L'attribuzione proposta dall'Affò viene, però, generalmente rifiutata mentre più verosimile è ritenuta quella al C.: lo stesso editore moderno della commedia, S. Pittaluga, accoglie sostanzialmente quest'ultima ipotesi, pur riconoscendo maggiore autorevolezza al codice estense il quale testimonierebbe una redazione più vicina alla volontà dell'autore mentre il testo conservato dal Pall. 183 sarebbe "il risultato di una rielaborazione banalizzante, la cui attribuzione [al C.] è incerta" (p. 63). L'intreccio della Fraudiphila è desunto dalla novella VII, 7 del Decameron privata, però, di quell'orchestrazione cortese che ne caratterizza la prima parte e che, in stridente contrasto con la crudeltà della beffa, costituisce uno degli elementi della sua "bifrontalità". Della novella decameroniana resta la felice invenzione grazie alla quale il marito, ingannato e bastonato, diviene alla fine involontario complice dei due amanti in un finale che sembra di lontano prefigurare quello ben più rigorosamente costruito della Mandragola. Per l'intreccio, dunque, la commedia si inserisce nel ricco filone che già nel XV secolo sfruttava le innumerevoli possibilità di traduzione teatrale delle novelle del Boccaccio; per quel che riguarda l'impianto scenico e linguistico essa si ispira più immediatamente a modelli contemporanei, in particolare alla Cauteraria del Rarzizza, mentre si affida ad un uso intensivo di forme e costrutti derivati dal modello terenziano.
Nel 1455 il C. dedicò ad Ippolita Sforza il Libro dell'arte del danzare: è questa la prima testimonianza sicura dei suoi rapporti con la corte sforzesca, testimonianza i cui termini temporali possono ulteriormente restringersi se si considera che il titolo di duchessa di Calabria, attribuito alla dedicataria dell'opera, permette di datare l'offerta del Libro - se non la sua composizione - ad epoca successiva al fidanzamento di Ippolita con Alfonso duca di Calabria, celebrato il 10 ottobre di quell'anno.
In più passi della sua opera il C. fa esplicito riferimento al servizio prestato per il duca di Milano e il dato è confermato dai documenti pubblicati dal Fahy nei quali egli compare costantemente indicato come "famiglio nostro"; nonostante il suo nome non figuri nei ruoli dei salariati rimastici, in un momento imprecisato del suo soggiorno milanese egli riceveva uno stipendio annuo di 36 ducati cui si aggiungeva la stoffa - velluto o damasco - necessaria alla confezione di una giornea. Nonostante l'esiguità della cifra, inferiore perfino a quanto percepito dai "Piferi ducales", il C. fu costretto a rivolgersi al duca onde ottenere che venisse completato il pagamento della somma spettantegli, della quale solo tre quarti gli erano stati corrisposti (Fahy, 1964, pp. 63 ss.), Ignoriamo quali potessero essere le mansioni per le quali il C. veniva stipendiato, anche se la dedica del Libro ad Ippolita fa generalmente ritenere che sia toccato a lui iniziare alla danza la figlia del duca di Milano.
Il Libro dell'arte del danzare, che forse segnò l'esordio del C. alla corte sforzesca, non è opera originale ma rielabora, sistemandola, la materia rozzamente esposta nel De arte saltandi et choreas ducendi di Domenico da Piacenza del quale il C. afferma di essere stato allievo. Il trattato appare ispirato ad un ideale di misura e di eleganza tipicamente cortigiano limitandosi alla descrizione di "quelli balli e bassedanze che sono fora del vulgo, fabricati per sale signorile" e costituisce, insieme al citato trattato di Domenico da Piacenza e a quello di poco posteriore di Guglielmo Ebreo, uno dei primi documenti per la storia della danza in Italia. La materia risulta distribuita in due parti: una prima teorica ed una seconda pratica nella quale è illustrata la "coreografia" di otto danze ideate da Domenico da Piacenza e di tre bassedanze del tutto nuove. Del trattato non ci è giunta la redazione originale dedicata ad Ippolita ma una copia di questa, che il C. procurò al fratello di lei Sforza Secondo, conservata nel Capp. 203 della Biblioteca Vaticana il quale, nonostante abbia tutte le caratteristiche del codice di dedica, manca tuttavia di qualsiasi elemento che permetta di accertarne l'appartenenza a Sforza Secondo, né compare nell'inventario dei libri che costituivano la sua biblioteca al momento della morte (E. Motta, Documenti per la libreria sforzesca di Pavia 1456-1494, in Il Bibliofilo, VII [1886], p. 133).Quest'esemplare rappresenta, rispetto a quello dedicato a Ippolita, piuttosto una seconda redazione che una semplice copia: nel capitolo di dedica l'autore infatti afferma di averne integrato il testo originario aggiungendo "... assai cose le quale / l'ingiegno più maturo intender face". La rielaborazione dell'opera si colloca in data successiva alla celebrazione delle nozze di Ippolita (1465), quando il C. cercava un nuovo protettore all'interno della famiglia e riteneva forse di poterlo trovare nel signore di Borgonuovo, al quale offre di celebrarne le imprese militari onde ne derivi al poeta "onore" ed al condottiero fama imperitura. Senonché anche Sforza Secondo era in sospetto al fratello Galeazzo e dopo la morte di Francesco Sforza, ai primi del 1467 sarà costretto con lo zio Alessandro ad allontanarsi da Milano e ad appoggiarsi al Colleoni, seguendo un itinerario che sarà anche del Cornazzano.
Altra opera degli esordi milanesi del C. è considerato il De proverbiorum origine, dedicato a Cicco Simonetta, in forza di un accenno alla pace di Lodi che suggerisce di datarne la composizione ad epoca immediatamente successiva all'aprile 1454.Con il De proverbiorum origine il C. sperimentò il genere narrativo, compiendo un tentativo abbastanza originale di dare espressione ad una materia propria della tradizione volgare utilizzando la forma tipica della poesia erotica latina e raccogliendo, quindi, dieci novelle in distici elegiaci il cui denominatore comune è costituito dal rappresentare ognuna, attraverso il racconto di vicende spesso scabrose e con esiti espressivi non sempre felici, la presunta illustrazione di un proverbio italiano. La raccolta ci è pervenuta nel codice piacentino Pall. 183 che conserva anche il testo della Fraudiphila ed in alcuni manoscritti tardi (l'antoniano XXII, 564;l'estense Lat. 619; il vaticano Capp. 30) oltre che in due cinquecentine delle quali la prima stampata a Milano nel 1503 da Pietro Martire Mantegazza (M. Sander, Le livre à figures italien depuis 1467 jusqu'à 1530, I, Milan 1942, n. 2187), edizione che, secondo il Poggiali, in accordo con il Capponiano, presenterebbe varianti rispetto alla tradizione testimoniata dal codice piacentino. La fortuna di quest'opera del C. è però legata ad un rifacimento italiano in prosa che con il titolo Proverbi in facetie venne stampato almeno quindici volte fra il 1518 - data della princeps pubblicata a Venezia da Francesco Bindoni e Maffeo Pasini - ed il 1558. La prima edizione raccoglie sedici "proverbi" seguiti dalla cosiddetta Novella ducale nella quale è narrato, con toni di affettuosa rievocazione, un episodio di infedeltà punita di cui sono protagonisti Francesco e Bianca Maria Sforza. Delle dieci novelle del De proverbiorum origine solo cinque hanno riscontro nei Proverbi in facetie: a volte la versione italiana traduce letteralmente l'originale latino, a volte se ne discosta per esporre la vicenda in forma più concisa e con minor felicità descrittiva, sempre però raggiunge un livello di adeguamento alla norma toscana che stupisce in uno scrittore settentrionale ancora nella seconda metà del Quattrocento, specie se confrontata con l'ibridismo linguistico e la ricchezza di idiotismi che caratterizzano il resto della produzione narrativa del Cornazzano. Opera sicuramente la più fortunata fra quante attribuite al C., la raccolta dei Proverbi è anche quella che maggiori dubbi ha sollevato non solo intorno alla sua natura ma anche circa la stessa attendibilità dell'attribuzione al C., ribadita in tutte le stampe antiche: infatti proprio la non omogeneità dei Proverbi rispetto ad altre opere in volgare di sicura paternità cornazzaniana ha fatto sì che molti studiosi, a cominciare dal Poggiali, proponessero trattarsi di un falso, mentre altri, fra i quali V. Rossi, pur ritenendone autore il C., avanzano l'ipotesi che la raccolta nella forma in cui ci è pervenuta costituisca solo un abbozzo preparatorio in vista di una successiva stesura in versi, adducendo a sostegno della propria tesi in particolare la presenza di un accenno non più sviluppato di "cornice" nell'incipit della prima novella, l'uso di una prosa "numerosa", e una generale mancanza di equilibrio nello sviluppo narrativo delle diverse "facetie". In realtà il solo soggiorno giovanile a Siena non basta a spiegare l'alto livello di toscanizzazione che caratterizza i Proverbi (cfr. A. Tissoni Benvenuti, Narrativa e teatro, in Letteratura italiana. Storia e testi, III, 2, Bari 1972, p. 429), specie se confrontato con il resto della produzione del C. nel periodo ferrarese, quello al quale sembra debba ascriversi il rifacimento volgare del De proverbiorum origine;si ricordi che l'opera più importante di questi anni, l'Arte militare, apparve a tal punto "submersa in una lombarda barbarie" all'editore Bernardo di Filippo Giunti, che la pubblicò nel 1520, da richiedere un'accurata revisione linguistica onde adeguarla ad un gusto letterario più affinato; a voler dunque accettare l'attribuzione al C. dei Proverbi si dovrà forse ipotizzare anche per questi ultimi un intervento simile da parte di un editore più modesto o meno scrupoloso che, entrato in possesso di un'opera inedita e probabilmente incompiuta del C. in un momento di grande fortuna editoriale della produzione di lui, ritenne di adeguarne la forma linguistica senza avvertire la necessità di illustrare motivi e termini del suo intervento.
Nel febbraio 1457 Roberto Caracciolo predicò la crociata a Milano: l'impressione provocata dall'oratoria del francescano fu enorme, tanto da indurre il duca a richiedere al papa che egli tornasse a predicare la quaresima anche l'anno successivo. Forse sotto l'effetto di questa predicazione, e probabilmente sicuro di assecondare i gusti di Ippolita, il C. si accinse alla composizione di una vita della Vergine, dedicata appunto alla giovane duchessa di Calabria. E Ippolita dovette aver cara l'offerta se fra gli splendidi codici che l'accompagnarono da Milano a Napoli ritenne di accogliere una "Vita di Nostra donna" del valore di appena 4 ducati. Le ipotesi di quanti proponevano che sotto questa generica definizione si celasse un esemplare della Vita della Vergine Maria del C. sono state oggi confermate con l'identificazione di quel codice con l'ambrosiano Y.74. sup. (T. De Marinis, La Biblioteca napoletana dei re d'Aragona. Supplemento, col concorso di D. Bloch, Ch. Astruc e J. Monfrin, I, Verona 1969, p. 233). Nella dedica ad Ippolita l'autore, dopo aver ribadito la propria fedeltà agli Sforza, esprime il proprio pentimento per i "dì persi" in pene d'amore, e invoca Maria perché lo sostenga nel proposito di volgersi tutto all'amor di Dio. In questi versi, che esprimono sentimenti di pietà religiosa e seguono di pochi anni - secondo la cronologia comunemente accettata - i temi lascivi e le situazioni scabrose del De proverbiorum origine e della Fraudiphila, si è voluto generalmente vedere il riflesso di una conversione reale indotta dal magistero del Caracciolo, e l'ipotesi risultava avvalorata da un passo del De fide et vita Christi (l. II, cap. 1) nel quale il C. afferma di voler continuare nella propria produzione letteraria l'opera di s. Bernardino e del "trombetto di Christo, el gran Roberto" alle parole dei quali, lette ed udite, egli aveva dovuta la rivelazione di nuovi valori e più alti temi poetici. Ma fra la composizione della Vita della Vergine e quella della Vita di Cristo corrono più di dieci anni, durante i quali il C. continuò a sviluppare temi profani e durante i quali matura la sua lirica amorosa. Piuttosto che ad una improvvisa e decisiva svolta morale nella vita del C. sarà quindi più opportuno ricercare il motivo ispiratore della Vita in un adeguamento al gusto particolare del momento, esaltato dalla predicazione del Caracciolo. Il racconto della vita di Maria dal concepimento all'assunzione è distribuito in otto capitoli di terzine, preceduti da un Proemio di dedica e seguiti da un'Orazione del poeta alla Vergine invocata perché ne sostenga i propositi di conversione. La materia della narrazione è sostanzialmente estratta da testi di edificazione popolare, i Vangeli apocrifi ed in particolare, per l'infanzia di Maria, il Liber de ortu Beatae Mariae et infantia Salvatoris dello pseudo Matteo e, per la morte e l'ascensione, la Legenda aurea di Iacopo da Varagine; a modello formale sono assunti invece il poema dantesco, del quale si avvertono frequenti echi, e la lirica del Petrarca di cui soprattutto sono utilizzati stilemi nella caratterizzazione della Vergine e nel racconto della sua morte, che segue fedelmente quello del secondo capitolo del Trionfo della Morte. L'ottavo capitolo della Vita, secondo uno schema agiografico consolidato, èdedicato alla narrazione di due miracoli compiuti dalla Vergine, un genere che aveva dato vita a raccolte autonome di grande fortuna alle quali anche il C. attinge il proprio materiale narrativo, mentre decisamente originale e particolarmente interessante è il passo del secondo capitolo dedicato all'educazione di Maria e probabilmente ispirato agli stessi principi che avevano guidato l'educazione di Ippolita che anzi, verosimilmente, costituisce il modello di questa inconsueta immagine della Vergine che "principalmente in lettere haveva dilecto".
La Vita della Vergine Maria in questa prima redazione che èpossibile far risalire agli anni 1457-58 ci è stata conservata, oltre che dal codice ambrosiano, da un manoscritto della Bibl. comunale di Piacenza, il Pall. 185, trascritto nel 1470 da un Giovanni Gabriele Gambarelli piacentino "iuris civilis scholaris", e dai manoscritti: Canoniciano ital. 191 della Bodleiana di Oxford e Ital. 1544 della Biblioteca nazionale di Parigi che, come il codice piacentino, fa seguire al testo della Vita una "epistola" in distici elegiaci dell'autore ad Ippolita Sforza.
Nel 1459 "Venendo a Mantoa pontefice Pio" il C. terminò la composizione del poema volgare De gestis Francisci Sfortiae comunemente noto come Sforzeide: sono gli stessi anni durante i quali Francesco Filelfo andava componendo la mai compiuta Sphortias latina, contaminando ampiamente la narrazione storica con episodi mitologici e fantastici. Impianto simile ha la Sforzeide, che ripete in lingua volgare l'operazione che si proponeva il Filelfo: per il poema, che doveva celebrare le gesta del duca di Milano dalla morte di Muzio Attendolo all'entrata in Milano (1450), il C. scelse ancora una volta la terzina unico metro narrativo da lui utilizzato e distribuì la materia in dodici libri, divisi ognuno in tre capitoli e preceduti da un sonetto-rubrica. Come il Filelfo nel pianificare il suo poema prendeva a modello l'Iliade, così il C. nell'elaborazione del proprio ha costantemente presente l'Eneide e anche in questo caso la contaminazione di verità storica e invenzione mitologica induce a ritenere il De gestis espressione di un tentativo di inaugurare un'epica volgare fondata sull'attualizzazione del modello classico piuttosto che ascriverla al genere della storiografia ufficiale. La Sforzeide è conservata dal codice Ital. 1472 della Biblioteca nazionale di Parigi appartenuto, secondo E. Pellegrin (La bibliothèque des Visconti et des Sforza, ducs de Milan au XV siècle, Paris 1955, pp. 70, 391), a Corrado da Fogliano, fratellastro di Francesco Sforza, e dal Pall. 95 della Comunale di Piacenza, copia settecentesca appartenuta al Poggiali di un antico codice venduto dal piacentino Pietro Buzzetti al "noto inglese Jacson abitante in Livorno". Viene ancora erroneamente attribuita al C. e talvolta confusa col De gestis Francisci Sfortiae la Vita di Muzio Attendolo Sforza contenuta nel codice parigino Ital. 372, scritta nel 1458su commissione di Francesco Sforza dal piacentino Antonio Minuti che fu al servizio di Muzio Attendolo e poi del figlio Francesco (Pellegrin, La bibliothèque, pp. 389 s.).
Quando, sul finire del 1461, partì da Milano l'ambasceria inviata dal duca a Luigi XI per congratularsi dell'avvento al trono, nel seguito che accompagnava gli ambasciatori milanesi era anche il C., che il 6 genn. 1462 con essa giunse a Parigi e poi, sulla via del ritorno, ebbe modo di visitare Avignone e qui, tappa obbligata, la tomba di Laura, per la quale compose un sonetto ("È questo il tempio in cui il terrestre manto"). Due anni più tardi, nel 1464, dopo aver accompagnato Francesco Sforza nell'impresa di Genova, il C., a coronamento del proprio impegno letterario al servizio della famiglia ducale, compose le Florentinae urbis laudes in un lasso di tempo compreso fra il 19 maggio, giorno della dedizione solenne di Genova, e la morte di Cosimo de' Medici, avvenuta il 1°agosto.
Il poemetto, destinato a celebrare l'alleanza fra Firenze e Milano, è distribuito in quattro capitoli in volgare preceduti da un proemio latino di quaranta distici elegiaci, ed è conservato in due codici magliabechiani della Nazionale di Firenze (CI.VII.149 e CI.VII.1188) e da un miscellaneo della Biblioteca universitaria di Genova (A.IX.28:cfr. G. Tanturli, IBenci copisti. Vicende della cultura fiorentina volgare fra Antonio Pucci e il Ficino, in Studi di filologia italiana, XXXVI [1978], pp. 239 s.); il solo Proemio latino è inoltre nel laurenziano PI. XXXIV.50 zibaldone autografo di Pietro Crinito, e come poemetto autonomo fu pubblicato nel tomo terzo dei Carmina illustrium poetarum Italorum stampato a Firenze nel 1719.
Nel 1465 si celebrarono finalmente le nozze di Alfonso d'Aragona con Ippolita, che il C. accompagnò nel viaggio verso la nuova dimora.
Il percorso del corteo nuziale fu segnato da splendide accoglienze e festeggiamenti: il C. restò particolarmente colpito dalle feste con le quali Borso d'Este celebrò in Reggio il passaggio della sposa e del suo seguito, e dedicò a Borso il De excellentium virorum principibus, excursus di storia universale scandito dalle biografie di uomini illustri da Adamo a Carlo Magno, per culminare in quella del dedicatario la cui famiglia èfatta discendere dal mitico imperatore. Dell'opera, redatta in due versioni, una latina in distici elegiaci ed una volgare in terzine divisa in quattro libri di cinque capitoli ognuno, il C. fece confezionare due codici riccamente decorati (oggi estensi Lat. 872= α.P.6.26e Lat. 101= α.P.6.2) e li inviò a Borso, che ricambiò il dono, inviando all'autore, il 10 apr. 1466, 60 ducati d'oro e dodici braccia di velluto.
Trasferitasi Ippolita a Napoli, il C. perse probabilmente la sua principale protettrice; ma ben più grave perdita doveva seguire pochi mesi più tardi con la morte dello stesso Francesco Sforza (8 marzo 1466). A Francesco successe il figlio Galeazzo, che "i famigliari del padre privò di grado e dignità" (B. Corio, L'historia di Milano volgarmente scritta, Venezia 1554, c. 415v): questa fu probabilmente la sorte che toccò anche al C., che ricorda di essersi dovuto allora, tra mille difficoltà, trasferire a Venezia (De vita et gestis Bartholomei Colei, a cura di F. G. Graevius, col. 26).
Il C. non riuscì a perdonare Galeazzo neanche dopo morto e ne celebrò l'omicidio per mano del Lampugnani (1476), con un capitolo che si legge ai ff. 40-41v del codice estense Ital. 177 (α.I.6.21)e nell'edizione dell'Opera nova edita dallo Zoppino nel 1517 e ristampata l'anno seguente.
Verosimilmente nel numero dei tentativi compiuti dal C. per trovare un nuovo protettore a corte si iscrive la redazione del De mulieribus admirandis dedicato a Bianca Maria Sforza: iniziata dopo la morte del duca, l'opera doveva articolarsi in quattro sezioni annunciate nella dedica, di cui solo le prime due - corrispondenti ad altrettanti libri - ci sono giunte nel citato codice miscellaneo della Biblioteca Estense di Modena Ital. 177nel quale occupano i primi venti fogli. Èprobabile che il C. non abbia portato a compimento il progetto originario in seguito alla morte della dedicataria, sopravvenuta due anni dopo quella del marito nell'ottobre 1468. Vicino per impianto e scelta dei materiali al De illustrium virorum principibus, il De mulieribus admirandis illustra in terzine le vite di ventotto donne famose per bellezza e per pudicizia, ordinate in dittici di personaggi affrontati e accomunati da una sorte affine sul modello delle Vite parallele di Plutarco. La scelta, ancora una volta privilegia figure favolose del mito o della storia leggendaria, senza trascurare le vicende romanzesche di un personaggio più vicino: quella "regina d'Inghilterra" moglie di Edoardo IV che, forse con la mediazione del C., fu anche ispiratrice di una novella del Bandello (11, 37). Fra le fonti dell'opera, nei confronti delle quali il C. si muove con notevole autonomia, la principale è ovviamente il De claris mulieribus del Boccaccìo al quale sono ispirate diciassette delle ventotto vite narrate; accanto a questo, Plutarco del De mulierum virtutibus, delle Amatoriae narrationes e delle Vitae parallelae.
Costretto a lasciare Milano, il C. riparò a Venezia e nel decennio successivo Venezia e Malpaga furono i due poli della sua attività letteraria: a Malpaga lo accolse il Colleoni, concedendogli la sua protezione; a Venezia, dove forse fu per incarico dello stesso Colleoni, entrò in contatto con la nascente industria editoriale e col nome più illustre di questa, il francese Nicolas Jenson per il quale avrebbe svolto funzioni di correttore (C. Castellani, La stampa in Venezia dalle sue origini alla morte di Aldo Manuzio seniore, Venezia 1889, p. 22).
Il servizio prestato al condottiero bergamasco si concretizzò nella composizione del De vita et gestis Bartholomei Colei nel quale, distribuito in sei libri ed affidato ad una scorrevole prosa latina, è il racconto delle vicende della vita del Colleoni dalla nascita alla battaglia della Riccardina (1467), insieme all'illustrazione delle virtù di lui. La redazione della Vita Colei richiese un impegno diverso da quello che aveva dettato il poema sulla presa di potere di Francesco Sforza e le raccolte dedicate a Borso d'Este ed a Bianca Maria Visconti: il C. infatti era chiamato a cimentarsi per la prima volta con la storiografia e con un genere, quello biografico, di particolare fortuna negli ambienti umanistici. Di qui, nello sforzo di adeguarsi ad un genere che andava formalizzando i propri canoni, la scelta della lingua latina e della prosa; di qui anche il rigore con il quale egli ricostruì gli avvenimenti dei quali era stato protagonista il Colleoni senza sbavature letterarie e facendo ricorso alla testimonianza diretta dello stesso protagonista, così da costituire ancora oggi la fonte prima e più autorevole per la biografia del condottiero bergamasco.
I rapporti del C. con l'editoria veneziana, pur costituendo l'aspetto più interessante di questi anni, sono purtroppo ancora documentabili solo per indizi: il primo di questi è un epigramma che egli dettò perché fungesse da colophon all'edizione di Eusebio stampata da Nicolas Jenson nel 1470 (Gesamtkatalog der Wiegendrucke, indi GW, 9440), a cui si aggiunse l'anno seguente l'edizione jensoniana della Vita della Vergine Maria, appositamente rielaborata dall'autore in vista della stampa.
La revisione comportò la riscrittura di alcuni brani, e in particolare, pur conservando l'intitolazione ad Ippolita, il C. eliminò le prime sette terzine del proemio, che ribadivano la sua fedeltà agli Sforza per sostituirle con altrettanti versi nei quali, oltre ad esprimere la volontà di dedicarsi a temi di maggior impegno spirituale, accenna anche velatamente alla delusione di speranze legittime di un leale servitore: qui il "tempo già perso" in pene d'amore della prima redazione diviene quello dedicato al servizio di signori irriconoscenti. Il poemetto incontrò un immediato consenso che ha riscontro nelle 13 edizioni quattrocentesche (GW 7552-7563) e nelle sei cinquecentine (A. Cioni, La poesia religiosa. I cantari agiografici e le rime di argomento sacro, Firenze 1963, pp. 63-66) ed in un evidente, se pure non inconsueto, caso di "pirateria" editoriale: le due edizioni milanesi dell'opera (GW 7554, 7555), infatti, riproducono, in concorrenza con l'edizione Jenson, la prima redazione del testo privata del proemio e adespota.
L'11 sett. 1471 il C. era a Venezia, da dove scambiò con Francesco Filelfo versi latini e volgari sulla sfida lanciata da Galeazzo Sforza al Colleoni; a Venezia probabilmente attese alla pubblicazione del De fide et vita Christi, terminato di comporre fra l'aprile e l'agosto 1471, come si ricava dall'accenno a Borso d'Este quale "duca primo" ed ancora vivente, e stampato l'anno successivo da una tipografia non identificata (GW 7550).
Un tono intenzionalmente più alto e l'attenzione prevalentemente rivolta a questioni di carattere dottrinario caratterizzano la Vita di Cristo rispetto alla contemporanea Vita della Vergine Maria. Concepito, infatti, sull'onda dell'emozione suscitata dall'ultimo tragico episodio dell'espansione turca, e cioè l'assedio e la caduta di Negroponte cui aveva invano tentato dì opporsi la flotta veneziana, il De fide et vita Christi inserisce il racconto della vita di Gesù all'interno di una trattazione dei dogmi principali della fede cristiana onde dimostrarne l'assoluta superiorità rispetto alle altre religioni. Il poemetto, in tre libri di terzine, coniuga intenti polemici e didattici, proponendosi di favorire la conoscenza delle verità principali affermate dalla teologia cristiana attraverso una divulgazione corsiva, in modo che tale conoscenza si trasformi in stimolo alla difesa della fede. L'esigenza di risvegliare nelle coscienze la realtà del pericolo turco, chiaramente espressa nella dedica al doge e nell'esortazione finale (III, 5) ai principi italiani, trova un riscontro immediato nel clima di allarme generato nell'opinione pubblica italiana dalle ripetute sconfitte delle forze cristiane in Oriente. Pur rivelandosi, così, sensibile agli umori ed alle aspettative del pubblico, il C. con la Vita di Cristo, forse per la difficoltà di conciliare l'intento divulgativo con l'esposizione corretta dei grandi temi della teologia cristiana, non incontrò lo stesso favore col quale era stata accolta la Vita della Vergine Maria: ristampata una sola volta nel 1492 (GW 7551) bisognerà attendere il XVI secolo ed il più generale recupero della produzione cornazzaniana ad opera dello Zoppino, perché della Vita di Cristo vengano stampate cinque edizioni in parallelo con la più fortunata vita di Maria (Cioni, La poesia religiosa, pp. 22-23). Nel primo capitolo del libro secondo del De fide et vita Christi è il noto passo nel quale il C. annuncia la propria conversione per effetto dell'insegnamento di s. Bernardino e di Roberto Caracciolo, ma, nonostante l'intenzione, espressa nel Prologo, di rendere "le rime a Christo", proprio in questi anni egli attendeva al riordino di parte della produzione lirica in un canzoniere latino e volgare, il cui motivo principale è l'amore per Angela. Di Angela, delle attrattive che la resero cara al poeta, dei modi del loro incontro, oggi sappiamo qualcosa grazie alle notizie fornite dalla minuta di una lettera a Guglielmo Ungarelli conservata in un codice ambrosiano (Sussidio B.226), e il cui estensore lo Zancani identifica col Cornazzano. Il corrispondente dell'Ungarelli registra fedelmente la data del fatidico incontro: è il 15 marzo 1456 ed egli, appena sfuggito alle insidie tesegli da amore durante un soggiorno a Ferrara, incontra nella chiesa di S. Maria in Campagna a Piacenza un'Angela Scotti, il cui fascino era esaltato da uno spirito affinato da educazione e cultura. All'amore ovviamente non ricambiato per Angela ed al tema della sofferenza esacerbata dalla lontananza della donna amata è dedicata gran parte del canzoniere conservatoci dal codice D'Orville 517 della Biblioteca Bodleiana di Oxford, che contiene ai ff. 1-49 i versi in volgare ed ai ff. 51-60 i carmi latini; questi ultimi sono anche nel codice PI. XXXIV. 50 della Mediceo Laurenziana di Firenze, mentre le sole liriche in volgare sono raccolte nel manoscritto XIII.D.20 della Biblioteca nazionale di Napoli e, in parte, nella miscellanea estense Ital. 838 (α.T.9.19) raccolta nel 1700 dal Muratori. A questi manoscritti va poi aggiunto il marciano Ital. cl. IX, 3503 al quale, secondo la segnalazione della Tissoni Benvenuti (La poesia lirica negli altri centri settentrionali, in Letteratura italiana: Storia e testi, III, 2, Bari 1972, pp. 394 s.), è affidata un'altra raccolta di versi intitolata Laura novella che accoglie "esempi di un petrarchismo molto ortodosso".
In effetti alle rime del C. bisogna riconoscere un considerevole livello di adeguamento al modello petrarchesco, presente insieme a reminiscenze dantesche ed a motivi attinti da La bella mano di Giusto de' Conti; proprio gli echi di questo canzoniere costituiscono elemento utile per precisare la data intorno alla quale il C. si dedicò alla sistemazione della propria produzione poetica: la fortuna de La bella mano ed il notevole influsso che esso esercitò sulla lirica contemporanea sono infatti conseguenti alla prima edizione dell'opera stampata a Bologna nel 1472. Che questa data vada accolta come termine post quem per la raccolta cornazzaniana è poi confermato dalla presenza di un sonetto dedicato ad Ercole d'Este in epoca successiva all'assunzione del ducato (1471); il secondo termine temporale è invece offerto dal sonetto in morte di Guglielmo Ungarelli la cui morte è di poco anteriore al 1476. Fra il 1472 ed il 1476 il C. attese, dunque, alla composizione del canzoniere, probabilmente in vista di una edizione forse suggeritagli dal successo della stampa di quello di Giusto de' Conti; il progetto, tuttavia, se formulato, non fu portato a compimento e solo nel 1502 Giacomo Filippo Pellenegra curava la prima edizione dei Sonetti e canzone stampata a Venezia da Manfrino Bon da Monferrato, facendo seguire alle liriche del C. due propri componimenti. Nel moltiplicarsi di iniziative editoriali volte alla diffusione della lirica contemporanea trovò spazio il recupero del canzoniere cornazzaniano, in significativa consonanza col giudizio espresso dal Calmeta (Prose e lettere edito e inedite, a cura di C. Grayson, Bologna 1959, p. 11) che nella poesia del C. vedeva un esempio di felice soluzione del rapporto fra naturale vocazione poetica ed elaborazione di modelli classici; rivelatesi in sintonia con gli indirizzi della ricerca letteraria del primo quarto del XVI secolo, le rime del C. ebbero almeno altre quattro edizioni, l'ultima nel 1519; nel primo ventennio del Cinquecento, in parallelo con la parabola della cosiddetta "teoria cortigiana", si esaurì anche la fortuna della lirica cornazzaniana.
Nel novembre del 1475, in sintomatica coincidenza con la morte del Colleoni avvenuta il 2 di quel mese, si inaugura l'ultimo periodo della vita del C., trascorso al servizio del duca Ercole d'Este: a partire, infatti, da allora egli risulta iscritto nel ruolo del personale retribuito dalla Camera ducale con uno stipendio ancora una volta modesto, 20 lire marchesane mensili corrispondenti ad 80 ducati annui, la stessa cifra, però, che verrà corrisposta dal cardinal Ippolito all'Ariosto. Fra i cortigiani egli fu assunto proprio in virtù della sua attività letteraria: è infatti con la qualifica di "poeta" che Ugo Caleffini registra il nome di lui in un elenco di "gentiluomini" di corte riferito al gennaio 1476 (Diario [1471-94], a cura di G. Pardi, I, Ferrara 1938. p. 132). Anche per gli anni trascorsi a Ferrara sono poche le notizie in nostro possesso, ma tutte suggeriscono l'immagine di una esistenza finalmente serena (D. Bianchi, nel saggio del 1967, sostiene che molte preoccupazioni gli vennero dalle intemperanze di un figlio illegittimo che sarebbe stato addirittura condannato a morte, ma della notizia non dà alcun riscontro); a Ferrara il C. prese anche moglie sposando in età matura Taddea Varro, di nobile famiglia ferrarese, e nel 1482 si trovava anche la suocera a carico.
Il Diario del Caleffini ci informa dei doni offerti dal C. al duca in occasione dell'Epifania: un cappone nel 1476, ancora un cappone e dieci forme di formaggio l'anno seguente; è invece da escludersi sia da identificarsi con lui l'Antonio Cornazzano ricordato in questi stessi anni negli Annali dei Ripalta, e che nel 1479 fu fra gli ambasciatori di Piacenza a Milano: in questo caso si tratterà verosimilmente dell'omonimo figlio di Giovanni Senese.
In contrasto con la scarsità di testimonianze intorno alla sua vita nel decennio ferrarese disponiamo di un buon numero di documenti della sua attività letteraria, tutti però riconducibili ai primi anni del soggiorno a Ferrara ed in rapporto con le vicende politiche del ducato. Giunto a Ferrara, dedicò a Giacomo Trotti, esponente di primo piano dell'amministrazione comunale e fratello di Paolo Antonio, potente segretario di Ercole I, un trattatello di quattro capitoli, il De motu fortunae, cheun accenno all'imminente matrimonio di Mattia Corvino con Beatrice d'Aragona permette di datare ai mesi immediatamente precedenti l'ottobre 1476; subito dopo con il De Herculei filii hortu et de urbis Ferrariae periculo ac liberatione (GW 7549; Zancani, 1979) commentò da leale servitore due avvenimenti di capitale importanza per le sorti del ducato: la nascita di Alfonso, primogenito e futuro successore del duca, ed il fallito colpo di Stato messo in atto da Niccolò di Leonello profittando della malattia di Ercole. Due anni più tardi, nel 1478, in occasione della reggenza di Eleonora il C. le dedicò il trattato, sempre in terzine, Del modo di reggere e di regnare il cui codice di dedica, arricchito da una splendida miniatura raffigurante la duchessa attribuita a Cosmè Tura, è oggi alla Pierpont Morgan Library di New York. I due trattati a Giacomo Trotti e ad Eleonora furono poi riprodotti nell'edizione dell'Opera nova per conto dello Zoppino nel marzo 1517 e ristampati, sempre per lo Zoppino, l'anno seguente; insieme a questi l'edizione raccoglie due capitoli nei quali si discute Se buona cosa è a maritarsi o no, riflesso forse della decisione maturata dallo stesso C. in quegli anni, ed un trattatello De integritate rei militaris dedicato a Carlo Fortebracci nel quale sono messi a confronto i più illustri capitani dell'antichità e sono individuate le virtù che si richiedono a chi esercita la professione delle armi: immediato precedente del più fortunato trattato dell'Arte militare, fu composto prima della morte del Colleoni - ricordato come vivente - forse in occasione dell'offerta di aiuto fatta dal figlio di Braccio all'anziano capitano, al tempo della sfida lanciatagli da Galeazzo Sforza.
L'Arte militare, tra tutte le opere composte dal C. a Ferrara, fu sicuramente la più fortunata; redatta originariamente in prosa, fu offerta ad Ercole d'Este in un codice che si conserva presso la Biblioteca Estense (Ital. 176-α.F.5.17). Da un accenno del primo libro alla congiura intesa a spodestare Ercole I ricaviamo che il C. si dedicò alla stesura dell'opera in epoca successiva al settembre 1476, per completarla prima della reggenza di Eleonora (1478): nel capitolo sesto del Modo di reggere e di regnare, infatti, là dove si tratta della necessità di assoldare buone milizie per garantire la sicurezza dello Stato, egli ricorda un'opera da lui già dedicata alla professione delle armi. Alla redazione in prosa il C. fece seguire una in terzine dedicata a Federico da Montefeltro, ed in questa veste il trattato fu stampato una prima volta nel 1494 (GW 7548) con una prefazione dell'editore, Pietro Benalio, a Francesco Gonzaga; ma una larga diffusione gli fu assicurata soprattutto dalla revisione cui lo sottopose Bernardo di Filippo Giunti che, pubblicandolo nel 1520, provvide a dargli veste toscana.
Negli anni ferraresi, dunque, troviamo il C. sempre più impegnato nell'affrontare temi politico-morali, senza però in questo dimostrare una particolare originalità o profondità di pensiero; per utilizzare una famosa formula del Principe egli sembra andar dietro "all'immaginazione" piuttosto che alla "verità effettuale" generando nel lettore il sospetto che se a lui non manca la "continua lezione delle cose antique" al punto da risultare fastidiosa, egli non abbia saputo mettere a frutto quell'"esperienzia" delle moderne che pure aveva avuto modo di acquistare in un trentennio di vita nelle corti dell'Italia settentrionale, a contatto con alcune delle personalità di maggior spicco della storia contemporanea. Seppure il confronto con il Machiavelli è d'obbligo per la consonanza di molte scelte, non possiamo chiedere al C. di uscire dai panni che più gli si addicono: quelli di un letterato di media cultura che mette il proprio estro letterario al servizio dei potenti per assecondarne le richieste e soddisfarne le aspettative.
A completare il quadro della produzione del C. nell'ultimo decennio della sua vita vanno infine ricordati il volgarizzamento in versi del Pronostico per il 1477 di Pietro Avogaro (GW 232); una Vita dello stesso conservata in un codice della Biblioteca Queriniana di Brescia (B.VII.13) e La reprensione del C. contro Manganello a lui attribuita nell'unica stampa che ce ne abbia conservato il testo.
Il C. morì a Ferrara in una data imprecisata compresa fra il 2 apr. 1483 ed il 14 maggio 1484.
Edizioni. Rare sono le ediz. moderne di opere del C.: il De vita et gestis Bartholomei Colei fu pubbl. dal Graevius nel Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae (IX, 7, Lugduni Batavorum 1723); piùtardi T. Landoni curava un'ediz. dei Proverbi in facetie per la Scelta di curiosità letter. inedite o rare dal sec. XIII al XIX (X, disp. 62, Bologna 1865) e una riproduzione diplomat. del Libro dell'arte del danzare appariva a cura di C. Mazzi in Bibliofilia del 1915 (XVII 1915-1161, pp. 6-30).
In questi ultimi anni un risveglio d'interesse per la produzione cornazzaniana ha favorito l'edizione di alcune opere minori: Il Manganello. La reprensione del Cornazzano contro Manganello, a cura di D. Zancani, Exeter 1982, e il De Herculi filiihortu et urbis Ferrariae periculo et liberatione (in Bollettino storico piacentino, LXXIV [1979], pp. 66-76), entrambi a cura di D. Zancani; la Fraudiphila a cura di S. Pittaluga (Genova 1980).
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